venerdì, Aprile 19, 2024
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Economia circolare: i cinque modelli di business

In un lavoro precedente, sono stati discussi gli strumenti politici e legislativi con cui l’Unione Europea ha deciso di promuovere i business legati all’economia circolare, la protezione ambientale e lo sviluppo economico sostenibile.[1]

Con questo articolo, invece, ci si propone di analizzare le iniziative con cui le aziende private provano a coniugare la crescita economica con la tutela dell’ambiente, delle risorse e degli ecosistemi naturali, attraverso lo sviluppo di modelli di business innovativi. Per ciascun modello si evidenzieranno esempi, punti di forza e debolezza, fornendo, in conclusione, una valutazione generale sui business circolari.

I cinque modelli di business dell’Economia Circolare

Il modello di business descrive le logiche secondo cui un’organizzazione crea, distribuisce e raccoglie valore per un obiettivo di mercato e allo stesso tempo cattura da esso un valore adeguato per raggiungere gli obiettivi di redditività aziendali.[2]

Lacy, Rutqvist e Lamonica individuano cinque modelli di business con i quali perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile e integrare il paradigma dell’economia circolare.[3] Per gli autori, rappresentano un’opportunità di produrre valore e aumentare i profitti, riducendo gli sprechi, migliorando le prestazioni, l’efficienza, la produttività e fidelizzando i consumatori, sempre più sensibili alle questioni ambientali. Il rispetto dell’ambiente e degli ecosistemi, dunque, non va in contrasto con la crescita economica, ma, in quest’ottica, è un obiettivo complementare a quello di aumentare fatturato e utili.

  1. Filiera circolare “fin dall’inizio”
  2. Recupero e riciclo
  3. Estensione della vita del prodotto
  4. Piattaforma di condivisione
  5. Prodotto come servizio

1. Filiera circolare “fin dall’inizio”

Il modello si fonda sull’accesso a materie prime rinnovabili, riciclabili o biodegradabili, come l’energia rinnovabile, materiali di natura biologica come prodotti biochimici e bioplastiche, detti anche ‘nutrienti biologici’ in quanto sono perfettamente degradabili; risorse riciclabili come metalli e minerali sono detti ‘nutrienti sintetici’, in quanto possono essere riciclati e riutilizzati all’infinito.

Ad ostacolare questo modello di business vi sono fattori economici, tecnologici e normativi. Le tecnologie per realizzare strutture adatte al riciclo sono ancora molto costose e non sussistono le economie di scala necessarie per rendere la produzione sempre conveniente. Dal punto di vista normativo, l’uso di materie prime vergini è spesso sovvenzionato: eliminare queste sovvenzioni costringerebbe le imprese ad alzare i prezzi e stimolerebbe il ricorso a risorse circolari.[4]

Un esempio dell’applicazione di questo modello è dato dal progetto Ecovative di Eben Bayer e Gavin MacIntyre del Rensselaer Polytechinc Institute. Essi hanno scoperto come sostituire le plastiche con materiali rigidi creati mischiando sottoprodotti dell’agricoltura, come steli di granoturco, con il micelio dei funghi, il quale funge da collante naturale che digerisce gli scarti agricoli. Il materiale ottenuto è competitivo in termini di prezzo – risultando anche meno volatile – e qualità, rispetto alle alternative fossili. L’energia impiegata è significativamente inferiore. Il progetto ha vinto nel 2008 la PICINIC Green Challenge, ottenendo fama internazionale e un finanziamento di 500.000 euro.[5]

I materiali innovativi EcoVative

Figura 2.1. I materiali Ecovative. Fonte: Sito web Ecovative, cit.

2. Recupero e riciclo

Il modello si fonda sul recupero e riutilizzo di fonti nascoste negli output produttivi e nei prodotti di scarto. Ciò avviene anche gestendo un catena di fornitura bidirezionale (cioè che non va solo dal produttore al consumatore, ma anche dal consumatore che restituisce il rifiuto al produttore). Il modello ha diverse realizzazioni: da una filiera circolare a circuito chiuso, a modelli a circuito aperto, dove i materiali di scarto possono essere rivenduti ad altre imprese come materie prime. L’obiettivo è passare dalla riduzione dei rifiuti all’obsolescenza del concetto stesso di rifiuto.

