Il dibattito dottrinale sul dolo e la coscienza dell’offesa: si può parlare di dolo se l’agente non era consapevole dell’illiceità della sua condotta?
La soluzione della sentenza Corte Cost. n. 364/88.
Uno dei principali nodi della teoria del dolo, nel diritto penale, riguarda se il dolo includa nel suo oggetto la c.d. coscienza dell’offesa. L’offesa, innanzitutto, secondo una prima accezione, può significare antigiuridicità o illiceità penale del fatto; in secondo luogo, essa può ritenersi influenza negativa del fatto su interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, a prescindere dalla conoscenza della norma penale incriminatrice. I due profili hanno generato un’accesa ed intricata disputa che, per molto tempo, ha caratterizzato i rapporti tra il dolo e l’offesa, fino all’intervento della Corte Costituzionale (sent. 364/88) che ha trovato un equilibrio tra le due fattispecie.
-A lungo, infatti, la dottrina dominante ha sostenuto l’inderogabile “vigenza del principio dell’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, sancito dall’art. 5 del codice penale nella originaria formulazione”.[1] Questa era considerata una norma di sbarramento che, come tale, non permetteva di accedere ad ipotesi di scusabilità dell’ignorantia legis, determinando l’impossibilità di includere nel dolo la conoscenza dell’illiceità penale (di rimando all’antico brocardo romano ignorantia legis non excusat).
-Dunque, in un primo momento (negli anni ’60) si cercò di attenuare l’eccessiva rigidità dell’art.5 c.p. e parte della dottrina scisse il concetto di offesa dall’antigiuridicità penale, in modo tale da intenderla come “lesione dell’interesse protetto considerato nella sua dimensione fattuale, pregiuridica”[2]. In questo modo, il dolo non abbracciava la conoscenza dell’illiceità penale, bensì soltanto “la consapevolezza che il fatto commesso è dannoso perché pregiudica interessi socialmente rilevanti”[3]. Così, parlando di consapevolezza “sociale”, si poteva affermare che qualunque agente, quale cittadino comune, potesse facilmente rendersi conto della dannosità delle proprie azioni. In altre parole, l’offesa fu considerata “in un senso fattuale o sostanziale, come pregiudizio, effettivo o potenziale, ad interessi protetti percepiti nella loro dimensione”[4] e non in senso giuridico. In questo modo, l’offesa come oggetto del dolo risultava del tutto coerente.
-Non mancarono, però, altre teorizzazioni. Parte della dottrina tradizionale, infatti, ha elaborato una teoria sulla consapevolezza dell’antisocialità del fatto. Per superare l’ostacolo dell’art. 5 c.p., “ai fini della sussistenza del dolo sarebbe necessaria la consapevolezza dell’antisocialità del fatto, della circostanza, cioè che la condotta contrasta con le esigenze della vita in comune nel senso che il soggetto deve rendersi conto di far male ad altri, di ledere interessi che non gli appartengono.”[5] Però, l’agente potrebbe non essere consapevole della dannosità della sua condotta, per cui la valutazione va effettuata secondo i “criteri valutativi”[6] della comunità sociale. Ai fini della configurabilità del dolo, in questo modo, è sufficiente che il soggetto sappia che il suo comportamento sia ritenuto antisociale dalla collettività. Tuttavia questa teoria ha riscontrato alcune obiezioni difficilmente superabili.
-A. Pagliaro propone una tesi diversa. Egli sostiene che per configurare il dolo occorre qualcosa in più della volontà del fatto tipico e qualcosa in meno rispetto alla consapevolezza dell’antisocialità del fatto.[7] Ciò che è necessario è la “volontà dell’evento significativo”, cioè, “la volontà di quel significato umano e sociale che l’accadere possiede e che corrisponde al significato scolpito nella fattispecie penale”[8].. In altre parole, l’agente può anche non sapere che il fatto costituisce reato a causa della sua cultura, quindi bisogna verificare che, per esempio, il ladro, nel reato di furto ex art. 624 c.p., avesse la volontà effettiva di sottrarre la cosa. Secondo il Pagliaro, anche se, per il diritto, una condotta integra una fattispecie di reato, tuttavia, in ogni caso concreto, resta un margine per provare che pur voluto il fatto, non è stato voluto il significato.
-Questo dibattito dottrinale, ha perso in parte rilevanza, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, che ha dichiarato parziale incostituzionalità dell’art. 5 del codice penale nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.
Ora, nel nostro ordinamento, si può ammettere, in alcuni casi, che l’ignoranza scusabile dell’antigiuridicità penale esclude la colpevolezza, quindi la responsabilità penale.
La sentenza n. 364/1998 della Corte Costituzionale ha sostenuto di riuscire a trovare un equilibrio fra i bisogni contrapposti di salvaguardare il principio ex art. 5 c.p. e di garantire l’efficacia della legge penale. Infatti, “agli effetti dell’esistenza del dolo non è necessario che il soggetto agente si rappreseti l’illiceità della propria condotta; la supposizione erronea di agire lecitamente dovuta ad ignoranza od errore di diritto inevitabile esclude tuttavia la responsabilità penale”.[9] Ciò vuol dire che, “il soggetto può considerarsi colpevole solo ove la conoscenza della norma penale fosse possibile, ovviamente fermo restando il generale principio di solidarietà sancito nell’art. 2 Cost., che pone a carico di ciascun consociato un dovere strumentale di informazione e conoscenza della legge penale.”[10] Il soggetto agente sarà responsabile ogni volta che l’ignoranza della legge penale derivi dalla violazione del dovere di informazione. Viceversa, il soggetto non sarà responsabile qualora, pur adempiendo al dovere di informazione, si ravvisi un’ignoranza inevitabile, cioè insuperabile.
In conclusione, “l’errore di diritto scusabile, in quanto dovuto ad ignoranza inevitabile, è configurabile solo in presenza di una oggettiva e insuperabile oscurità della norma o del complesso di norme da cui deriva il precetto penalmente sanzionato.”[11]
[1] FIANDACA G., MUSCO E., (2009). Diritto penale, parte generale. Zanichelli editore, 354 ss. L’articolo in questione sanciva che nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale.
[2] FIANDACA G., MUSCO E., op. cit.
[3] FIANDACA G., MUSCO E., op. cit.
[4] FIANDACA G., MUSCO E., op. cit.
[5] Tratto da www.laleggepertutti.it.
[6] ANTOLISEI F., (2003). Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 319.
[7] Tratto da www.altalex.com.
[8] PAGLIARO A., (2003). Principi di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 290 ss.
[9] GROSSO C. F., (1989), voce Dolo (dir. Pen.) in Enc. giur. Treccani, Vol. XII, Roma.
[10] Tratto da www.brocardi.it.
[11] Tratto da www.brocardi.it.
Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli.
Iscritta all’Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano.
Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo “Il dolo eventuale”, con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello.
In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici.
Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere.
Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell’organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.