Disuguaglianze: tra necessità e contingenza
Nell’era delle disuguaglianze, la parola “spread” ha preso un posto speciale nella mente, più o meno consapevole, di ogni cittadino che di tanto in tanto finisce casualmente tra le fauci video-sonore di telegiornali, talk-show e derivati. Ma questo “differenziale” (perché tale è la traduzione letterale) rappresenta il passaggio sulla piattaforma finanziaria dei mercati di un qualcosa che ha da sempre fatto parte della struttura socio-economica della civiltà: le disuguaglianze, per l’appunto. Prima del massivo sviluppo della società industrializzata il concetto di disuguaglianza aveva un carattere prettamente ereditario[1]: era più ricco chi nasceva da famiglia ricca, dato che lo status-quo si misurava in base ai possedimenti (terrieri in primis) ed alle eventuali cariche nobiliari ricoperte. Il figlio primogenito del feudatario conservava la sua fetta di averi, nella stessa misura in cui il figlio primogenito di un contadino conduceva una vita di stenti tra le rotazioni cicliche (e speranzose) della terra. E poi?
A partire dal XIX secolo la “società delle macchine” ha cominciato a partorire un’altra importante fonte di disuguaglianza: il salario[vedi nota 1]. Gli operai che lavoravano nei primi stabilimenti, con i telai meccanici, percepivano un reddito che garantiva loro sostentamento ed un discreto margine di futuro, ma con un forbice sempre più larga rispetto a ciò che impiegati e notabili vari avevano a loro disposizione. In questo quadro storico, sono emerse le due visioni rispetto alle disuguaglianze ed al modo di “affrontarle”. Da un lato la destra liberale ha visto il mercato, l’iniziativa privata ed il processo capitalistico come un meccanismo automatico di miglioramento delle classi meno abbienti: una sorta di grande bilancia che provvede da sé al ripristino degli equilibri. E, dunque, la presenza dello Stato, mediante la “mano del fisco”, va minimizzata in questa concezione socio-politica. D’altro lato, la sinistra sociale (a partire dal lavoro scientifico in materia economica di Karl Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) ha pesato, sin dagli albori della società capitalistica ed industrializzata, il bisogno di interventi volti a limitare le disuguaglianze mediante una sorta di Stato-controllore che provvede a stringere le maglie sempre più larghe che separano ricchi e poveri. Questo conflitto destra\sinistra (liberali\socialisti) ha visto nella figura dell’economista statunitense, premio Nobel per l’economia 1971, Simon Smith Kuznets (Pinsk, 30 aprile 1901 – Cambridge, 8 luglio 2985) le sue “battaglie” che, prima da un lato e poi d’altro, sembravano deciderne definitivamente il destino. Nel 1955, Kuznets sviluppò un modello secondo il quale la disuguaglianza segue una traiettoria ad “U” rovesciata nel corso dello sviluppo industriale di una società[2]. L’incremento delle attività lavorative determina in una prima fase un aumento della disuguaglianza sino ad un punto massimo di “stabilizzazione”, dopo il quale si registra un naturale calo dovuto al miglioramento delle condizioni di quelli che in una prima fase rappresentavano le classi meno agiate con minor potere in termini di salari e\o di beni.
Se i dati iniziali, basati su quanto analizzato tra fine XIX ed inizio XX secolo, sembravano confermare la legge di Kuznets che è stata applicata anche alla relazione tra lo sviluppo economico di un paese ed il livello di danno ambientale registrato sul suo territorio[3], alla fine del XX secolo e gli inizi del XXI hanno ribaltato la prospettiva. Difatti, già nella seconda metà degli ’80 si è osservato nei paesi occidentali un aumento della ricchezza globale nelle tasche di una fetta sempre più piccola della popolazione, a fronte di un impoverimento generale che si è definito lungo le ceneri della “classe media”. Eppure, in questo groviglio di ipotesi e confutazioni le vere sconfitte sono state, oltre gli inermi cittadini, proprio le visioni politiche liberali e socialiste. Incapaci di interpretare i nuovi fenomeni della finanza globale e del mercato del risucchio, hanno lasciato in completa solitudine quelle “parti sociali” che rappresentavano. Da un lato i “vecchi” produttori hanno subito il peso delle multinazionali e di una sfrenata globalizzazione che li ha visti uscire di scena, in modo più o meno drammatico. Hanno costantemente imputato la colpa ad un fisco opprimente ed uno stato oppressore, rischiando, in un certo senso, di osservare il dito senza scrutare la luna “oscura” che dietro vi si celava. D’altro, gli operai hanno smarrito qualunque fiducia nelle parti sociali, cedendo agli echi della demagogia populista o di stampo nazionalista.
Ma dove è finita la discussione in merito alle disuguaglianze? Quest’ultima domanda va posta ad Internet, imputato principe in questo tribunale della storia. Il mito della “democrazia digitale” ha favorito con lo sviluppo delle fake-news, avallate da un livello culturale sempre più basso ed un peggioramento senza eguali delle condizioni di una fetta sempre più ampia della popolazione, la nascita di miti aleatorie in merito alle disuguaglianze: fantomatici club segreti, lobby di potere, stregoni e sciamani. La scommessa per i prossimi anni sarebbe quella di studiare in modo scientifico la necessità storico-economica delle disuguaglianze, inquadrandone le contingenze di quanti possono approfittare dell’allargamento della forbice ideale tra ricchi e poveri[Vedi nota 2]. Probabilmente questo processo richiederà molto tempo e molte menti, con risultati socio-politici addirittura drammatici.
[1] ‘’Diseguaglianze’’ di Thomas Piketty, 2014, Università Bocconi Editore.
[2] ‘’Il Capitale nel XXI Secolo’’ di Thomas Piketty, 2013, Éditions du Seuil
[3] ‘’Le curve alla Kuznets’’ di http://www.iris-sostenibilita.net
Disponibile qui: http://www.iris-sostenibilita.net/iris/sostenibilita/06b-tema05a.htm
Fonte immagine: https://www.eticaeconomia.it/manifesto-contro-disuguaglianza-economica-nens-etica-economia/