I vantaggi sono molteplici: riduzione dei costi legati a materie prime, gestione dei rifiuti, dell’impatto ambientale; ottenimento di ricavi ottenuti dalla vendita di sottoprodotti indesiderati; rappresenta un’alternativa a disposizione dei consumatori per lo smaltimento dei rifiuti; crea punti di interazione tra clienti e imprese, dove possono combinarsi smaltimento e nuovi acquisiti; e promuove una comprensione più approfondita delle modalità di smaltimento che può contribuire allo sviluppo del prodotto. Il processo di rigenerazione e riciclo è più agevole se il prodotto è progettato appositamente per lo scopo: uso di clip e viti al posto della colla, etichette identificative sui componenti, impiego di materiali puri e riduzione del numero delle parti.[6]

Le imprese devono superare due sfide: preservare la qualità delle risorse, sì da rispettare standard normativi e di mercato, e mantenere i diritti di proprietà sul prodotto: se il recupero degli stessi è molto facile nei mercati B2B (business to business) lo stesso non può dirsi per i mercati B2C (business to consumer) dove è molto difficile monitorare i clienti. Possono essere allestiti punti di raccolta, logistica, negozi fisici in cui i clienti possono ottenere in cambio dello smaltimento del prodotto sconti e crediti.[7]

Un esempio è la collaborazione del colosso Mark&Spencer con l’organizzazione no-profit Oxfam. I clienti possono portare abiti, borse e scarpe di M&S nei negozi Oxfam. I consumatori ottengono in cambio buoni d’acquisto, mentre i vestiti vengono riciclati e i proventi utilizzati da Oxfam nella lotta alla povertà, in modo da perseguire un doppio obiettivo: ambientale e sociale.[8]

Un punto vendita Oxfam

Figura 3.1. Un punto di rivendita Oxfam. Fonte: Oxfam, Sito web, cit.

3. Estensione della vita del prodotto

È affar noto che le imprese arrivino a programmare l’obsolescenza dei prodotti, in modo che smettano di funzionare dopo un certo tempo, costringendo il consumatore all’acquisto del nuovo modello. Il paradigma dell’estensione del ciclo di vita del prodotto, invece, mira all’estrazione di quanto più valore possibile da ogni unità di risorsa consumata, sviluppando i prodotti in modo da farli durare a lungo e mettendo a disposizione aggiornamenti, servizi, parti di ricambio.

Le modalità in cui questo modello si esplica sono:

  1. costruire per la lunga durata;
  2. ricondizionare, ossia riportare i prodotti allo stato originale e rivenderli come nuovi;
  3. ritirare/scambiare/ricomprare per rimettere sul mercato;
  4. aggiornare;
  5. riempire di nuovo”: ripristinare una funzione che si esaurisce più rapidamente del prodotto stesso;[9]
  6. riparare, per clienti soddisfatti delle prestazioni del prodotto e non interessati a sostituzioni.

I motivi per cui questo modello ha un successo crescente sono:

  • i costi di manodopera. È sempre stato più conveniente importare nuovi prodotti che riparare quelli venduti, ma il crescente costo della manodopera nei mercati emergenti come la Cina sta invertendo il trend;
  • l’elevata disoccupazione e l’attenzione prestata a creare posti di lavoro nelle economie sviluppate contribuiscono a questa inversione.[10]

Nel 2014, il settore dei servizi di riparazione di computer e articoli elettronici negli USA ha fatturato 20 miliardi di dollari; nel 2011, i settori dei beni rigenerati, hanno incassato almeno 43 miliardi di dollari, supportando 180.000 posti di lavoro.[11] Un esempio è EcoATM, un progetto dell’imprenditore Mark Bowles, che ha fatto installare delle postazioni automatizzate predisposte all’acquisto di dispositivi elettronici usati, come cellulari e tablet. Il consumatore inserisce il proprio dispositivo nel macchinario, che lo identifica, elabora un preventivo e gli propone la transazione. Nel 2014, le 1.100 postazioni negli USA hanno permesso di recuperare 250 tonnellate di dispositivi composti da materiali potenzialmente tossici, più di 30 tonnellate di rame (abbastanza per costruire un’altra Statua della Libertà) e 700 chili di argento.[12]

Una postazione EcoATM

Figura 4.1. Postazione EcoATM. Fonte: EcoATM, Sito web, cit.

