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Ergastolo ostativo: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione

Il 13 giugno 2019 è stata pubblicata l’attesa sentenza Viola c. Italia, con la quale la Prima Sezione della Corte EDU ha riconosciuto una violazione dell’art. 3 CEDU rispetto all’ergastolo ostativo [1]  [2].

  1. Il contesto della decisione

Il caso di specie riguardava un condannato per associazione di stampo mafioso, la cui domanda volta a ottenere un permesso premio era stata rigettata dai giudici nazionali. Di fatto, non avendo egli collaborato con la giustizia – unica circostanza che secondo la legge consentiva di ravvisare la rottura dei legami con l’associazione criminale di appartenenza – non poteva avere accesso ai benefici premiali de quo.

Occorre brevemente osservare che l’ergastolo ostativo è il risultato della riforma legislativa introdotta dalla legge n. 356/1992. Esso si basa sulla lettura combinata dell’articolo 22 c.p. e degli articoli 4 bis e 58 ter o.p., in virtù dei quali, in caso di assenza di collaborazione da parte del condannato, è preclusa la concessione della libertà condizionale, di misura alternative alla detenzione e di altri benefici penitenziari.

Nella disamina del caso, i giudici di Strasburgo hanno analizzato la giurisprudenza costituzionale rilevante, evidenziando che nella sentenza n. 12/1966 la Consulta aveva rilevato le diverse funzioni della sanzione penale tra cui, in applicazione dell’art. 27 Cost., la finalità rieducativa della pena. La Corte si era anche pronunciata sul regime del cd. carcere duro (sentenze n. 306/1993, 273/2001, 135/2003), non considerandolo irragionevole e sproporzionato, essendo esso espressione della scelta legislativa di privilegiare gli aspetti di prevenzione generale e protezione della comunità.

Inoltre, la giurisprudenza di legittimità aveva introdotto la possibilità per il giudice di effettuare una valutazione personalizzata nei casi in cui la collaborazione risultasse impossibile o inesigibile, evitando così rigidi automatismi nell’esclusione dei benefici penitenziari per i detenuti.

Con riguardo alla giurisprudenza convenzionale, le decisioni Vinter, Murray e Hutchinson contengono i principi ispiratori in tema di reclusione perpetua[3]. Secondo la Corte, tale pena non è in assoluto incompatibile con la CEDU, qualora sussista una prospettiva di rilascio e una possibilità di riesame della pena, che deve quindi risultare de jure[4] o de facto comprimibile.

La legislazione italiana contiene nell’articolo 4 bis una presunzione di pericolosità del condannato in relazione al tipo di reato contestato. Essa però non vieta, in modo assoluto e automatico, l’accesso alla libertà condizionale e ad altri benefici specifici del sistema penitenziario, ma li subordina alla collaborazione con la legge. Inoltre, nell’ordinamento nazionale esiste un principio di progressione trattamentale del detenuto.

Pertanto, la questione che si poneva dinanzi alla Corte di Strasburgo era la seguente: può il legislatore subordinare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ai meccanismi premiali?

          2. La decisione della Corte

Occorre notare che, nella propria decisione, la Corte prende in esame le specificità del fenomeno mafioso nel contesto dell’ordinamento italiano. In particolare, rileva come il reato di cui all’art. 416 bis c.p. si caratterizzi per i connotati di permanenza del vincolo con il sodalizio criminale, che il legislatore italiano reputa potersi sciogliere solo in caso di collaborazione significativa del detenuto con la giustizia.

Tuttavia ciò, ad opinione dei giudici della Corte, non basta per far venir meno i principi della Convenzione in tema di detenzione perpetua.

