venerdì, Aprile 19, 2024
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Esiste un diritto all’anonimato in rete?

Nel 1980, Michel Foucault accettò di essere intervistato da Christian Delacampagne per il quotidiano francese “Le Monde”[1]. Il celebre scrittore francese, però, pose una condizione: l’intervista sarebbe dovuta restare anonima. Qualsiasi riferimento o dettaglio riconducibile alla sua identità doveva essere eliminato.

Delacampagne aprì l’intervista domandandogli il perché della scelta dell’anonimato, e Foucault rispose così: “[…] Perché le ho suggerito di utilizzare l’anonimato? Per nostalgia del tempo in cui ero assolutamente sconosciuto e, quindi, quel che dicevo aveva qualche possibilità di essere inteso.”[2]

Il problema era che spesso e inevitabilmente si finiva per giudicare, o meglio pre-giudicare, un pensiero non per il suo contenuto oggettivo, ma bensì per la voce da cui proveniva. La storia della letteratura, e delle arti creative in generale, ci ha insegnato che una delle condizioni fondamentali per favorire la libertà d’espressione e la manifestazione del pensiero è l’anonimato.

Moltissimi pensatori, scrittori e artisti, spesso nascondevano la propria identità ricorrendo a degli pseudonimi per evitare ripercussioni e ritorsioni, al fine di poter esprimere le proprie opinioni. Vi sono tante motivazioni valide per restare nell’ombra dell’anonimato, da possibili rappresaglie legali o economiche al più semplice desiderio di tutelare il proprio diritto alla privacy.

In tal senso la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, nel 1995, recitò “[…] l’identità di un autore non è differente da altre componenti del contenuto di un documento che l’autore è libero di includere o escludere […]. L’anonimato offre ad uno scrittore che può essere impopolare un modo per assicurarsi che i lettori non accolgano il suo messaggio con pregiudizio semplicemente perché non gradiscono chi lo propone.[3]

Se in passato i critici, o comunque coloro che potevano esprimere il proprio pensiero su larga scala, erano una cerchia ristretta e territorialmente limitata dalla carta stampata o dalle difficoltà tecniche e tecnologiche che incontravano i primi modelli di radio e televisione, con l’avvento di internet tutti questi ostacoli sono venuti meno.

Cambia il piano di gioco ed ovviamente cambiano anche i giocatori. Ad esempio, in Campania e non solo, il popolo della rete si pone una domanda: chi è Liberato?

L’artista napoletano dall’identità super segreta che sta unendo l’Italia con la sua musica è ormai diventato un fenomeno di massa ed intorno alla sua misteriosa figura, nata e sviluppatasi online, si è generato quello che gli americani chiamano “hype”, o più banalmente in italiano “eccitazione”, che gioca un ruolo fondamentale nell’enorme successo riscontrato.

In realtà la vera domanda sarebbe un’altra: Liberato ha il diritto di non rivelare la sua identità? In altre parole, esiste un diritto all’anonimato?

Sul punto si rinvengono doverose considerazioni sociali, politiche e legali che spesso sono in contrasto tra loro.

Innanzitutto, nell’ordinamento italiano non è riconosciuto un generale diritto all’anonimato, salvo che norme speciali non lo prevedano espressamente.

Il tessuto normativo previsto dal codice civile prevede il diritto al nome, ex art. 6, e il diritto ad uno pseudonimo, ex art. 9, qualora questo abbia acquisito la stessa importanza del nome tale da consentire l’identificazione tra i consociati.

Ad una prima analisi, l’anonimato sembrerebbe essere in contrasto con tali disposizioni. Ma se si considera il contesto sociale nel quale viviamo, e cioè la società dell’informazione, uno dei principali strumenti di tutela del proprio nome e della propria identità è proprio l’anonimato.

Contrariamente alle disposizioni del codice civile, la Dichiarazione dei diritti di internet, approvata nel luglio 2015[4], tutela espressamente il diritto all’anonimato. L’art. 10 statuisce, al primo comma, che “Ogni persona può accedere alla rete e comunicare elettronicamente usando strumenti anche di natura tecnica che proteggano l’anonimato ed evitino la raccolta di dati personali, in particolare per esercitare le libertà civili e politiche senza subire discriminazioni o censure”.

Il comma due ed il comma tre, pongono invece dei limiti all’attività anonima che, è bene sottolineare, non è confinata alla sola comunicazione elettronica, ma si estende anche all’accesso alla rete. In particolare, il comma tre delinea in maniera abbastanza chiara, seppure permangono zone grigie, su quali base la legge potrà richiedere l’identificazione dell’autore della comunicazione.

Tuttavia, la Dichiarazione è avvolta da un pressante interrogativo: che valore ha? Sicuramente è un documento frutto di un progetto degno di ammirazione, ma bisogna ugualmente riconoscerne i limiti. È un corpus dal forte valore culturale e politico utile solo e soltanto, purtroppo, ad indirizzare e guidare l’attività del legislatore.

Data la natura extra territoriale di internet, la questione va affrontata anche da un punto di vista comunitario ed internazionale.

Negli Stati Uniti, la Corte Suprema nella sopracitata sentenza ha chiarito che “L’anonimato è uno scudo dalla tirannia della maggioranza […] esemplifica in tal modo lo scopo alla base del Bill of Rights e del Primo Emendamento, in particolare: proteggere gli individui impopolari dalle rappresaglie e le loro idee dalla soppressione, per mano di una società intollerante.[5]

Inoltre, il diritto degli individui alle comunicazioni anonime è stato stabilito dalla Corte Distrettuale della California del Nord in caso del 1999, in cui fu sancito che “Le persone possono interagire attraverso l’uso di pseudonimi o anonimamente a patto che tali atti non siano in violazione della legge.[6]

In Europa, il diritto all’anonimato ha ricevuto un riconoscimento limitato, dal momento che, tradizionalmente, è stato sempre connesso al diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali. Infatti, gli art. 8 a 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), per certi versi, finiscono per tutelare anche il diritto all’anonimità in rete. Queste previsioni, relative al diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali e alla libera manifestazione del pensiero, non potrebbero trovare piena attuazione senza la possibilità di restare anonimi.

