venerdì, Aprile 19, 2024
Di Robusta Costituzione

Diritto all’abitazione e quarantena: limiti delle misure di contenimento del Coronavirus

Il presente articolo è la prosecuzione di alcune riflessioni sul diritto all’abitazione che sono emerse con insistenza durante i mesi di restrizioni dovute all’emergenza da coronavirus. Con il  primo scritto, intitolato “Diritto all’abitazione e quarantena: l’adeguatezza degli spazi abitativi”, si indagava sulle caratteristiche dello spazio abitativo in relazione alle funzioni di altissima rilevanza costituzionale che vi si svolgono; con questo secondo intervento si proverà a trarre alcune conseguenze dalla perdurante questione – prevalentemente socio-economica – della mancanza assoluta di un’abitazione.

Sull’origine ermeneutica e sulla collocazione costituzionale di questo diritto esistono ampia dottrina e una certa giurisprudenza, alle quali ci si limiterà a richiamarsi con alcuni cenni introduttivi, mentre in questa sede l’intento, più limitato, sarà quello di fornire alcuni spunti sulla natura da attribuire all’abitazione come diritto sociale, anche in considerazione, oggi, delle misure atte a fronteggiare il Covid-19.

  1. Cenni sull’abitazione come diritto sociale

“Sono soprattutto quelle clausole generali in cui si esprime il principio personalista, quali il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), la pari dignità sociale (art. 3, comma 1) e soprattutto, nel campo dei diritti sociali, il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2) a rendere possibile (e doverosa) la continua e progressiva ricerca di nuovi bisogni di tutela emergenti nella società. Sono, insomma, queste categorie concettuali che rendono dinamica la struttura e la funzione di garanzia e promozione della persona propria dei diritti fondamentali”[1].

Non è certo una novità, o un bisogno frutto dei tempi, la necessità che ciascun consociato possa procurarsi o vedersi attribuita un’abitazione adeguata al sano e proficuo svolgimento della propria vita.

Il diritto all’abitazione, però, non trova una propria autonoma collocazione giuridica all’interno della Costituzione repubblicana, tanto che è stato per lo più fatto discendere, specie per via giurisprudenziale, dall’unica disposizione che vi fa espresso riferimento, cioè l’art. 47 che si riferisce, però, letteralmente al risparmio popolare il quale, adeguatamente incentivato dallo Stato, dovrebbe consentire l’accesso alla casa.

La stessa Carta Sociale Europea, all’art. 31, impegna gli Stati a “prendere misure destinate: a favorire l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente; a prevenire e ridurre lo status di”senza tetto”in vista di eliminarlo gradualmente; a rendere il costo dell’abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti”.

L’accento in tal caso va posto naturalmente sull’impiego di termini come “favorire” e “ridurre”, che sono propri di quella che, d’altra parte, è più che altro una dichiarazione d’intenti, produttiva di una vincolatività che si misura con maggiore riguardo all’impegno profuso dal singolo Stato, che in riferimento ai risultati che possono o no venire raggiunti dal medesimo[2].

Sembrerebbe, così, che solamente a livello strettamente internazionalistico, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo in primis, il diritto all’abitazione sia stabilito sic et simpliciter, senza condizioni e formule limitative particolari.

L’impostazione però che, basandosi su un’interpretazione forzatamente letterale dell’art. 47 Cost., volesse ridurre il diritto all’abitazione al ruolo di mera buona politica – si potrebbe dire, dal punto di vista amministrativo, buona prassi – da parte dello Stato e degli enti locali, sarebbe certamente criticabile in quanto renderebbe tale previsione priva della reale sostanza di un diritto, limitandosi piuttosto ad un dovere tra l’altro nemmeno di conseguire un prescritto risultato, ma solamente “agevolativo” di ciò che costituirebbe poco più di un auspicio.

Al contrario, la sicurezza di un’abitazione adeguata alle esigenze di chi vi risiede è presupposto indefettibile per il godimento di molte importanti garanzie costituzionali che – com’è in genere per i diritti fondamentali – sono oltretutto riconosciute non solo ai cittadini, ma a tutti le persone, anche di diversa nazionalità e provenienza, in quanto esseri umani[3].

In questo senso, d’altronde, con specifico riferimento all’abitazione, si esprime da tempo la dottrina più attenta allo svolgersi concreto della vita in società e anche la stessa giurisprudenza, che pure, nonostante tale portata universalistica del diritto, alterna decisioni di diverso segno in relazione alle concrete misure di tutela[4].

