martedì, Marzo 19, 2024
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Diritto di recesso ad nutum in S.p.A. a tempo indeterminato: spunti di riflessione

a cura del Dott. Gabriele Puglisi

Introduzione

Il recesso è un atto con il quale un socio manifesta la volontà di fuoriuscire dalla compagine sociale, con conseguente cessazione della propria qualità di socio. Nel nostro ordinamento tale diritto funge da contrappeso al principio maggioritario [1] che governa il funzionamento delle società, e consente al socio che si veda imposta la modifica sostanziale dell’organizzazione societaria di liquidare il proprio investimento.

Il carattere fondante dell’istituto, però, è la sua eccezionalità, in quanto tale diritto può essere legittimamente esercitato solo per le precise motivazioni previste dalla legge – che variano a seconda del tipo di società – e dallo statuto della singola società [2].

L’evoluzione del diritto in questione ha fatto sì che il legislatore tutelasse maggiormente la partecipazione del socio, sia ampliando il novero delle cause per lo scioglimento del vincolo, sia con riferimento all’adozione di criteri di liquidazione della quota più convenienti quali, ad esempio, la consistenza patrimoniale della società, le prospettive reddittuali e il valore di mercato delle azioni.

Con specifico riferimento all’istituto del recesso ad nutum è importante mettere in risalto come questo sia stato posto al centro di numerosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali che hanno cercato di individuare la natura controversa di tale strumento frutto della riforma societaria del 2003 nella quale il legislatore ha cercato di rendere le società “collettori più attraenti di capitale” [3]. Tale strumento, come noto, prevede il diritto per il socio di fuoriuscire dalla compagine sociale, dando un preavviso di almeno 180 giorni, a condizione che (i) la società sia costituita a tempo indeterminato e che (ii) le azioni della stessa non siano quotate in un mercato regolamentato [4].

Il tema trae spunto delle perplessità manifestate da alcuni soci di S.p.A. in ordine ai termini e alle modalità di consolidamento del diritto di recesso esercitato da taluni soci della medesima società. La questione, in particolare, involge l’interpretazione della disciplina dettata in materia dal secondo comma dell’art. 2437 c.c., (i) relativamente ai termini di efficacia del recesso esercitato ad nutum (e segnatamente nel contesto di società con termine di durata indeterminato), nonché (ii) dall’art. 2437-bis c.c., laddove al terzo comma dispone che “il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se, entro novanta giorni … è deliberato lo scioglimento della società”.

L’istituto del recesso in genere

Come noto, la natura giuridica dell’istituto in questione può essere identificata in un diritto soggettivo, ovvero un diritto che appartiene a ciascun socio e che può essere esercitato a determinate condizioni. La disciplina generale del recesso è contenuta principalmente nel Codice Civile, in particolare negli articoli 2437 e seguenti del codice civile per quanto riguarda le società per azioni e nell’articolo 2473 codice civile con riferimento alle società a responsabilità limitata.

Preliminarmente, è importante notare come la legge distingue due tipologie di cause di recesso:

  • legali; e
  • statutarie.

Le prime, a loro volta, possono essere classificate in due tipi:

  • derogabili;
  • inderogabili.

Le cause di recesso inderogabili sono quelle stabilite dalla legge e che non possono essere modificate dallo statuto della società, pena la nullità dei patti diretti ad escluderle o renderne più gravoso l’esercizio ai soci. Una per tutte, l’articolo 2437 comma 1 c.c. prevede tra le cause di recesso inderogabili la “modifica della clausola dell’oggetto sociale quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società”. In tal caso, quando l’oggetto sociale originario è stato sostituito da uno sensibilmente diverso, tale da modificare radicalmente le condizioni di rischio in presenza delle quali l’azionista aveva aderito alla società, gli dovrà essere garantita la possibilità di fuoriuscire dalla compagine sociale.

Diversamente, le cause di recesso derogabili sono quelle stabilite dalla legge ma che possono essere modificate dallo statuto della società. Ad esempio, la legge stabilisce che in caso di grave inadempimento di un socio agli obblighi derivanti dal contratto sociale, gli altri soci possono chiedere il recesso del socio inadempiente. Tuttavia, lo statuto della società può stabilire condizioni diverse o ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge.

