martedì, Aprile 16, 2024
Criminal & Compliance

Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone: natura, qualificazione giuridica e rapporti con il delitto di estorsione

 

Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone: natura, qualificazione giuridica e rapporti con il delitto di estorsione.

 

1. Inquadramento – 2. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni: natura, presupposti oggettivi ed elemento soggettivo – 3. Cono d’ombra e sovrapposizione di tutela con il reato di estorsione: la soluzione alla “querelle” da parte delle Sezioni Unite

 

  1. Inquadramento.

Il titolo III, capo III del codice penale, dedicato alla “Tutela arbitraria delle private ragioni”, comprendeva, originariamente, due distinti gruppi di fattispecie: l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (artt. 392 e 393 c.p.) ed il duello (artt. 394 ss. c.p.). Tuttavia, il quadro normativo così delineato è stato definitivamente modificato dalla legge n. 205 del 1999, mediante la quale il Legislatore ha abrogato tutte le ipotesi di duello, facendo residuare le fattispecie comunemente identificate come reati della c.d. “ragion fattasi” e variamente distinte nelle due ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) e sulle persone (art. 393 c.p.).

Le incriminazioni enucleate dalle fattispecie in esame partono dall’oggettiva consapevolezza che le liti fra privati possono comporsi nella realtà fenomenica, da un lato, secondo modelli prefissati sotto l’egida garantista dello Stato moderno e, da altro lato, al di fuori dalla giurisdizione per il tramite di schemi non vincolati e rappresentati dall’autotutela privata.

Se è vero, come è vero, che una composizione pacifica delle liti al di fuori della giurisdizione non può essere vietata e, a maggior ragione, penalmente sanzionata, non può revocarsi in dubbio che uno Stato costituzionale democratico di diritto, fulcro di una necessaria prevaricazione della forza del diritto su un preteso diritto della forza, deve presupporre nella sua più intima essenza un divieto, penalmente sanzionato, di esercizio della violenza arbitrario edillegittimo, facendo salvi i casi in cui l’uso illegittimo immediato della forza si inserisca in un contesto fattuale ascrivibile a categorie giuridiche che rendano in concreto lecita o non sanzionabile una condotta astrattamente illecita.

In questo quadro gravita la considerazione politico-criminale della cennata tutela arbitraria delle private ragioni, comprensiva di fattispecie di reato che sanzionano la condotta di chi, titolare di un legittimo diritto, si faccia “giustizia da solo”, pur potendo ricorrere e trovare adeguata tutela nell’Autorità giurisdizionale.

Tali premesse rendono evidente come lo scopo perseguito dalle norme sia rappresentato dalla volontà di garantire l’esclusiva competenza dell’Autorità giudiziaria nella soluzione delle controversie e, dunque, di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari, stigmatizzando il ricorso all’illegittima e violenta autotutela dei privati (ne cives ad arma ruant).[1]

Invero, le fattispecie di reato in oggetto presentano una natura pluri-offensiva posto che, al comune interesse pubblico alla primazia dell’intervento giurisdizionale, si affianca necessariamente l’interesse privato alla tutela, rispettivamente, dell’integrità del patrimonio (art. 392 c.p.) e della persona (art. 393 c.p.), come si può agevolmente argomentare dalla circostanza che le disposizioni in esame prevedono la querela di parte come condizione di procedibilità.

Come si vedrà, quest’ultima caratteristica, seppur presa a fondamento da chi ritiene errata la collocazione del capo III nel titolo relativo ai reati contro l’amministrazione della giustizia, assume un ruolo rilevante nell’individuazione della ratio sottesa alle fattispecie delittuose in esame.

  1. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni: natura, presupposti oggettivi ed elemento soggettivo.

 

In prima approssimazione deve osservarsi che l’inquadramento giuridico della fattispecie prevista all’art. 393 c.p., necessario al fine di poter meglio apprezzare ciò che si dirà in merito ai rapporti che tale delitto può intrattenere con altre fattispecie delittuose, non può non essere condotto anche con riferimento all’analoga fattispecie sanzionata dall’art. 392 c.p.

Una prima questione che emerge dalla lettura della littera legis concerne la corretta individuazione del soggetto attivo del reato e, dunque, la classificazione dello stesso quale reato comune o proprio.