Se una certa discussione, infatti, vi può essere sull’estensione e sulla doverosità di specifici interventi da parte delle varie articolazioni della Repubblica al fine di garantire il diritto in questione, è ormai pacifico che l’abitazione si configuri come espressione concreta di una serie di diritti fondamentali presupposti, tra cui come minimo si possono individuare: la riservatezza del domicilio, come corollario della libertà personale, la tutela della famiglia e dell’infanzia, la tutela della salute.

Inoltre, come premesso, il diritto all’abitazione è altresì espressione dei principi fondamentali di dignità – non a caso si parla di dignità “umana” – e uguaglianza, che la Costituzione riconosce come veri e propri fondamenti, insiti nella natura delle cose e non disponibili da parte del legislatore, nemmeno di rango costituzionale, esplicitati dalla Carta come guida per l’applicazione in concreto delle previsioni conseguenti.

Dai presupposti così riassuntivamente riportati, il diritto all’abitazione e, dunque, l’esistenza stessa di una casa nella disponibilità di ciascuno si configura quale parte integrante di quel nucleo di garanzie che circondano lo status della persona umana, riconosciuto e tutelato dalla Repubblica anche tramite veri e propri diritti ad una prestazione, quali possono in parte essere considerati i diritti sociali, tra cui quello di cui si discute.

2. La disciplina d’emergenza e le criticità dell’imperativo “stare a casa” di fronte alla questione abitativa

Che i diritti sociali in genere, accogliendo solo per semplicità questa formale distinzione che pure si presta a numerose critiche, siano mezzo rilevante se non, di frequente, indispensabile o esclusivo per il compimento dei diritti civili e degli obiettivi assegnati alla Repubblica dalla Costituzione repubblicana, è cosa nota e piuttosto scontata alla prova dei fatti.

Con riferimento all’abitazione, l’emergenza sanitaria che l’Italia ha vissuto a partire dal mese di febbraio e per tutta la primavera del 2020, a causa del virus Covid-19, ha evidenziato questa circostanza in modo particolare.

L’8 marzo 2020 veniva istituito l’obbligo di munirsi di autocertificazione per giustificare i propri spostamenti all’interno delle zone interessate dal maggiore rischio epidemiologico, restrizione estesa a tutta l’Italia con il Dpcm del 9 marzo 2020, in vigore dal giorno successivo.

Con vari adeguamenti susseguitisi nel corso delle settimane, l’imperativo è comunque rimasto molto chiaro: “stare a casa”, o incorrere in sanzioni penali o amministrative.

L’art. 4 del Dpcm 8 marzo 2020, a tal proposito, recitava: “salvo che il fatto costituisca più grave  reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6”.

Sull’opportunità e sulla stessa legittimità di questo rinvio ad una c.d. norma penale in bianco – quale è l’art. 650 c.p. – si sono espressi ampiamente i commentatori, in modo per lo più molto critico, tanto sul versante costituzionalistico, quanto su quello penalistico[5].

Da un lato, infatti, ci si è interrogati sull’impiego dello strumento del Dpcm in ordine sia alla ripetuta limitazione della libertà personale, che pure data l’eccezionalità del caso non pare porsi al di fuori dei limiti costituzionalmente garantiti[6], dall’altro, il testo stesso dell’art. 650 mal si concilia con un’applicazione generalizzata ove il decreto medesimo dovrebbe configurarsi quale “ordine dell’autorità”.

Tanto premesso, posto che l’obbligo così penalmente sanzionato era quello che si riassumeva nel dovere di restare a casa se non per le poche e certificate ragioni da esibire nell’autocertificazione, si palesa come il fulcro della tutela della salute pubblica, da un lato, e del comportamento idoneo a realizzare nella pratica la fattispecie astratta di reato, dall’altro, fosse proprio l’obbligo e la possibilità al contempo di stare a casa.

Ecco che l’abitazione si vede improvvisamente riconosciuta una centralità pressoché scomparsa dal dibattito politico contemporaneo, per iniziativa prima di organizzazioni di volontariato[7] ed enti locali[8], ma posta ben presto all’attenzione dello stesso Governo[9], poiché intorno all’esistenza nella propria disponibilità e al godimento di una casa ruota la misura di protezione della salute pubblica cui lo Stato ha sostanzialmente affidato le buone sorti di ciascuno.