Le cause di recesso statutarie, infine, sono quelle stabilite dallo statuto della società e che possono differire da quelle previste dalla legge. In altre parole, lo statuto della società potrebbe prevedere che un socio possa recedere in caso di mancato raggiungimento di determinati obiettivi economici [5].

Ad ogni modo, per esercitare il suo diritto di exit il socio di una S.p.A. deve seguire determinate modalità stabilite dal codice civile. Il recesso si esercita tramite una dichiarazione unilaterale del socio che, in quanto tale, non richiede alcuna forma di accettazione da parte della società [6]. La sua efficacia deriva dunque non da un incontro di volontà tra il socio e la società, bensì dalla semplice ricezione della comunicazione da parte degli amministratori.

In tale contesto, l’articolo 2437-bis del codice civile stabilisce che il recesso debba essere inviato tramite lettera raccomandata entro 15 giorni dall’iscrizione nel Registro delle imprese della delibera societaria. Se la causa del recesso è diversa da una delibera, il termine per l’invio della lettera raccomandata aumenta a 30 giorni. In caso di recesso con causa statutaria, il socio deve fare riferimento alle stesse previsioni per determinare i termini di decorrenza.

Infine, nel caso in cui la società non faccia ricorso al mercato del capitale di rischio, nell’ipotesi in cui l’uscita del socio sia determinata dalla modifica dell’atto costitutivo, i termini per poter esercitare il recesso sono di 90 giorni.

Alla luce di quanto sopra, quid iuris nel momento in cui la scelta del socio recedente non è determinata né da una delibera assembleare né tantomeno da un fatto differente? In questi casi, e alle condizioni viste nell’incipit, entra in gioco l’istituto del recesso ad nutum.

Il Recesso ad nutum

Entrando nel merito della questione, occorre rimarcare come, a differenza delle altre ipotesi di exit menzionate dall’art. 2437 c.c., nel recesso ad nutum (ovvero di quello giustificato in ragione della previsione di un termine indeterminato di durata della società) non sussiste una delibera o un fatto che giustifichino la fuoriuscita volontaria dalla compagine sociale, bensì esclusivamente la considerazione di ordine sistematico circa l’esigenza di offrire tutela all’interesse individuale del socio a non rimanere “prigioniero” [7] della società contratta a tempo indeterminato [8].

Alcuni autori hanno evidenziato come questa disposizione possa generare instabilità all’interno della compagine societaria e incentivare comportamenti opportunistici da parte dei soci, mentre altri sottolineano come possa invece rappresentare uno strumento importante per il mercato, in quanto consente agli investitori di uscire facilmente dalla società in caso di mancata soddisfazione delle proprie aspettative [9].

A fronte di tale facoltà alla quale ciascun socio potrà fare ricorso in un qualunque momento della vita dell’ente, l’ordinamento dispone – in un’ottica di bilanciamento con gli interessi della società – che il recesso non si perfezioni se non successivamente al decorso di un termine di preavviso stabilito in 180 giorni, solo successivamente ai quali, dunque, il recesso potrà acquisire efficacia [10]. A corollario di un simile assetto, si pone la circostanza per la quale la mera comunicazione di recesso, in tali casi, non determina l’immediato venir meno dello status socii [11], potendo il socio recedente, in pendenza del termine di preavviso, continuare ad esercitare attivamente la pienezza dei suoi diritti, rimanendo altresì esposto ai risultati dell’attività di impresa.

Assunto dunque che fino allo scadere del 180° giorno dalla ricezione da parte della società della comunicazione del socio di voler recedere dall’ente, il recesso medesimo non è efficace [12] (circostanza, questa, obiettivamente incontroversa in dottrina come in giurisprudenza), si tratta ora di capire come tale iter si coniughi con la previsione di cui al terzo comma dell’art. 2437-bis c.c., a mente del quale – come detto – il “il recesso … se già esercitato, è privo di efficacia, se, entro novanta giorni … è deliberato lo scioglimento della società”.

Il combinato disposto dell’art. 2437 c. 2 c.c. e dell’art. 2437-bis c.