Se la tradizione giuridica più risalente, partendo da un’interpretazione letterale delle norme e valorizzando l’espressione “chiunque”, qualificava i reati in oggetto come reati comuni, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria sono concordi nel riconoscergli la natura di reato proprio.

La querelle ha trovato definitivo sfogo in una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in cui, i giudici di legittimità, ripercorrendo la natura e la struttura delle fattispecie in esame, hanno preso posizione oltre ogni ragionevole dubbio circa la citata natura di reato proprio e, in particolare, di reato proprio non esclusivo, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano del concorso.

Invero, l’orientamento dominate, alla stregua della predetta valorizzazione dell’espressione “chiunque”, ulteriormente corroborata dalla successiva “da sé medesimo”, riteneva che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni fossero da considerare come reati di mano propria, ovvero fattispecie criminose che richiedono nella loro tipicità che la condotta sia posta in essere esclusivamente dal soggetto “qualificato” identificato, nella specie, del presunto creditore.[2] Si riteneva, di conseguenza, che nel caso in cui la condotta fosse stata posta in essere da un soggetto diverso ed estraneo a tale qualifica, non si sarebbe potuto ritenere integrato l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma i reati eventualmente ascrivibili alle condotte poste in essere. La teoria, inoltre, troverebbe giustificazione anche in considerazione del bene giuridico protetto, dal momento che, essendo la fattispecie finalizzata alla tutela del monopolio della giurisdizione, potrebbe ravvisarsi una lesione esclusivamente nel caso in cui l’agente, pur essendo legittimato a rivolgersi all’Autorità, abbia effettivamente agito in autotutela.

Tuttavia, come riconosciuto dalle cennate Sezioni Unite, anche tale orientamento non può essere condiviso, in quanto la ricostruzione storica ed autentica dei reati in oggetto non permettono di affermare che le citate espressioni linguistiche rifuggano un significato meramente descrittivo e pleonastico.[3]

Come in incipit rilevato, i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni presentano un’oggettività giuridica complessa, in quanto l’oggetto di tutela è rappresentato non solo dall’interesse all’amministrazione della giustizia nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ma anche quello del privato, da un lato, alla risoluzione imparziale della controversia e, da altro lato, all’integrità patrimoniale e personale.

Una lettura, seppur approssimativa, del testo di legge, rende evidente che le due fattispecie di reato condividano la medesima struttura, differenziandosi, a livello di fatto tipico, esclusivamente nelle modalità della condotta.

Presupposto oggettivo di entrambi i reati è, infatti, l’azionabilità della pretesa intesa, innanzitutto, come sussistenza di una situazione giuridica (sia essa riferibile ad un diritto di credito o ad un diritto reale) esistente o fondatamente pretesa, ricollegabile ad un qualsiasi diritto soggettivo od interesse legittimo, purché suscettibile di tutela giurisdizionale, sia pure amministrativa. Tale circostanza assume valenza dirimente circa l’esclusione dei diritti che non siano suscettibili o non necessitino di effettiva realizzazione giudiziale quali, ad esempio, i diritti potestativi, le pretese sulle quali si è già formato un giudicato, le pretese riguardanti un’obbligazione naturale o un negozio nullo per illiceità della causa.

Merita sin da subito specificare che se, da un lato, non risulta necessario che la pretesa sia nel merito fondata, ovvero che il diritto sotteso sia realmente esistente, da altro lato, non potrà di certo trattarsi di una pretesa sfornita di qualsiasi base legale e dunque completamente arbitraria. Come si vedrà (§ 3) l’accertamento di tale requisito è preliminare e decisivo per determinare la qualificazione giuridica del fatto alla stregua del reato della “ragion fattasi” con violenza sulle persone, ovvero del delitto di estorsione. A maggior ragione, come ha sottolineato la Suprema Corte, non può costituire esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o minaccia esercitata per far valere un diritto riferibile ad un negozio illecito.[4]

Inoltre, essendo i reati in oggetto caratterizzati dalla sostituzione dello strumento di tutela pubblico con quello privato, la pretesa arbitrariamente posta alla base della condotta dell’agente deve perfettamente corrispondere con l’oggetto della tutela che è nel concreto apprestato dall’ordinamento giuridico.