4. Piattaforma di condivisione

Il modello, strettamente legato alla sharing economy, si basa sull’offerta di una piattaforma per mettere in contatto tra di loro proprietari di beni di consumo con altri utenti interessati ad usarli. La piattaforma incrementa la produttività dei beni, consentendone l’accesso condiviso o la comproprietà, riducendo la domanda di risorse e attività produttive.[13] Benché esista una certa sovrapposizione tra circular economy e sharing economy, molte sfumature le separano. Secondo l’esperta April Rinne, la componente sociale e interattiva che caratterizza la sharing economy, non è una componente essenziale della circular economy, così come un prodotto scambiato nella sharing economy non fa parte necessariamente di una filiera circolare. La sharing economy, tuttavia, produce effetti circolari quando è in grado di ridurre l’uso di risorse e l’impatto ambientale dei consumi, generando profitti.[14] Tutte le piattaforme sfruttano internet come base e generano un cash flow attraverso l’abbinamento tra domanda e offerta. Le aziende possono sfruttare questo modello per introdurre nuovi prodotti sul mercato senza affrontare le spese dei negozi fisici, dando vita a una fusione con il modello descritto nel successivo paragrafo (prodotto come servizio). I fattori chiave per l’implementazione del modello sono:

  • Comodità: aumentano gamma e disponibilità dei beni;[15]
  • Prezzo: l’accesso ai prodotti è più economico;[16]
  • Qualità: è importante garantire standard qualitativi fissando regole rispetto ai prodotti e ai servizi messi in condivisione, con attività di monitoraggio e manutenzione.
  • Fiducia: vi sono molti rischi legati alla messa in condivisione di un prodotto, come nel caso degli atti vandalici avvenuti nel 2011 in un appartamento condiviso con Airbnb. Per questo motivo, i gestori di questi servizi devono fornire opportune garanzie.

Vi sono diverse critiche poste su questo modello. Le più rilevanti sono legate alla nascita di una nuova categoria di “poveri che lavorano” senza un reddito sicuro e senza benefit tipici di un classico contratto, eliminando i posti di lavoro classici e generando numerose proteste, come nel caso Uber.[17] Infatti, altra critica valida è legata all’evasione fiscale e alla violazione della legge.[18]

A trainare la crescita di questo modello (emergenza pandemica a parte) sono alcune aziende leader come Airbnb, per la condivisione di stanze e appartamenti; Lyft (333 milioni di dollari di finanziamenti garantiti) e Uber,  queste ultime finalizzate alla messa in condivisione di “passaggi” e autovetture. Airbnb, in particolare, nel settembre 2014 aveva più di ottocentomila alloggi e aveva permesso a più di 20 milioni di persone di affittarne uno.[19]

Tassisti in protesta contro Uber

Figura 5.1. Marcia dei tassisti in protesta contro Uber. Fonte: Corriere della Sera, cit.

5. Prodotto come servizio

L’ultimo modello di business è finalizzato all’acquisto di una funzione o certe prestazioni, piuttosto che un servizio. Le imprese mantengono la proprietà del prodotto e lo offrono ad uno o più utenti tramite affitto, noleggio, utilizzo pagato in base al consumo[20] e diversi tipi di accordi basati sulle prestazioni. Così, come il prodotto diventa servizio, anche il consumatore diventa “utente” (in gergo è detto modello consumer to user). In questo modo, i costi legati alla proprietà, alla manutenzione e allo smaltimento si spostano dal consumatore al produttore.

Ci sono due sfide principali nell’implementazione di questo modello:

  • l’investimento iniziale, che richiede che i costi di produzione, in tecnologia e risorse, possano venire assorbiti dal bilancio aziendale;
  • la necessità di uno studio attento della convenienza economica dal punto di vista dell’utente: è possibile che l’utente sia più motivato a noleggiare/utilizzare in abbonamento beni costosi, il cui costo è talmente ingente da non poterne permettere l’acquisto.

Una delle caratteristiche fondamentali è che questo modello è compatibile con la maggioranza degli altri modelli di business circolari. Oltre l’80% delle aziende studiate nella ricerca di Lacy, Rutqvist e Lamonica abbina questo modello a uno o più degli altri modelli, soprattutto il modello Estensione del ciclo di vita, per la riparazione e l’aggiornamento dei beni, oltre alla sinergia naturale, già citata, con il modello Piattaforma di condivisione.