Effettivamente, il tema della combinazione della disposizione testè richiamata, con quella concernente la previsione del compimento di un necessario termine di preavviso per il caso di esercizio di recesso ad nutum, ha dato adito a difformi valutazioni da parte della dottrina, specificatamente per quanto riguarda l’individuazione del corretto iter temporale di perfezionamento del recesso, ovvero: se l’eventuale delibera di scioglimento possa intervenire entro il termine di 90 giorni, successivi e ulteriori al perfezionamento del periodo di preavviso di 180 giorni, ovvero ancora se l’eventuale delibera di scioglimento debba intervenire entro il termine di preavviso, senza dunque che possa darsi un ulteriore parentesi temporale.

La soluzione che appare più corretta è quella che ammette la possibilità di determinare la sopravvenuta inefficacia del recesso, mediante una delibera assembleare di scioglimento dell’ente, entro il più ampio arco temporale di 180 + 90 giorni dalla comunicazione del socio della volontà di recedere. In tal senso, infatti, depone anzitutto il dato letterale nella norma di cui al terzo comma dell’art. 2437-bis c.c., laddove espressamente dispone che il recesso, se esercitato viene reso “privo di efficacia” qualora entro il termine di 90 giorni intervenga una delibera di scioglimento della società. È infatti evidente che per privare di efficacia un determinato atto giuridico, occorre quale presupposto logico e giuridico, che tale efficacia preesista e sussista, mentre nelle more del periodo di preavviso dovuto nel caso di esercizio ad nutum del diritto di exit, il recesso è pacificamente privo di efficacia.

In secondo luogo, a confortare tale soluzione, vi è anche la circostanza per la quale non si danno ragioni di ordine sistematico sulla base delle quali, in tale fattispecie, dovrebbe risultare alterata la scansione temporale ordinaria prevista dalla legge, e quindi forzatamente ridotto il termine entro il quale l’ente, con i soci superstiti, potrebbe valutare l’opportunità di disinnescare il recesso mediante l’assunzione di una delibera di scioglimento. Di certo tale alterazione non risulterebbe di per sé giustificata per il fatto che nel caso di specie il diritto di recesso risulterebbe già ritardato dal necessario decorso di un termine di preavviso, essendosi evidenziato come tale arco temporale trovi giustificazione nel bilanciamento che tramite esso si realizza rispetto a un diritto riconosciuto al socio di recedere dal rapporto sociale in qualunque momento (e non già, invece, nelle sparute ipotesi tipiche previste dalla legge o eventualmente normate dallo statuto). Comprimere, entro questo stesso arco temporale, facoltà e iniziative che per legge hanno un loro proprio spatium deliberandi, finirebbe infatti per alterare il senso di tale bilanciamento, senza alcun apprezzabile beneficio per il socio recedente.

 

[1] G. Gessa , “Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico economico“, UTET, 2012.

[2] G. Zanchetta, “Il diritto delle società”, UTET, Torino, 2011, p. 409.

[3] C. Vasta, “Il recesso ad nutum di s.p.a. a tempo determinato”, 2021.

[4] F. Cordioli, “Il recesso ad nutum nella s.p.a. a tempo indeterminato”, in Riv. dir. civ., 2003.

[5] Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 22-11-2019) 21-02-2020, n. 4716.

[6] G. Camera, “Il recesso nelle società per azioni”, in Trattato di diritto commerciale, a cura di G. Trettel e G. Camera, vol. XIX, Utet, Torino, 2002.

[7] L. Delli Priscoli, “Le società a tempo indeterminato”, Libro dell’anno del Diritto 2014.

[8] G. Alpa, “Il recesso ad nutum nella s.p.a. a tempo indeterminato”, in Tratt. dir. civ. e comm., vol. XXXIV, Il Mulino, Bologna, 2010.

[9] M. Cera, “Recesso da s.p.a. a tempo indeterminato: stabilità dell’ente vs. diritto di exit del socio”, 2016.

[10] Tribunale Milano Sez. spec. in materia di imprese, Sent., 14-07-2020.

[11] N. Abriani, Codice delle società, seconda edizione, 2016.

[12] Tribunale Bologna Sez. spec. in materia di imprese Ord., 18-03-2019.

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