Come osservato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, se è vero che a nulla rileva che il preteso diritto esista o meno sul piano ontologico, quando l’agente ritenga in buona fede e ragionevolmente di poterlo legittimamente esercitare, risulta d’altronde necessario che la situazione giuridica paventata sia suffragata da elementi di fatto che facciano apparire l’esistenza della stessa come verosimile.

Pertanto, seppur non risulti necessario che il diritto arbitrariamente esercitato sia oggetto di un contenzioso già in atto, la convinzione dell’agente circa la sussistenza di una pretesa non potrà avere un rilievo meramente teorico, ma dovrà necessariamente essere avallata da dati oggettivi.[5]

Come anticipato, seppur lo scheletro giuridico sia il medesimo, l’elemento oggettivo della condotta funge da criterio discriminatore fra le due ipotesi di reato in esame.

L’art. 392, co. 1, c.p. punisce chi “al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sè medesimo, mediante violenza sulle cose”.

Il Codice del 1930, innovando rispetto al suo predecessore, ha inteso individuare esplicitamente quelle condotte che possono integrare la fattispecie in oggetto, specificando, al secondo comma, che l’opera dell’agente si deve tradurre in una violenza rappresentata dal danneggiamento, dalla trasformazione ovvero dal mutamento di destinazione delle cose su cui ricade la condotta.[6]

Pertanto la condotta del soggetto attivo dovrà necessariamente esplicitarsi in un comportamento attivo (non potendo trovar spazio comportamenti meramente omissivi), che si esplica in un’azione materiale di intensità tale da cagionare la distruzione o il danneggiamento della cosa, ovvero lo sviamento dallo scopo a cui era destinata.

Seppur non venga esplicitamene precisato quale debba essere il grado di intensità della condotta e di conseguenza l’entità dell’evento che ne deriva, la giurisprudenza ritiene che ai fini della configurabilità del reato la condotta di danneggiamento, trasformazione o mutamento di destinazione del bene sia stata tale da non rendere agevole l’attività di ripristino della situazione preesistente.[7]

In particolare, circa le modalità della condotta, deve osservarsi come non integrano l’elemento oggettivo del reato gli atti con cui il soggetto attivo, seppur con violenza, mantenga il possesso attuale del bene (c.d. violenza manutentiva), ovvero lo recuperi nell’immediatezza dello spoglio subito (c.d. violenza reintegrativa). Come osservato dalla giurisprudenza, infatti, tali comportamenti non sono passibili di sanzione dal momento che sono causalmente orientati a conservare ovvero a ripristinare nell’immediatezza del fatto, l’ordine giuridico preesistente[8].

Con la L. n. 547/1993, si è andata delineando quella che può essere definita come un’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza su supporti informatici.

La novella ha infatti modificato la disposizione, specificando che si ha violenza sulle cose anche quando venga alterato, modificato o cancellato, in tutto o in parte, un programma informatico (ovvero un programma finalizzato all’elaborazione di dati ed al loro trattamento automatico mediante elaboratori elettronici) o sia turbato il funzionamento di un sistema informatico o telematico (inteso come quel complesso di terminali tra loro collegati e connessi ad un centro di elaborazione di dati).

A differenza del citato esercizio arbitrario con violenza sulle cose, l’art. 393, comma 1, c.p. punisce chi “al fine indicato all’articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragioni da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone”.

La fattispecie è formulata sulla base dei medesimi presupposti[9], ma, come già affermato, individua il suo elemento discretivo nella configurazione di una condotta di violenza o di minaccia, che si deve indirizzare non verso le cose, ma sulle persone.

Orbene è di palmare evidenza che il legislatore abbia distinto i due reati, soprattutto sul piano delle conseguenze sanzionatorie, tenendo sempre ferme le considerazioni circa la predetta natura complessa e pluri-offensiva delle fattispecie e, conseguentemente, apportando una tutela maggiore in relazione alle condotte che ledono anche l’integrità fisica della persona offesa, piuttosto che a quelle che incidono sulla sfera patrimoniale.

