Diritti fondamentali dell’individuo e lotta alla criminalità: la Corte Edu difende l’art. 3 della Convenzione
“Lo Stato deve assicurare che una persona sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità e il metodo di esecuzione della misura privativa della libertà non la sottopongano a sacrifici o privazioni di intensità superiore all ’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione”: lo dichiara la Corte Europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 55080/13, pronunciandosi in definitiva sulla questione relativa al giusto bilanciamento tra l’art. 41 bis della legge sull’Ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975 n. 354) e l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La questione sottoposta al vaglio della Corte, costituiva l’essenza del ricorso con il quale i familiari ricorrenti lamentavano l’inosservanza da parte dello Stato italiano dell’art. 3 CEDU, in relazione sia alla mancanza di adeguate cure mediche all’interno del carcere nel quale era internato il Provenzano, sia alla protrazione dell’applicazione del regime detentivo speciale cui lo stesso era sottoposto , considerato il suo stato di salute. Il ricorso veniva presentato in data 25 luglio 2013, in particolare, 10 giorno dopo la morte di Provenzano.
L’art. 3 della Convenzione, di cui i ricorrenti denunciavano la violazione, proibisce la tortura ed il trattamento o la pena inumana o degradante, ed è definito dalla Corte “un principio fondamentale delle società democratiche”.
Mentre per la doglianza relativa all’ inadeguatezza delle cure mediche e agli altri aspetti delle condizioni di detenzione, la Cedu nega la violazione dell’art. 3 della Convenzione (stante l’accertamento dell’adeguatezza delle cure offerte); maggiori problemi sollevava la doglianza relativa alla protrazione dell’applicazione del regime speciale di cui all’articolo 41 bis.
Va premesso che l’art. 41 bis (cd. carcere duro) costituisce una misura di prevenzione alla commissione di reati di particolare gravità, stabilendo una profonda restrizione al regime penitenziario ordinario e all’esercizio di taluni diritti dei detenuti. Infatti, lo stesso prevede che nel caso in cui ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il Ministro della giustizia può sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituiti previsti dall’ordinamento penitenziario che possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza nei confronti dei detenuti o internati per reati di mafia, terrorismo e altri delitti di particolare gravità indicati nel primo comma dell’art. 4 bis . E’ evidente che la ratio della norma risiede nell’ evitare qualsiasi comunicazione del detenuto con le organizzazioni criminali operanti al di fuori del carcere. Alla luce di ciò, ci si chiedeva fino a che punto l’esigenza di troncare qualsiasi collegamento con l’esterno potesse giustificare la proroga delle restrizioni imposte al detenuto.
A monte, bisogna tener conto del fatto che l’ordinamento penitenziario del 1975 aveva innovato profondamente la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva, attribuendole la specifica funzione educativa- risocializzante imposta dalla Costituzione, al fine di perseguire lo scopo del reinserimento sociale dei detenuti. Per questo motivo, il trattamento deve essere individualizzato, ossia deve rispondere ai “particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (ai sensi dell’art. 13, co. 1, l. 354/75).
In questo senso, allora, si richiedeva di accertare in concreto la legittimità delle proroghe delle restrizioni previste dal 41 bis al condannato, in relazione alle condizioni di salute dello stesso che con il passare degli anni, diventavano sempre più critiche. Dalla prima proroga del 2012, fino all’ultima del 23 marzo del 2016, gli esperti medici avevano accertato la totale mancanza di autonomia nell’ esecuzione delle elementari funzioni quotidiane, al punto che il detenuto doveva essere totalmente idratato e nutrito in modo artificiale a causa della sua incapacità di alimentarsi. Infine, nel 2014 è stato definito incapace di relazionarsi con il mondo esterno e di prendersi cura di sé.
Il totale svilimento delle funzioni cognitive di Provenzano aveva sollevato, allora, dubbi sulla persistente pericolosità del ricorrente e sulla sua capacità di mantenere collegamenti significativi e costruttivi con il sodalizio criminale di cui faceva parte, in contrasto con la ratio del 41 bis.
Sulla base di ciò, la Corte non ha ritenuto giustificabili gli originali motivi per i quali il regime del 41 bis era stato applicato, condannando lo Stato italiano per la violazione dell’art. 3 CEDU, per il periodo successivo alla proroga del 23 marzo 2016[1].
Il caso in esame ha inevitabilmente turbato l’opinione pubblica, trovatasi nella chiara impossibilità di giudicare, con distacco ed impassibilità, la vicenda.
Il problema posto al centro della pronuncia della Corte Edu è abbastanza chiaro: si richiedeva, in pratica, di contemperare, da un lato, la tutela della collettività, dall’ altra quella del singolo e della sua dignità, qualora esposto a limitazioni della libertà privata, giustificate dalla sua permanente pericolosità.
E’ interessante osservare come questa non sia la prima volta che la Corte di Strasburgo prende posizione sulla questione del rispetto dell’art. 3 CEDU per i condannati di gravi reati di mafia.
Si pensi al caso Attanasio c. Italia[2], con cui la Corte nel 2007 ha dichiarato l’irricevibilità del ricorso presentato dal condannato al regime del carcere duro. In tale circostanza, però, i giudici europei hanno ritenuto non sufficientemente provate le motivazioni per le quali si denunciava la sottoposizione del ricorrente a maltrattamenti e torture, sottolineando come l’art. 41 bis non costituisce, di per sé, un trattamento disumano o degradante.
Ancora, l’art. 3 veniva richiamato nella sentenza con cui, nel giugno del 2017, la Cedu si era pronunciata sul caso Riina. Con la pronuncia in commento, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza con la quale, a sua volta, veniva rigettava l’istanza di differimento della pena o di detenzione domiciliare per i motivi di salute del Riina. La Corte riteneva che l’ordinanza non fosse stata adeguatamente motivata: in particolare, non provava l’attualità della pericolosità sociale del soggetto, tale da legittimare la proroga del regime del carcere duro, considerando il decadimento fisico dello stesso. I giudici di Strasburgo, seppur confermando “l’altissima pericolosità sociale del detenuto e il suo spessore criminale”, faceva riferimento all’esistenza del diritto ad una morte dignitosa[3].
Quest’ultima sentenza si pone nel solco tracciato dalle diverse pronunce con cui la Corte è intervenuta in materia, riproponendo la questione relativa al rapporto tra criminalità e dignità, tra misure di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali.
[1] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25 ottobre 2018, causa Provenzano c/Italia:
[2]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,13 novembre 2007, caso Attanasio c/Italia:
[3] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 19 marzo 2013, causa Salvatore Riina c/Italia: