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Diritto d’asilo e protezione internazionale: la protezione sussidiaria e temporanea

Questo articolo rappresenta il secondo contributo di una rubrica giuridica dedicata ai temi del diritto d’asilo e della protezione internazionale così come disciplinati ai sensi del Sistema comune europeo di asilo (CEAS) e della pertinente normativa convenzionale internazionale. Il primo articolo è disponibile qui.

Tanto l’ordinamento europeo, quanto quello internazionale, disciplinano lo status di rifugiato[1]. Esclusive, invece, dell’Unione Europea, sono due ulteriori forme di protezione, previste dall’art. 78, par. 2, TFUE: la protezione sussidiaria e la protezione temporanea.

La protezione sussidiaria

Offerta come garanzia ulteriore ed alternativa rispetto allo status di rifugiato, la protezione sussidiaria è riconosciuta al “cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno […], e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese” (art. 2, lett. f, dir. 2011/95, in seguito, “la direttiva”).

Come si evince dal dettato della norma, tale tutela non può essere cumulata con la protezione dei rifugiati sancita dalla Convenzione di Ginevra, ma mira a completarne la disciplina. Mentre il riconoscimento dello status di rifugiato presuppone la sussistenza di un “timore di persecuzione[2], la protezione sussidiaria richiede un “rischio effettivo di danno grave”: dal punto di vista probatorio è dunque necessario dimostrare un maggiore grado di concretezza della minaccia.

La nozione di “danno grave” è ricostruita con riferimento alle convenzioni internazionali che vincolano gli Stati membri – in particolare, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984 – e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[3]. L’art. 15 della dir. 2011/95 individua tre casi in cui ricorre un “danno grave”:

  1. la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte;
  2. la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine[4];
  3. la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Le ipotesi sub a) e b): pena di morte e tortura

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è più volte intervenuta sulla nozione di “danno grave” richiedendo, per le prime due ipotesi di danno previste dall’art. 15 della direttiva, un forte grado di individualizzazione della minaccia o lesione di diritti fondamentali inderogabili (in particolare derivanti dagli artt. 2 e 3 della CEDU, dagli artt. 2 e 4 della Carta di Nizza e dalla Convenzione contro la tortura).

La questione che più ha sollecitato l’intervento della Corte in materia di riconoscimento della protezione sussidiaria, è scaturita dai c.d. medical cases, ossia le richieste di protezione per motivi di salute. A tal proposito, il considerando n. 35 della direttiva chiarisce che “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave”. In M’Bodji[5], la Corte di Giustizia ha avuto modo di ribadire, infatti, che carenze generali del sistema sanitario del paese d’origine non danno diritto, ipso facto, al riconoscimento della protezione sussidiaria[6], mancando un comportamento intenzionale ed afflittivo delle autorità nazionali nell’arrecare danno a un soggetto specifico (il requisito di individualizzazione sarebbe soddisfatto, a titolo esemplificativo, laddove il soggetto non sia curato per via della propria etnia – motivo che, però, integrerebbe una persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato).

L’ipotesi sub c): il conflitto armato interno o internazionale

La direttiva 2011/95 non fornisce una definizione di conflitto armato; tuttavia, in Diakité[7], la Corte di Giustizia ha ampliato l’ambito di applicazione della disposizione, stabilendo che la nozione di “conflitto armato” va ricostruita indipendentemente dal diritto internazionale umanitario. Infatti, “il legislatore dell’Unione ha auspicato concedere la protezione sussidiaria non soltanto in caso di conflitto armato internazionale e di conflitto armato che non presenta un carattere internazionale, così come definiti dal diritto internazionale umanitario, ma, altresì, in caso di conflitto armato interno, purché tale conflitto sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata”.

La Corte EDU è intervenuta, invece, fornendo criteri di valutazione dell’intensità della violenza che, seppur non esaustivi, costituiscono dei parametri utili ai fini dell’accoglimento o rigetto della domanda di protezione. Nel caso Sufi ed Elmi c. Regno Unito[8], la Corte ha imposto di prendere in considerazione, in una siffatta valutazione: (i) i metodi e le tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili; (ii) la diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche; (iii) la generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento; (iv) il numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento.

Mentre nelle prime due ipotesi, relative a pena di morte e tortura, il rischio è individualizzato nella persona del richiedente protezione, la terza fattispecie si riferisce a una situazione indiscriminata di violenza. Tuttavia, la previsione di cui alla lett. c) dell’art. 15 della direttiva richiede che dalla violenza, seppur indiscriminata, derivi una minaccia individuale. Anche in tale occasione, la Corte di Giustizia ha avuto modo di specificare la portata di tale disposizione, apparentemente contrastante. In Elgafaji[9], la Corte ha chiarito che qualora la violenza scaturita dal conflitto armato sia tanto generalizzata da colpire chiunque, indistintamente, non sarà necessario che il ricorrente dimostri un elevato grado di individualizzazione della minaccia. Viceversa, meno indiscriminata sarà la violenza, tanto più il richiedente sarà tenuto a dimostrare di essere colpito in modo specifico affinché possa beneficiare della protezione sussidiaria.