A livello puramente lessicale, la violenza fa riferimento all’utilizzo di energia fisica per vincere un ostacolo reale o supposto, mentre la minaccia è la prospettazione ad un terzo di un male ingiusto e futuro, il cui verificarsi dipende dalla volontà del minacciante.

È evidente che tali concetti ricorrono in più occasioni nelle fattispecie delittuose previste dal codice penale, con la immediata conseguenza che spesso, come si vedrà, potrebbe ravvisarsi un cono d’ombra in cui più fattispecie vi si intersecano.

Tale rapida lettura delle disposizioni permette una preliminare osservazione.

Come a più riprese evidenziato dalla tradizione giuridica, le condotte previste dagli artt. 392 e 393 c.p. sono state strutturate dal legislatore in maniera tale da poter integrare rispettivamente quantomeno le fattispecie di danneggiamento (art. 635 c.p.)[10] e di violenza privata (art. 610 c.p.) [11].

Tuttavia, il trattamento sanzionatorio riservato per i primi è marcatamente più mite (salvo che nel caso del danneggiamento non aggravato, trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016) rispetto ai delitti che in esso sono necessariamente contenuti e ciò nonostante il fatto che, come già accennato, nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rispetto al 635 c.p. ed al 610 c.p., si aggiunga l’offesa dell’interesse all’amministrazione della giustizia.

Inoltre, seppur le condotte comportino anche la lesione di un interesse pubblico, in ragione del quale si giustifica la collocazione nel titolo III, esso è perseguibile a querela di parte e non d’ufficio, il che comporta che il danneggiamento e la violenza privata, ordinariamente procedibili d’ufficio, quando ledono una prerogativa dell’Autorità giudiziaria, oltre ad essere puniti meno gravemente, diventano procedibili a querela di parte.

Questa apparente distonia del sistema non può che trovare giustificazione nella ratio sottesa alle fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ovvero nella circostanza che la condotta del soggetto attivo è animata dall’intenzione e nel convincimento di agire a tutela di un proprio legittimo diritto. Pertanto tale convincimento, avvertito con minor preoccupazione dalla coscienza sociale, influisce fortemente sull’offensività della condotta come motivo di attenuazione della pena e conseguentemente giustifica l’attivazione dell’interesse statuale ad esclusiva querela di parte.

Detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza sancito all’art. 3 della Costituzione, trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima. Non per altro, come spesso ricordato, l’art. 3 della Carta fondamentale dei Diritti deve essere interpretato come obbligo di uguale trattamento di medesime posizioni, ma anche come obbligo di un trattamento differenziato in presenza di situazioni diverse.

Conclusa, dunque, la disamina degli elementi oggettivi che caratterizzano i delitti in oggetto, dovrebbe procedersi alla trattazione dell’altra componente fondamentale nella teoria del reato, ovvero l’individuazione dell’elemento soggettivo. Essendo quest’ultimo, alla luce delle recenti Sezioni Unite, elemento decisivo al fine di poter individuare una corretta linea di demarcazione rispetto al reato di estorsione, si rinvia la trattazione a detta sede.

 

  1. Cono d’ombra e sovrapposizione di tutela con il reato di estorsione: la soluzione alla “querelle” da parte delle Sezioni Unite.

Come anticipato, meritano ora di essere apprezzati nello specifico i rapporti che possono intercorrere tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione, ripercorrendo gli orientamenti formatisi sul punto ed alla luce della recente e dirimente pronuncia delle Sezioni Unite.

La comune esperienza sviluppatasi nelle aule dei Tribunali ha reso evidente come spesso vi possano essere forti incertezze nell’individuazione di un limpido confine, in quanto una medesima condotta, se apprezzata da un punto di vista esclusivamente fenomenica, può ben essere ascritta ad entrambe le suddette fattispecie delittuose.[12]

È pertanto evidente il rischio di sovrapposizione, stante il fatto che in entrambi i casi la condotta materiale si estrinseca in una violenza o minaccia volta al conseguimento di un’utilità di natura patrimoniale.

Tuttavia, merita di essere evidenziato sin da subito che seppur non possa revocarsi in dubbio una certa somiglianza, parimenti non potrebbe mai paventarsi una assoluta identità e sovrapponibilità fra le condotte ascrivibili ai reati in oggetto.