Un buon esempio sono strumenti come Spotify, iTunes di Apple, YouTube Music, Netflix o Google Play Music, che permettono di noleggiare film e musica tramite un servizio in abbonamento, eliminando la necessità dei CD, lettori e infrastrutture per la riproduzione. Gli utenti possono accedere ai film e alla musica dove e quando vogliono, attraverso uno smartphone o un tablet. Un altro buon esempio è l’accordo del 2014 tra il colosso di elettronica Philips e la città di Washington. Philips ha offerto “l’illuminazione come servizio” sostituendo oltre 1.300 impianti di illuminazione a costo zero.[21]

7. Conclusioni

L’economia circolare oggi offre molteplici opportunità che permettono di conseguire contemporaneamente gli obiettivi di massimizzazione del profitto, connaturati nelle imprese, con quelli di tutela dell’ambiente, degli ecosistemi, dei diritti umani e del benessere delle persone. Occorre, però, prestare attenzione alle sfide che vengono poste da questi nuovi modelli di business, in termini di tecnologie, di costi di investimento iniziali, di standard qualitativi e delle problematiche normative. Una piattaforma come Uber può fare del bene all’ambiente, ma al tempo stesso potrebbe violare i diritti dei lavoratori; il Kindle, con Amazon, può risparmiare la vita di milioni di alberi, tutelare gli ecosistemi e ridurre le emissioni, ma può anche essere una pratica di “greenwashing[22] da parte di un’azienda al centro di numerose polemiche[23] per la violazione dei diritti dei lavoratori, oltre a costituire un rischio per l’editoria classica e l’industria tipografica.

In altri termini, secondo chi scrive, più che tentare di perseguire l’obiettivo della massimizzazione del profitto ricorrendo a strumenti legati all’efficientamento e alla riduzione degli sprechi, la vera sfida è nel far sì che gli operatori privati abbiano interesse alla tutela dell’ambiente e alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile. Ciò difficilmente avverrà lasciando la questione alla mano invisibile del libero mercato, più proficuamente avverrà attraverso incentivi, progetti, investimenti e forme di regolazione da parte delle autorità pubbliche.

[1] Vedi Gabriele Turco, Economia circolare: definizione e politiche europee, Ius in itinere, 22 dicembre 2020. Disponibile all’indirizzo: https://www.iusinitinere.it/economia-circolare-definizione-e-politiche-europee-33885, consultato a gennaio 2020.

[2] Cfr. Alexander Osterwalder e Yves Pigneur, Business Model Generation: A Handbook for Visionaries, Game Changers, and Challengers, John Wiley & Sons, New York, 2013.

[3] Cfr. Peter Lacy, Jakob Rutqvist e Beatrice Lamonica, Circular Economy: dallo spreco al valore, EGEA, Milano, 2016.

[4] Ad esempio, il costo dei diritti di emissione di CO2 oggi è molto basso rispetto agli impatti ambientali prodotti, potrebbe essere incrementato. Cfr. Ibid.

[5] Ecovative, sito web. Disponibile all’indirizzo: , consultato a gennaio 2021.

[6] Cfr. Lacy, Rutqvist e Lamonica, Circular Economy, cit.

[7] Cfr. Ibid.

[8] Oxfam UK, Sito web. Disponibile all’indirizzo: https://www.oxfam.org.uk/donate/donate-to-our-shops/marks-and-spencer-and-oxfam-shwopping/, consultato a gennaio 2021.

[9] L’esempio classico del “vuoto a rendere” con il quale si riporta una bottiglia vuota nel punto vendita, affinché venga riempita di nuovo.

[10] Cfr. Lacy, Rutqvist e Lamonica, Circular Economy, cit.

[11] Cfr. Ibid.

[12] Eco ATM, Sito web. Disponibile all’indirizzo: https://www.ecoatm.com/, consultato a gennaio 2021.

[13] Per un approfondimento sul tema, vedi Jasmina Saric, Uber: le sfide giuridiche della sharing economy, Ius in itinere, 8 agosto 2019. Disponibile all’indirizzo: https://www.iusinitinere.it/uber-le-sfide-giuridiche-della-sharing-economy-21621, consultato a gennaio 2021.

[14] Cfr. Lacy, Rutqvist e Lamonica, Circular Economy, cit.

[15] Ad esempio, da un negozio per noleggiare le biciclette si passa a migliaia di punti dove prelevare una bicicletta messa in condivisione, con un sistema di pagamento semplice e sicuro.

[16] In genere perché i beni messi in condivisione sono in possesso di utenti che li usano già per altri scopi, che altrimenti resterebbero inutilizzati e che pertanto costituiscono un reddito extra.