Infatti, sebbene il regime nazionale offra al condannato la scelta di collaborare, la Corte EDU dubita dell’effettiva libertà di tale scelta e dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancata collaborazione e la pericolosità sociale del condannato, poiché il rifiuto di cooperare potrebbe essere determinato dal timore di mettere in pericolo la propria vita o quella dei suoi conoscenti. Al, contrario, si potrebbe avere una situazione in cui la persona condannata collabora con le autorità, senza che il suo comportamento rifletta un emendamento da parte sua o la sua effettiva dissociazione dall’ambiente criminale.

La Corte nota, poi, che al ricorrente non furono mai applicate sanzioni disciplinari e che, dopo la sua condanna, si erano accumulati, grazie alla sua partecipazione a un programma di reinserimento, circa cinque anni per il rilascio anticipato, di cui egli non avrebbe potuto beneficiare, per la mancata collaborazione. Tale mancata collaborazione determinava per il ricorrente una presunzione assoluta di pericolosità, con l’effetto di privare il richiedente di ogni prospettiva realistica di rilascio, non potendo dimostrare che nessuna legittima ragione di ordine penale giustificava la sua detenzione continuativa.

Per i giudici di Strasburgo ciò configura una violazione dell’art. 3 CEDU, poiché, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolo sociale, si collega la pericolosità della persona interessata al momento in cui furono commessi i reati, senza prendere in considerazione il processo di reinserimento e i progressi compiuti dopo la condanna.

I giudici di Strasburgo ribadiscono così il principio in virtù del quale la legislazione e le autorità nazionali devono offrire al detenuto la possibilità reale di reinserirsi e tale possibilità e le relative condizioni devono essere da lui conosciute.

E’ quindi inammissibile una presunzione di pericolosità come quella contenuta nell’ordinamento italiano, che impedisce, di fatto, al giudice di esaminare la richiesta di libertà vigilata, tramite una valutazione del percorso individuale del detenuto e la sua evoluzione nel percorso di risocializzazione, a causa della mancata collaborazione.

      3. Le conseguenze della decisione sul piano interno

Nel caso di specie, la Corte sottolinea che, pur dovendosi adottare le misure necessarie per porre fine alla violazione dei diritti del ricorrente, quest’ultimo non ha “automaticamente” acquisito il diritto alla liberazione. Viola potrà piuttosto beneficiare di un riesame della sua domanda di liberazione, volta a superare la presunzione assoluta di pericolosità per mancata collaborazione. Solo qualora i giudici interni non ritenessero sussistenti ragioni legittime tali da giustificare la detenzione, si dovrà optare per la liberazione.

Sul piano generale, la Corte EDU, rilevata la violazione dell’art. 3 CEDU, ribadiscono la necessità di adottare, in virtù dell’art. 46 CEDU, misure generali sul piano interno, necessarie per risolvere un problema strutturale del sistema penitenziario italiano che potrebbero portare all’introduzione di molte altre richieste riguardanti lo stesso problema.

Il legislatore nazionale dovrà quindi mettere in atto una riforma legislativa del regime di ergastolo per garantire la possibilità effettiva di una revisione della condanna alla detenzione perpetua, eliminando qualsiasi presunzione assoluta di pericolosità.

 

[1] Enrica Oberto, Fine pena mai – La disciplina italiana e cenni di diritto comparato sulla detenzione perpetua in attesa della pronuncia della Corte Edu sull’ergastolo ostativo, gennaio 2019, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/fine-pena-mai-la-disciplina-italiana-e-cenni-di-diritto-comparato-sulla-detenzione-perpetua-in-attesa-della-pronuncia-della-corte-edu-sullergastolo-ostativo-16638  (ultimo accesso il 18/06/2019)

[2]Caso Viola c. Italia, n. 77633/16, disponibile al link https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-194036%22]} (ultimo accesso il 18/06/2019).

[3] Vinter e altri c. Regno Unito n. 66069/09, Murray c. Olanda n. 10511/10, Hutchinson c. Regno Unito n. 57592/08.

[4] Per esempio, nel caso Öcalan c. Turchia, la legge turca precludeva in modo automatico ogni possibilità di ottenere un riesame.

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