Infatti, se, da un lato, la violenza e la minaccia rappresentano gli elementi costitutivi di entrambi i reati, da altro lato, solo il delitto di cui all’art. 629 richiede l’ulteriore elemento della “costrizione” della vittima. Quest’ultima risulterebbe causalmente legata alla prima, venendo a costituire un elemento intermedio, ma necessario, fra la condotta violenta e la dazione patrimoniale che arreca “l’ingiusto profitto con altrui danno”.

Un primo orientamento, affermato in più occasioni dalla giurisprudenza di merito e di legittimità[13], rinveniva il discrimine fra le due fattispecie mediante una valorizzazione dell’elemento materiale della condotta e, in particolare, del suo grado di intensità.

Secondo questa lettura, le condotte violente individuate dall’art. 393 c.p. si pongono come elemento accidentale rispetto alle finalità perseguite dall’agente, risultando di conseguenza incompatibili con le sue intenzioni, comportamenti smodatamente aggressivi.

Questi ultimi, infatti, essendo specificatamente diretti alla coartazione della volontà del soggetto passivo, rendono necessariamente ingiusto il profitto perseguito, a prescindere alla sussistenza di una legittima pretesa sottostante.

Pertanto, una condotta violenta caratterizzata da una particolare pervicacia e aggressività o una minaccia tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima, sarebbero da sole sufficienti a ricondurre le fattispecie concrete nell’alveo del delitto di cui all’art. 629 c.p.

Secondo quello che potrebbe essere considerato una specificazione di quest’ultimo orientamento, la linea di confine dovrebbe tracciarsi con riferimento alle conseguenze della condotta e, in particolare, alla circostanza che la capacità volitiva del soggetto passivo sia stata, o meno, annullata. Di conseguenza troverebbe configurazione il delitto della c.d. “ragion fattasi”, quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che abbiano un epilogo persuasivo, ma non totalmente costrittivo; mentre sarebbe configurabile come estorsione, quella condotta minacciosa e violenza che, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva.[14]

Invero, un primo rilievo concerne specificatamente il tenore letterale delle disposizioni. Sia l’art. 393 c.p. che l’art. 629 c.p. non contengono alcun tipo di riferimento alla gradazione delle condotte violente e minacciose “né verso l’alto, né verso il basso”.[15] Non v’è ragione, pertanto, di ritenere la materialità e l’intensità della condotta elemento qualificante e discretivo fra i due delitti, quanto piuttosto un corretto indice di graduazione del trattamento sanzionatorio.

In ogni caso, nonostante tali teorie abbiano resistito fino al più recente passato, le già citate Sezioni Unite dell’ottobre 2020 hanno definitivamente sancito la loro incoerenza ed inattendibilità, esprimendosi a favore, invece, di altro orientamento pur presente da tempo nell’inchiostro di dottrina e giurisprudenza.

Decisiva, ai fini del rigetto della tesi che vede nell’elemento dell’intensità della condotta il criterio discretivo delle fattispecie,  appare il disposto dell’artt. 393 co. 3 e 629 co. 2 c.p. (in quest’ultimo caso, mediante richiamo dell’art. 628, co. 3, n. 1, c.p.) ai sensi dei quali la pena è aumentata se “la violenza o minaccia è commessa con armi”.

È evidente che l’assenza nella littera legis di alcuna distinzione fra l’uso di armi da fuoco e l’utilizzo di armi bianche rende particolarmente fondato il ragionamento che segue.

Infatti, dal momento che il reato di cui all’art. 393 c.p. può potenzialmente includere a livello di fatto tipico una condotta caratterizzata dall’uso di armi, e tenuto conto che tale tipo di condotta è di certo caratterizzata da un elevatissimo grado di pericolosità e sproporzione rispetto al fine conseguito,  se ne deduce che non potrebbe mai assumersi come elemento distintivo della fattispecie rispetto al reato di estorsione, l’intensità e la particolare gravità o persuasività della condotta.

Deve concludersi quindi che, come già affermato, il livello offensivo del comportamento posto in essere dall’agente potrà avere un rilievo determinante in punto di determinazione della pena, ma non in sede di qualificazione giuridica del fatto.