Le cause di esclusione

Le cause di esclusione dalla protezione sussidiaria riproducono solo in parte quelle attinenti allo status di rifugiato di cui agli artt. 12, par. 2-3 e 14, par. 4 della direttiva. Ai sensi dell’art. 17, un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dalla protezione sussidiaria qualora sussistano fondati motivi per ritenere che:

  1. abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;
  2. abbia commesso un reato grave;
  3. si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite;
  4. rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova.[10]

La protezione sussidiaria presenta quindi due specificità rispetto alle cause di esclusione previste dall’art. 12 della direttiva, relativo allo status di rifugiato:

  • Ai fini dell’esclusione della protezione sussidiaria, il “reato grave” di cui alla lett. b) dell’art. 17 non deve essere necessariamente commesso al di fuori del Paese di accoglienza, né prima che l’interessato vi sia ammesso – contrariamente, invece, a quanto richiesto per l’esclusione dallo status di rifugiato.
  • Dalla protezione sussidiaria possono essere esclusi coloro che si sono sottratti alla potestà punitiva dello stato d’origine (c.d. fugitives from justice). Tale esclusione, non prevista per lo status di rifugiato, può essere disposta solo qualora la fuga dal Paese d’origine non sia motivata, in tutto o in parte, da esigenze di protezione internazionale.

La protezione temporanea

La terza forma di protezione prevista dall’art. 78, par. 2, TFUE (ma mai attivata finora) è la protezione temporanea, che spetta agli sfollati (c.d. displaced persons), ossia agli stranieri che “hanno dovuto abbandonare il proprio paese o regione d’origine o che sono stati evacuati” e il cui rimpatrio “in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel paese stesso”. Si tratta, in particolare di: (i) persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica, e (ii) persone soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o vittime di siffatte violazioni (art. 2, lett. c), direttiva 2001/55/CE).

La protezione temporanea, di durata annuale e prorogabile, costituisce una misura immediata di carattere temporaneo e collettivo concepita a favore di quegli Stati competenti ad esaminare una domanda di protezione internazionale, ai sensi del sistema Dublino, i quali si trovino in una situazione di afflusso massiccio di sfollati, anche imminente.

Il suo carattere eccezionale la rende inoltre cumulabile con le altre forme di tutela previste in ambito europeo. Essa però differisce da queste ultime sotto il profilo procedurale: l’attivazione della protezione temporanea non è rimessa alla valutazione caso per caso delle singole autorità nazionali – come accade in merito allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria – ma è deliberata a maggioranza qualificata dal Consiglio su proposta della Commissione, la quale ha previamente accertato l’esistenza di un “afflusso massiccio di sfollati” e valutato l’opportunità di attivare una simile misura.

Concepita come lo strumento più immediato a favore di quegli Stati soggetti a un’imminente e straordinaria pressione migratoria, la protezione temporanea non prevede tuttavia un criterio di ripartizione degli sfollati tra gli Stati membri, i quali saranno invece tenuti ad accogliere “sulla base della loro capacità ricettiva[11].

[1] Si veda: S. Casu, Diritto d’asilo e protezione internazionale: lo status di rifugiato, in Ius in itinere, 30 gennaio 2020, online: https://www.iusinitinere.it/diritto-dasilo-e-protezione-internazionale-lo-status-di-rifugiato-25324

[2] Si veda l’art. 2, lett. d, della direttiva 2011/95/UE.

[3] In particolare, di quella giurisprudenza della Corte relativa al divieto di respingimento, allontanamento, estradizione, espulsione verso uno Stato in cui vige il rischio di subire torture o trattamenti inumani e degradanti. Si vedano, a tal proposito: CGUE, Elgafaji, causa C-465/07, sentenza del 17 febbraio 2019, punti 30, 33, 35, 36; CGUE, Diakité, causa C-285/12, sentenza del 30 gennaio 2014, punti 21 e 24; Corte EDU, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ricorsi n. 8319/07 e 11449/07, sentenze del 28 giugno 2011, punti 216-218 e 225-226.

[4] L’art. 1 della Convenzione sulla tortura del 1984 definisce la torturaqualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione”.

[5] CGUE, M’Bodji, causa C-542/13, sentenza del 18 dicembre 2014, punti 33, 35 e 36.

[6] I motivi di salute potranno però legittimare il riconoscimento di permessi speciali di protezione, come spiegato di seguito.

[7] Diakité, sovramenzionata, punti 21 e 24.

[8] Corte EDU, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ricorsi n. 8319/07 e 11449/07, sentenza del 28 novembre 2011, punto 241.

[9] Elgafaji, sovramenzionata, punti 32, 33, 35, 38, 39.

[10] Tali cause di esclusione si estendono anche a coloro che istigano, o altrimenti concorrono alla commissione degli atti menzionati (art. 17, par. 2 della direttiva).

[11] Si veda l’art. 5, par. 3, lett. c) della direttiva 2001/55.

Silvia Casu

Silvia Casu, nata a Varese nel 1995, ha conseguito il diploma di maturità in lingue straniere nel 2014, che le ha permesso di avere buona padronanza della lingua inglese, francese e spagnola. Iscritta al quinto anno preso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano Statale, ha sviluppato un vivo interesse per la materia internazionale pubblicistica e privatistica, nonché per la cooperazione legale comunitaria, interessi che l'hanno portata nel 2017 ad aprirsi al mondo della collaborazione nella redazione di articoli di divulgazione giuridica per l'area di diritto internazionale di Ius in Itinere. Attiva da anni nel volontariato e nell'associazionismo, è stata dal 2014 al 2018 segretaria e co-fondatrice di un'associazione O.N.L.U.S. in provincia di Varese; è inoltre socio ordinario dell' Associazione Europea di Studenti di Legge "ELSA" , nella sezione locale - Milano.

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