È in questa fase che rileva come il diritto all’abitazione non abbia mai trovato quella pienezza di garanzie nemmeno a livello programmatico, se non periodicamente e in epoche e contesti ormai piuttosto remoti, come quello che aveva ispirato la legge sul c.d. “equo canone”[10].

L’emergenza epidemiologica che ha dato luogo ai provvedimenti di cui sopra si presta a due considerazioni di ordine costituzionale, con specifico riferimento alla questione abitativa.

In primo luogo, quanto alle sanzioni penali che il legislatore ha ritenuto di comminare per l’inosservanza del decreto, l’applicazione in concreto di questa previsione – assumendone ai fini di questa esposizione la validità dal punto di vista del diritto penale – deve comunque fare i conti con il principio di ragionevolezza, che la Corte Costituzionale ricava fin dai suoi esordi dall’art. 3 Cost[11].

Esso, infatti, verrà certamente opposto da chi, non possedendo un’abitazione, si trovi nell’impossibilità di rispettare la norma. Ciò, con riferimento alle restrizioni di questi mesi di lockdown, non sembra seriamente essere posto in discussione e, d’altra parte, il cittadino ha certamente i mezzi anche processuali per far valere questa fondamentale “irragionevolezza” nelle varie discipline, specialmente in campo penale e amministrativo, sulla base della generale considerazione di diritto ed esperienza che ad impossibilia nemo tenetur; ciò non ha impedito tuttavia alle cronache di riportare numerosi esempi di sanzioni comminate anche a chi non fosse, almeno apparentemente, nella condizione di poter rispettare tali misure.

Così non fosse, colui che vede più a rischio la sua stessa salute, poiché lo Stato prevede a sua protezione una misura la cui messa in atto gli risulta impossibile, rischierebbe paradossalmente di vedersi contestare come illecito la sua stessa indigenza, dunque una manifestazione della diseguaglianza che caratterizza la sua situazione personale e che la Repubblica, al contrario, dovrebbe aver provveduto a rimuovere.

In questo caso sarebbe dunque evidente il paradosso, e quindi l’irragionevolezza, nel richiedere il rispetto di una norma a chi è privo dei presupposti di fatto[12] che lo Stato si sarebbe dovuto incaricare di garantirgli, almeno per il caso in cui egli non sia stato in grado di provvedervi adeguatamente con i suoi soli mezzi.

Al di là della questione giuridica concernente l’oggetto del reato ex art. 650 c.p., d’altra parte, dal punto di vista socio-politico condannare il senzatetto a causa della sua stessa condizione sarebbe, in un certo senso, come condannare il povero in quanto tale, invece di perseguire attivamente politiche di contrasto alla povertà.

Un atteggiamento di questo tipo, di certo non voluto comunque dall’odierno legislatore, si potrebbe assimilare per certi versi alla ratio che ha caratterizzato il reato di vagabondaggio, in tempi più remoti, e la rilevanza penale dell’accattonaggio, esclusa dalla Corte Costituzionale nel 1995[13] e, di per sè, contraria ai principi della Costituzione del 1948.

Il secondo e più importante aspetto che viene in luce, più strettamente legato al profilo dell’abitazione, è quello legato all’art. 3 co. 2 Cost., e cioè al cosiddetto principio di uguaglianza sostanziale, nonché al connesso art. 2 che impone la salvaguardia della dignità della persona.

La portata universale della dignità umana e del principio di uguaglianza, infatti, non possono tollerare che il reddito, la classe sociale, la Nazione o la famiglia di origine condizionino il godimento dell’apparato di garanzie che discendono dai fondamenti dello Stato contemporaneo che è, anche e in parte fondamentale, Stato sociale.

È per questa ragione che la Repubblica si deve fare parte attrice, provvedendo a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitino di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini: si tratta di una previsione di scopo che non può essere ignorata e impone anzi un’azione da parte degli organi e delle articolazioni della Repubblica, ovvero politiche pubbliche adeguate e sufficienti previsioni di spesa.

Il paradosso di proteggere i diritti fondamentali, in questo caso precisamente la salute, su presupposti che non sono condivisi dalla totalità dei consociati, mette in discussione ancora una volta il controverso tema della possibilità che i diritti sociali siano condizionati dalle esigenze di bilancio[14], tesi che negli ultimi anni ha ripreso vigore specie per mezzo dell’appiglio normativo offerto dal rinnovato art. 81 della Costituzione[15], ma su cui la Corte non ha mancato di pronunciarsi.

3. Conclusioni: per una lettura “forte” del diritto all’abitazione

Per le ragioni sopra esposte, a suggerire la necessità costituzionale di una politica abitativa efficace sarebbero sufficienti i principi pacificamente fondamentali che circondano la casa come stato di fatto, cioè come luogo del godimento dei propri diritti.

Inoltre, qualora si volesse approfondire l’esame delle fonti per circondare il diritto all’abitazione di una inscalfibile sfera di autonomia, sarebbe possibile senza dubbio fare riferimento al Trattato di Lisbona, alla Carta di Nizza, alla Carta Sociale Europea oppure al Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. Tanto basta per fare dell’abitazione un diritto costituzionalmente garantito a tutti gli effetti.

Il limite che finora ne ha impedito l’adeguato sviluppo, però, è connaturato piuttosto a quell’interpretazione, tipica degli ultimi due decenni, per cui si è talvolta ritenuto di poter distinguere diritti “sociali” in senso stretto, cioè diritti a una prestazione sociale – e sarebbe il caso, come si è visto, anche dell’abitazione, oltre che di molti altri diritti direttamente previsti in Costituzione, come ad esempio quello alla salute, che necessitano della garanzia di una vera e propria prestazione – che sarebbero concretamente garantiti soltanto qualora compatibili con il bilancio dello Stato, e diritti fondamentali da tutelare in ogni caso.

Per offrire tutela al “nucleo inviolabile” dei diritti fondamentali però – che la Corte Costituzionale riconosce come limite ineludibile al bilanciamento tra diritti e interessi collettivi, quale si qualificherebbe quello inerente il pareggio di bilancio[16] – specie nei momenti di crisi, come quella epidemiologica, si nota come una tutela sociale penetrante sia nella maggior parte dei casi vero e proprio mezzo per garantire il nucleo essenziale che nessuna discrezionalità e nessuna crisi può denegare.

Limitare la portata di diritti sociali come quello all’abitazione alla predisposizione di interventi di agevolazione o di incentivo, comporta sostanzialmente la rinuncia a garantire anche quel nucleo inattaccabile dei propri diritti alle categorie più svantaggiate, nel momento in cui l’andamento quotidiano della vita, che in qualche modo garantisce loro comunque la sopravvivenza, venisse turbato da eventi di portata eccezionale come il Covid-19.

Fa notare Carlassare, con riferimento alla compressione di alcuni diritti a causa di scelte di bilancio, che “la linea di politica economica è indicata dalla Costituzione, indicati gli obiettivi e non è nella libera scelta del legislatore sacrificarne alcuni, tanto più in tempo di crisi, quando si fa anzi più rigoroso e stringente l’obbligo di impiegare le risorse disponibili secondo le priorità indicate dalla Costituzione e distinguere le destinazioni di fondi costituzionalmente doverose da quelle consentite o addirittura vietate”[17].

Si deve dunque considerare l’abitazione un diritto a tutti gli effetti, da conseguire attraverso il risparmio – e dunque il lavoro, che a sua volte risponde a precisi requisiti di adeguatezza – come via preferenziale e altrimenti mediante appositi indirizzi di politica economica, e secondariamente, con riferimento ai citati diritti – pur molto più protetti in astratto dalla Corte e dal legislatore – che si svolgono anche per mezzo della medesima, essa deve essere adeguata, escludendosi a tal fine che basti un mero riparo[18].

[1] G. Scotti, Il diritto alla casa tra la Costituzione e le Corti, Forum di Quaderni Costituzionali, 18/09/2015.

[2] Sul tema: G. Guiglia, Il diritto all’abitazione nella Carta Sociale Europea: a proposito di una recente condanna dell’Italia da parte del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, Rivista AIC, n. 3/2011.

[3] Per esempio: A. Tranfo, Un profilo del diritto all’abitazione: l’edilizia residenziale pubblica per gli stranieri (a margine della sent. N. 106/2018 della Corte Costituzionale), Consulta Online, n. 2/2018; F. Pallante, Diritto alla casa, il rovesciamento della Costituzione, Il Manifesto, 06/09/2018.