Come da ultimo sottolineato dalle cennate Sezioni Unite, deve ritenersi valido altro orientamento, già presente nella giurisprudenza legittimità[16] che individua il criterio discretivo delle due fattispecie nell’elemento psicologico.

Nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nel convincimento non meramente astratto ed arbitrario di esercitare un suo diritto o una sua pretesa, che avrebbe potuto trovare sfogo nella tutela giurisdizionale; al contrario nell’estorsione il dolo consiste nella coscienza e volontà del fatto tipico allo scopo di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nella consapevolezza di non averne diritto.[17]

Come già anticipato, verifica preliminare ed imprescindibile ai fini della qualificazione del fatto, è rappresentata dalla circostanza che il diritto oggetto della legittima tutela privata sia rappresentato, a prescindere dalla fondatezza nel merito, da una pretesa non del tutto arbitraria. Infatti, nel caso in cui quest’ultima si appalesi come tale o addirittura come illecita, non essendo conseguentemente esercitabile in nessun caso nelle sedi del Palazzo di Giustizia, il fatto tipico e la condotta non potranno che essere ascritti al delitto di cui all’art. 629 c.p.

Questo concetto rappresenta un fondamentale appiglio per l’analisi di altra questione.  Secondo alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità, la condotta violenta o minacciosa potrebbe essere qualificata come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche quando diretta nei confronti non della controparte sostanziale del diritto che si invoca a presupposto dell’azione, ma verso terzi comunque connessi a quest’ultimo (ad esempio i familiari).

Tale concezione, secondo le cennate Sezioni Unite non può e non deve trovare consenso, dal momento che situazioni come quella sopra descritta risultano pienamente incompatibili con il delitto di cui all’art. 393 c.p.

Quest’ultimo, come visto, vede come suo presupposto imprescindibile l’astratta possibilità di tutela giurisdizionale del diritto sotteso. Conseguentemente, dal momento che la tutela giurisdizionale di un diritto potrebbe trovare sfogo solo con riferimento alla contrapposta parte processuale (titolare della contrapposta posizione sostanziale), le violenze o minacce perpetuate verso un soggetto terzo al fine di far adempiere una pretesa seppur legittima, dovranno correttamente essere ascritte ad altra fattispecie di reato.

Di particolare interesse sono le considerazioni che le Sezioni Unite rappresentano con riferimento alla problematica dalla corretta individuazione delle regole probatorie necessarie al fine di ravvisare l’elemento soggettivo che si è estrinsecato nel caso concreto. Tale circostanza assume un rilievo di non poco conto in considerazione del rischio che l’indagine sull’elemento psicologico si risolva in una difficile indagine sul solo atteggiamento interiore dell’agente.

Secondo le Sezioni Unite le regole dovrebbero governare l’inquadramento probatorio del suddetto elemento non possono che essere quelle ordinarie, ovvero quelle regole che non si limitano ad un’indagine meramente interna, ma prendono in considerazione fattori anche esterni che da soli, o combinati, suffragano le conclusioni in un senso, o nell’altro (ad esempio, l’intensità e la veemenza della condotta potrà essere considerata, se non come elemento distintivo tra le due fattispecie, quantomeno come indice sintomatico del dolo di estorsione).[18]

[1] In dottrina si veda: FOSCHINI, “Il “diritto preteso” e la “ricorribilità al giudice nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, in Riv. It., 1951, p. 149; VERGA G., “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, in Il Penalista, Bussola del 14 agosto 2017; MAZZANTI M., “Esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 614. In giurisprudenza si veda: Cass. pen., sez. II, sent 28.6.2016 n. 46288, in De Jure; Cass. pen., sez. VI, sent. 8.3.2013 n. 23322, in De Jure.

[2] Cassazione penale sez. II, 13/09/2017, n.44234 secondo cui: “Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra tra i reati propri esclusivi o di mano propria, ed è dunque configurabile nei soli casi in cui la condotta tipica sia posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto (confermata nella specie la sentenza che aveva condannato l’imputato per i reati di tentata estorsione e lesioni avendolo ritenuto il mandante di richieste di denaro e di un pestaggio eseguito ai danni della persona offesa da altre persone)”.