[17] Gli utenti Uber mettono in condivisione le proprie auto e offrono un servizio di trasporto passeggeri: i loro guadagni possono andare da un livello superiore a quello dei normali taxi ad un guadagno inferiore a quello del salario minimo. Ciò li sta inducendo a mobilitarsi per istituire relazioni sindacali. I tassisti, invece, sono contrari alla diffusione di Uber, in quanto permette di offrire un servizio analogo al loro aggirando tasse e costi relativi all’acquisizione della licenza. Per approfondimenti si veda: Corriere della Sera, Uber, corteo di protesta in centro «Due tassisti investiti nella notte», 19 maggio 2014. Disponibile all’indirizzo: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_maggio_19/taxi-protesta-non-si-ferma-oggi-scatta-rivolta-turni-47eb1fc4-df1f-11e3-b0f4-619ff8c67c6b.shtml, consultato a gennaio 2021.

[18] Ad esempio, quando un utente affitta una stanza tramite Airbnb, potrebbe non essere legato al pagamento delle tasse turistiche o alle normali tasse legate alla stipula di un contratto di affitto. Occorre, per questo, che la normative nazionali si adeguino. Cfr. Lacy, Rutqvist e Lamonica, Circular Economy, cit.

[19] Cfr. Ibid.

[20] Ad esempio, un’auto pagata in base ai chilometri percorsi o una stampante pagata in base alle pagine stampate.

[21] In base a un contratto di manutenzione di dieci anni, Philips prevede di realizzare un guadagno su una certa percentuale dei due milioni di dollari di risparmio annuale, generati dalle nuove lampade LED di grande efficienza energetica. Sempre Philips ha curato il sistema di illuminazione della società Rau Architects. Ha utilizzato i LED sui soffitti e un sistema di controllo a sensori per attenuare o intensificare la luce sulla base dei movimenti o della presenza della luce del giorno. Già nelle prime fasi del progetto è stato conseguito un risparmio del 35 per cento sui costi energetici di Rau. Successivamente, grazie all’installazione di contatori intelligenti, i costi sono stati ridotti di un ulteriore 20 per cento, per un totale del 55 per cento. Fondamentale è stata la tecnologia machine-to-machine, in grado di informare il gestore costantemente dello stato della manutenzione dei beni forniti, in modo da poter intervenire all’occorrenza. In questo modo, l’azienda è motivata a creare un prodotto efficiente, di lunga durata, che possa essere riparato facilmente. I “green products” di Philips oggi rappresentano il 51% delle vendite. Oggi i servizi di illuminazione Philips vengono offerti con il brand Signify. Per approfondimenti si veda il sito web all’indirizzo: https://www.signify.com/it-it, consultato a gennaio 2021.

[22] Greenwashing è un neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti. Cfr. Ornella Papaluca e Lorenzo Turriziani, Lo sviluppo sostenibile: teoria e modelli, in Sergio Sciarelli e Mauro Sciarelli (a cura di), Il governo etico d’impresa, Wolters Kluwer Italia, Milano, 2018.

[23] Un esempio di business circolare adottato da Amazon è il Kindle, un prodotto a margine zero per Amazon: l’azienda non trae profitti dalla vendita del prodotto. Si tratta di un lettore di libri digitali, pertanto l’azienda guadagna sui libri acquistati per l’utilizzo del lettore. Gli utenti Kindle spendono ogni anno il 56% in più di quelli che non lo posseggono, compensando gli introiti sacrificati in relazione all’hardware. Cfr. Lacy, Rutqvist e Lamonica, Circular Economy, cit.; per le violazioni dei diritti dei lavoratori in cui è coinvolta Amazon si veda, ad es., Matteo Zorzoli, ‘Ecco come Amazon ci spreme fino allo sfinimento’. Parlano due magazzinieri del centro di smistamento di Piacenza, Business Insider, 23 novembre 2017. Disponibile all’indirizzo: https://it.businessinsider.com/due-dipendenti-amazon-raccontano-linferno-del-centro-di-smistamento-di-piacenza/?refresh_ce, consultato a gennaio 2021.

Fonte immagine: https://middlebury.coop/2018/04/21/reducing-and-reusing-before-recycling/

Gabriele Turco

Ho conseguito un Master in Finanza Etica presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II", laureato magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e studente del Master in Circular Economy Management presso la Libera Università degli Studi Sociali (LUISS) "Guido Carli" di Roma. Mi appassionano i temi dello sviluppo sostenibile, dell'economia sociale e circolare, della responsabilità sociale delle imprese, della tutela dell'ambiente e dei diritti umani. Scrivo perché credo che la conoscenza debba essere libera e alla portata di tutte e tutti per costruire un Mondo e una società migliore.

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