venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Detenute madri: perché godono di benefici?

Detenute madri

Non c’è in ambito criminale una cosiddetta “emancipazione femminile” ed è forse per questo che il diritto penitenziario ha trascurato di adeguarsi ai cambiamenti che sono avvenuti nella società in termini di diritti delle donne. Questo anche a proposito del problema che più di ogni altro pesa sulle donne detenute: il problema della maternità in carcere.

Per le ree madri, è prevista la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione in carcere, ovviamente solo ove ciò non comporti minacce per la sicurezza pubblica. L’Art. 47-quinquies comma 1 recita “Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo”.

Con riferimento alle detenute madri, la Corte Costituzionale, con sentenza 76/2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario), limitatamente alla parte in cui impedisce “in assoluto”, di espiare la parte iniziale della pena ai domiciliari a quelle donne che hanno commesso reati previsti dall’art. 4-bis. L’Articolo 47-quinquies, infatti, al comma 1-bis recita: “La detenzione domiciliare può essere applicata per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis”.

Secondo la corte Costituzionale, quindi, non si potrebbe negare in automatico il beneficio dei domiciliari alla detenuta madre nel rispetto del rapporto che questa ha con suo figlio.

Allo stato, dunque, il presupposto soggettivo per accedere alla misura della detenzione domiciliare è che si tratti di madre (o, nei casi previsti, di padre) di prole di età inferiore ai dieci anni, mentre quello oggettivo è dato dalla circostanza che la pena, o il residuo di pena, da scontare sia di quattro anni.

“Privare un bambino della figura materna, in quanto figlio di una detenuta, costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, oltre a essere sul filo dell’incostituzionalità”.

Già precedentemente, nel 2002, la corte era intervenuta su tale ordinamento al fine di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 47-ter nella parte in cui non prevedeva la concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante; ciò appariva violare il principio di ragionevolezza in quanto prevedeva un sistema rigido che precludeva al giudice, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, di valutare l’esistenza delle condizioni necessarie per un’effettiva assistenza psico-fisica da parte della madre condannata nei confronti del figlio portatore di handicap accertato come totalmente invalidante. Per valorizzare il rapporto tra madri e figli e per dare la possibilità alle madri di stare vicino ai propri bambini, il Parlamento ha approvato la Legge 21 aprile 2011, n.62. Pietra miliare della legge è l’Art. 1, con riferimento della misura della custodia cautelare prevedendo l’aumento da tre a sei anni dell’età del bambino.

Anche all’interno del codice penale al titolo V, capo II troviamo diverse disposizioni volte a tutelare la madre e la donna gravida :

L’Art. 146 del c.p. prevede il differimento obbligatorio della esecuzione della pena nei confronti delle madri di prole di età inferiore ad un anno, mentre nella formulazione precedente era richiesto che la donna avesse partorito da sei mesi o se l’esecuzione deve aver luogo, nei confronti di donna incinta. Tale beneficio, però, viene revocato nel caso in cui la madre sia dichiarata decaduta dalla potestà, la gravidanza sia interrotta o abbia dato in affidamento il figlio ad altri. La disposizione di cui sopra, fa riferimento non solo alle pene detentive ma anche alle sanzioni sostitutive della semidetenzione e libertà controllata.

L’art. 147 del c.p. prevede, invece, il rinvio facoltativo della esecuzione della pena ed è stato riformato, anch’esso nel senso di ampliare l’età minima della prole. Mentre prima della riforma il beneficio poteva essere concesso alle madri che avessero partorito da almeno sei mesi ma da meno di un anno, con la legge n. 40 del 2001, godono della possibilità di concessione del beneficio le madri con prole di età inferiore a tre anni sebbene tale beneficio non può essere adottato, ovvero se adottato è revocato, qualora sussista il concreto pericolo di commissione di delitti. Con sentenza 26678/2013 si è inoltre statuito che la madre non ha l’onere di provare l’affidamento del minore ad essa stessa, circostanza che sarà accertata dal p.m.

In definitiva la Legge tende ad attuare un regime, che, seppur restrittivo della libertà personale di una madre, sia connotato da una maggiore “clemenza”, ciò in considerazione del fatto che in una società civile non si può consentire che dei bambini crescano in strutture, purtroppo, tutt’ora orientate a tutelare la sicurezza a scapito della riabilitazione; tanto è vero che nonostante le molte previsioni normative volte a facilitare percorsi alternativi alla detenzione, alcune madri sono, tutt’ora,detenute con i propri figli di età inferiore ai a tre anni.

Valeria D'Alessio

Valeria D'Alessio è nata a Sorrento nel 1993. Sin da bambina, ha sognato di intraprendere la carriera forense e ha speso e spende tutt'oggi il suo tempo per coronare il suo sogno. Nel 2012 ha conseguito il diploma al liceo classico statale Publio Virgilio Marone di Meta di Sorrento. Quando non è intenta allo studio dedica il suo tempo ad attività sportive, al lavoro in un'agenzia di incoming tour francese e in viaggi alla scoperta del nostro pianeta. È molto appassionata alla diversità dei popoli, alle differenti culture e stili di vita che li caratterizzano e alla straordinaria bellezza dell'arte. Con il tempo ha imparato discretamente l'inglese e si dedica tutt'oggi allo studio del francese e dello spagnolo. Nel 2017 si è laureata alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, e, per l'interesse dimostrato verso la materia del diritto penale, è stata tesista del professor Vincenzo Maiello. Si è occupeta nel corso dell'anno di elaborare una tesi in merito alle funzioni della pena in generale ed in particolar modo dell'escuzione penale differenziata con occhio critico rispetto alla materia dell'ergastolo ostativo. Nel giugno del 2019 si è specializzata presso la SSPL Guglielmo Marconi di Roma, dopo aver svolto la pratica forense - come praticante avvocato abilitato - presso due noti studi legali della penisola Sorrentina al fine di approfondire le sue conoscenze relative al diritto civile ed al diritto amministrativo, si è abilitata all'esercizio della professione Forense nell'Ottobre del 2020. Crede fortemente nel funzionamento della giustizia e nell'evoluzione positiva del diritto in ogni sua forma.

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