[3] Si veda Cass. Sez. Un., 23.10.2020, n. 29541, in De jure, secondo cui: “Il riferimento, per integrare la descrizione della fattispecie tipica di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, alla necessità che il soggetto che vanta il preteso diritto si faccia ragione “da sè medesimo”, già esistente nell’art. 235 c.p. Zanardelli del 1889, è stato mutuato dall’art. 146 del codice toscano del 1853, in relazione al quale esso era stato pacificamente interpretato dalla dottrina come meramente descrittivo: “quando chi crede di avere una pretesa giuridica sostituisce la sua forza al potere del giudice, si fa ragione da sè medesimo. Perciò i giureconsulti toscani denominarono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni: ragion fattasi”. I lavori preparatori del codice penale del 1889 non attribuiscono all’espressione un diverso significato: i verbali della Commissione istituita con R.D. 13 dicembre 1888 (cfr. intervento del relatore Auriti) confermano, anzi, che l’espressione “da sè medesimo” esprime unicamente “la surrogazione dell’arbitrio individuale al potere della pubblica Autorità, in che il reato consiste”. I lavori preparatori del codice penale del 1930 sono, sul punto, assolutamente silenti.”.

[4] Si veda Cass. pen. sez. II, sentenza 16.11.2011, n. 42042, in De jure.

[5] Si veda: Cass. pen., sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 39069, in De jure secondo cui “Tra i presupposti del reato non figura, quindi, l’esistenza obiettiva di una controversia in atto, almeno nei termini indicati dal ricorrente. La stessa sentenza citata (Sez. 6^, 11 febbraio 1999, n. 2830, Palazzolo) nell’affermare che il reato di cui all’art. 392 c.p., postula che il preteso diritto sia realmente oggetto di contrasto fra le parti, non richiede che vi sia una controversia giudiziale in atto, riconoscendo sufficiente una “contesa di fatto” o, quanto meno, “potenziale” da parte del soggetto passivo (Sez. 6^, 26 maggio 1980, n. 11510, Cocchiara)”; Cass. pen., Sez. V, 19 giugno 2013,n. 41586, in De jure.

[6] Cass. pen., Sez. VI, 8 agosto 2019, n. 35876, in De jure, secondo cui: “In tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la violenza sulle cose può consistere anche in un mutamento di destinazione d’uso del bene, che non determini danni materiali, purchè l’intervento modificativo abbia concreta incidenza sull’interesse della persona offesa a mantenere inalterato lo stato dei luoghi, ostacolando in misura apprezzabile l’esercizio del suo diritto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che fosse connotato da violenza il mero spostamento di tre oggetti precariamente collocati su un terreno oggetto di contesa, in considerazione dell’agevole possibilità di ricollocazione nello “status quo ante” da parte della persona offesa)”.

[7]  Cass. pen., sez. II, del 18.11.2013, n. 46153, in De jure, in cui la Corte ha escluso che l’asportazione di mobili da un appartamento senza causare danni agli arredi o all’immobile potesse integrare il delitto di cui all’art. 392, c.p.

[8] Si veda Cass. pen., sez. II, 18 maggio 2001, n. 20277, in De jure.

[9] Ancora con riferimento ai presupposti del reato si veda VERGA G., Esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in il Penalista, Bussola del 14 agosto 2017, secondo cui: “La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è proprio la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato. (È stato così ritenuto corretto ravvisare il delitto di furto nella condotta con la quale l’imputato, a seguito del mancato pagamento del corrispettivo da parte del committente di un contratto avente ad oggetto la vendita e l’installazione di alcuni cancelli, aveva rimosso e ripreso i cancelli installati perché nella specie non vi era coincidenza tra la pretesa azionata e l’azione di risoluzione contrattuale, considerato che, se questa fosse stata esperita, la restituzione del bene non sarebbe stata comunque ottenuta) (Cass. pen., 24 novembre 2014, n. 2819). L’espressione al fine di esercitare un preteso diritto permette di distinguere l’esercizio delle proprie ragioni dall’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p. La scriminante dell’esercizio di un diritto non può infatti prescindere dalla corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al medesimo diritto in gioco, per evitare il concretarsi di un’ipotesi di abuso ricadente al di fuori dello schema dell’art. 51 c.p. L’esercizio di un diritto c.d. “contestabile” non può invece che avvenire ricorrendo all’intervento dirimente del giudice, non potendosi legittimare l’autosoddisfazione per il superamento degli ostacoli che si frappongono al concreto esercizio del diritto”.