[4] Nel senso della più ampia protezione del diritto all’abitazione: Corte cost. n. 217 del 25 febbraio 1988 e poi Corte cost. n. 404 del 7 aprile 1988 per cui è “doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione”. Conferma la qualificazione come diritto fondamentale della persona Corte cost. n. 119 del 24 marzo 1999. Sul contemperamento con le esigenze di bilancio, invece, si pronunciano Corte cost. n. 252 del 16 maggio 1989, confermata dalla sent. n. 121 del 15 aprile 1996, per cui “come ogni altro diritto sociale, anche quello all’abitazione, è diritto che tende ad essere realizzato in proporzione alle risorse della collettività”.

[5] Per questa stessa rivista, si veda ad esempio M. E. Orlandini, L’applicazione dell’art. 650 c.p. e l’esodo legato al COVID-2019, Ius in Itinere, 08/03/2020 <https://www.iusinitinere.it/lapplicazione-dellart-650-c-p-e-lesodo-legato-al-covid-2019-25955>.

[6] Sulla progressiva limitazione delle libertà e sulla regolamentazione dell’emergenza, operati anche per mezzo dei Dpcm, si vedano rispettivamente: F. M. Storelli, La graduale limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali nella stagione del coronavirus, Ius in Itinere, 28/03/2020 <https://www.iusinitinere.it/la-graduale-limitazione-dei-diritti-e-delle-liberta-fondamentali-nella-stagione-del-coronavirus-26470>; G. Comazzetto, N. Fuccaro, Il diritto e l’epidemia: regolare l’emergenza, Pandora Rivista, 20/05/2020 <https://www.pandorarivista.it/articoli/diritto-e-epidemia-regolare-l-emergenza/>.

[7] Per esempio, si veda l’appello di Avvocati di Strada Onlus <https://www.avvocatodistrada.it/io-vorrei-restare-a-casa-ma-se-una-casa-non-ce-lho-appello-al-presidente-del-consiglio-ai-presidenti-delle-regioni-e-ai-sindaci-dei-comuni/>.

[8] Numerosi sono stati gli interventi di contributo pubblico al versamento dei canoni di locazione, in ogni parte d’Italia. Si possono ricordare, a titolo esemplificativo, i contributi previsti dal Comune di Milano e quelli della Regione Sicilia.

[9] Art. 103 co. 6 D.L. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Cura Italia”: “L’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, e’ sospesa fino al 30 giugno 2020”, termine prorogato in sede di conversione al 1 settembre.

[10] Legge 27 luglio 1978, n. 392.

[11] C. Cost. 17 febbraio 1960, n. 15.

[12] M. Fierro (a cura di), La ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Aa.Vv., I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle corti europee, servizio studi Corte Costituzionale, 07/2013.

[13] F. Curi, Il reato di accattonaggio: “a volte ritornano”, Diritto Penale Contemporaneo, 21/01/2019.

[14] M. Luciani, I livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria tra Stato e Regioni, in E. Catelani, G. Cerina-Ferroni, M.C. Grisolia (a cura di) Diritto alla salute tra uniformità e differenziazione, Giappichelli, Torino, 2011: “quando si dice che vi sono diritti che soffrono del condizionamento delle esigenze di bilancio si fa un’affermazione in astratto condivisibile, ma in concreto opinabile. Le risorse di bilancio disponibili, in effetti, non sono veramente un dato, bensì una variabile indipendente. Per essere più precisi: il totale delle risorse economiche disponibili per un concreto sistema sociale è rappresentato, ovviamente, da una quantità definita e non illimitata, ma non è affatto un dato la distribuzione di quel totale. Nondimeno, nei sistemi costituzionali avanzati (dei Paesi economicamente progrediti), queste risorse sono così elevate che il problema sta assai meno nel loro totale che non – appunto – nella loro distribuzione tra i vari impieghi. La questione, allora, non è se vi siano o meno le risorse per soddisfare adeguatamente il diritto […], ma se vi sia o meno la volontà politica di destinare a questo impiego le somme necessarie, distogliendole da altre utilizzazioni”.

[15] L.cost. 20 aprile 2012, n. 1.

[16] A. Michieli, F. Pizzolato, La Corte garante della complessità nel bilanciamento tra diritti sociali ed esigenze finanziarie, in Quaderni Costituzionali, n. 1/2018.

[17] L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, Costituzionalismo.it, n. 3/2015.

[18] Sul punto, si rimanda ampiamente all’articolo citato in premessa.

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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