Tuttavia, non tutti sono dell’idea che l’anonimato sia un modo per proteggersi dai pregiudizi della comunità e per veicolare un pensiero in maniera neutrale. La questione ha anche un lato oscuro: essere irriconoscibili e irrintracciabili favorisce lo sviluppo di attività illecite, dalla diffamazione alla vendita o distribuzione di materiale illegale. Pertanto, molti ritengono che limitare l’uso delle comunicazioni anonime attraverso strumenti e procedure volte all’identificazione degli utenti sia un valido modus operandi finalizzato a regolare il cyberspazio.

Infatti, tornando al Bel paese, si resta perplessi nell’apprendere che “L’Italia sta combattendo l’anonimato online tanto quanto la Cina”[7], e lo sta facendo attraverso il disegno di legge n. 2575 finalizzato a tracciare l’identità di tutti gli autori di contenuti sui social network e di chi compie reati attraverso internet[8]. È chiaro che sulla bilancia troviamo, da una parte la privacy degli utenti e, dall’altra, i diritti di coloro che vengono danneggiai da hate speech[9] e fake news[10].

Sul punto è intervenuto il Garante per la privacy, Antonello Soro, il quale ha espresso i suoi dubbi in merito a questa indiscriminata raccolta di dati che, se si dovesse confermare nella sua interezza, violerebbe i principi di proporzionalità e minimizzazione del trattamento dei dati personali.

In conclusione, mentre apparentemente ci avviamo verso l’implementazione di misure tecnologiche che accorcerebbero i chilometri che ci separano dai regimi più autoritari, dobbiamo porci un importantissimo quesito dai molti risvolti, culturali, sociali, politici e legali: nell’epoca in cui i grandi colossi del web sfornano identikit basati su ogni singolo click al fine di fornirci una pubblicità mirata, l’inevitabile esigenza di restare anonimi che ci assale deve essere tutelata o meno?

 

Se ho scelto l’anonimato, non è per criticare questo o quello, cosa che non faccio mai. È un modo per rivolgermi più direttamente all’eventuale lettore, l’unico personaggio che mi interessa: siccome non sai chi sono, non avrai la tentazione di cercare le ragioni per cui dico quello che leggi; lasciati andare, di’ semplicemente è vero, è falso, mi piace, non mi piace. Punto e basta.”[11]

 

[1] Le phiosophe masqué, Le Monde, 6 aprile 1980.

[2] Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, a cura di Alessandro Pandolfi, febbraio 1998.

[3] Traduzione non originale da McIntyre v. Ohio Elections Commission, 514 U.S. 334 (1995), “[…] the identity of the speaker is no different from other components of the document’s content that the author is free to include or exclude […]. Anonymity thereby provides a way for a writer who may be personally unpopular to ensure that readers will not prejudge her message simply because they do not like its proponent.

[4] Dichiarazione dei diritti di internet, luglio 2015, disponibile qui: http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/commissione_internet/dichiarazione_dei_diritti_internet_pubblicata.pdf

[5] Traduzione non originale da McIntyre v. Ohio Elections Commission, 514 U.S. 334 (1995), “Anonymity is a shield from the tyranny of the majority […] It thus exemplifies the purpose behind the Bill of Rights, and of the First Amendment in particular: to protect unpopular individuals from retaliation – and their ideas from suppression – at the hand of an intolerant society.

[6] Traduzione non originale da Columbia Insurance Company v. Seescandy.com, et al. (1999), “People are permitted to interact pseudonymously and anonymously with each other so long as those acts are not in violation of the law”.

[7] Riccardo Coluccini, L’Italia sta combattendo l’anonimato online tanto quanto la Cina, luglio 2017, disponibile qui: https://motherboard.vice.com/it/article/kzabny/litalia-sta-combattendo-lanonimato-online-tanto-quanto-la-cina

[8] Disponibile qui: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/47372.htm

[9] Simone Cedrola, “Hate speech: il confine tra la libertà di espressione e la censura”, giugno 2017, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/hate-speech-confine-la-liberta-espressione-la-censura-3100

[10] Simone Cedrola, “I reati informatici: le “bufale”, tra libertà di espressione e conseguenze penali”, febbraio 2017, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/reati-informatici-le-bufale-liberta-espressione-conseguenze-penali-1053

[11] V. nota 1

Simone Cedrola

Laureto in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli nel luglio 2017 con una tesi in Procedura Civile. Collaboro con Ius in itinere fin dall'inizio (giugno 2016). Dapprima nell'area di Diritto Penale scrivendo principalmente di cybercrime e diritto penale dell'informatica. Poi, nel settembre 2017, sono diventato responsabile dell'area IP & IT e parte attiva del direttivo. Sono Vice direttore della Rivista, mantenendo sempre il mio ruolo di responsabile dell'area IP & IT. Gestisco inoltre i social media e tutta la parte tecnica del sito. Nel settembre 2018 ho ottenuto a pieni voti e con lode il titolo di LL.M. in Law of Internet Technology presso l'Università Bocconi. Da giugno 2018 a giugno 2019 ho lavorato da Google come Legal Trainee. Attualmente lavoro come Associate Lawyer nello studio legale Hogan Lovells e come Legal Secondee da Google (dal 2019). Per info o per collaborare: simone.cedrola@iusinitinere.it

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