[10] Si veda l’art. 635 c.p., co. 1, rubricato “Danneggiamento” e recentemente modificato dal D.L. 14 giugno 2019, n. 53, ai sensi del quale “1. Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione del delitto previsto dall’articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.

[11] Si veda l’art. 610 c.p., rubricato “Violenza privata”, ai sensi del quale: “1. Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. 2. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”.

[12]  Si veda Cass. pen. sez. II,  4.12.13, n. 51433, in De Jure, secondo cui “Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e quello di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stata l’intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria”.

[13] Si veda Cass. pen., sez. I del 2.12.2003, n. 10336, in De jure; Cass. pen., sez I, del 2.7.2014 n. 32795, in De jure; Cass. pen., sez. VI, del 25.3.2015, n. 17785 in De jure; Cass. pen., sez. VI, del 21.6.2010, n. 32721, in De jure.

[14] Si veda Cass. pen. , sez. II, del 17.2.2016 n. 11453, in De jure; ; Cass. pen. , sez. II, del 3.7.2018, n. 55137, in De jure.

[15] Cass. pen., sez. 6, del 12.6.2014, n. 45064, in De Jure.

[16] Invero secondo alcune ancor più risalenti pronunce il criterio differenziale tra i delitti di cui agli artt. 629 e 393 c.p. consiste nell’elemento intenzionale, in quanto nel primo l’intenzione dell’agente è di procurarsi un ingiusto profitto, mentre nel secondo il reo agisce per conseguire un’utilità che ritiene spettargli, nonostante che il suo diritto sia contestato o contestabile, senza adire l’Autorità giudiziaria. Si veda Cass. 21.1.1941, in Giust. pen. Cass. 21 gennaio 1941, Clocchiatti, Giust. pen., 1941, II, 810, 1078; Cass. 27 marzo 1950, Paoli, Riv. pen., 1950, 679).

[17] Cass. pen. sez II, del 28.6.2016, n. 46288, in De jure; Cass. pen. sez II, del 30.9.2015, n. 44674  in De jure; Cass. pen. sez II, del 3.11.2015, n. 46628  in De jure; Cass. pen. sez. II, del 30.9.2015 n. 42734,  in De jure. In particolare si veda Cass. pen. sez. un. cit. secondo cui: “va anche collocata Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, Di Lauro, Rv. 271963, per la quale il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretesa giuridicamente azionabile: in tal caso, infatti, l’ingiusto profitto sussiste sia nel caso in cui il vantaggio ricercato dal reo coincida con il prezzo della liberazione, sia nel caso in cui detto vantaggio derivi dall’esecuzione di un pregresso rapporto illecito con la vittima del reato, trattandosi di una pretesa non tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria”.

[18] Si veda Cass. pen., Sez. Un., cit., 11, secondo cui: “Questa Corte è, infatti, ferma nel ritenere, in generale, che la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che “il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante”, e, di conseguenza, “le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’art. 393 c.p.”, ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, Brudetti, Rv. 265320)”.

Sabino Quercia

Dottore in Giurisprudenza, nato nel 1997. Si laurea in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Trento con la votazione di 110 e lode/110, discutendo una tesi interdisciplinare in diritto tributario e diritto processuale civile intitolata: “La tutela del contribuente nella fase esecutiva: le parentesi oppositive alle esecuzioni esattoriali." Ha effettuato un tirocinio di 6 mesi presso la Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano ed ha frequentato un Corso di Perfezionamento in Diritto Societario presso l'Università degli Studi di Milano - Statale. Frequenta il Master universitario di secondo livello in Diritto della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. È attualmente impiegato nel Tirocinio ex 73 d.l. 69/2013 presso il Tribunale Penale di Bari, 1° Sezione dibattimentale, approfondendo in particolar modo le tematiche relative al Diritto Penale dell'Economia. E-mail: sabino.quercia1997@gmail.com

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