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Criminal & Compliance

Estensione delle qualifiche soggettive ex art. 2639 c.c. e reati fallimentari: un recente (e certamente non definitivo) arresto giurisprudenziale Cass. pen., Sez. V, Sentenza n. 33599, 13 settembre 2022

A cura dell’Avv. Giacomo Cossavella

  1. Il caso.

Con sentenza del 28 ottobre 2021, la Corte di appello di Cagliari ha parzialmente riformato la pronuncia resa in primo grado dal locale Tribunale, con la quale l’imputata era stata riconosciuta responsabile di una pluralità di contestazioni aventi ad oggetto reati fallimentari, commessi in qualità di “amministratrice di fatto”.

Avverso tale Provvedimento, la Difesa proponeva ricorso per cassazione, censurando, in particolare, l’affermazione di ricorrenza dei requisiti (oggettivi e soggettivi) di estensione della responsabilità ex art. 2639 c.c.

Prima di entrare nel merito della replica offerta dalla Suprema Corte con la Pronuncia in commento[1], è opportuno ripercorrere brevemente i presupposti di operatività della citata disposizione, così come descritti dal Legislatore e, successivamente, arricchiti dalla cospicua prassi giurisprudenziale sviluppatasi sul punto.

  1. L’estensione delle qualifiche soggettive.
  • Una premessa.

Questione particolarmente annosa è, da sempre, quella inerente l’individuazione delle singole responsabilità penali nell’ambito delle complesse realtà imprenditoriali; il rischio – spesse volte purtroppo concretizzatosi – è quello di valorizzare eccessivamente l’esistenza di mere qualifiche formali e, accontentandosi di ciò, costruire vere e proprie ipotesi di responsabilità “per posizione”, trascurando il dettato fondamentale di cui all’art. 27, comma I Cost.

 In tale contesto si inserisce l’intervento del D. Lgs. 61/2002 che, riformando l’art. 2639 c.c., oltre a porre un freno alla dilagante prassi giurisprudenziale di cui si è detto, ha avuto il merito di comporre l’annosa disputa tra i sostenitori della c.d. “teoria formale” ed i sostenitori della c.d. “teoria realistico-funzionale” nell’individuazione delle responsabilità criminali.

Secondo i primi, gli unici i soggetti attivi dei reati societari “propri” sono coloro i quali risultino dotati della formale qualifica civilistica; una soluzione contraria amplierebbe illegittimamente l’area del penalmente rilevante, violando il principio di legalità materiale penale ed, in particolare, il divieto di analogia [2].

Al contrario, i sostenitori della c.d. “teoria realistico-funzionale”, prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza, valorizzano l’effettivo svolgimento delle funzioni, evidenziando che tale operazione ermeneutica non sia frutto di un procedimento analogico, bensì di una interpretazione estensiva, necessaria a colmare vuoti di tutela lasciati dal Legislatore [3].

La novella legislativa, per parte sua, ha sì condiviso il c.d. “criterio realistico”, ma lo ha ancorato all’accertamento dell’esercizio “in modo continuativo e significativo di poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

In verità, nonostante il merito attribuito alla Riforma, essa non ha eliminato in radice ogni possibile problema interpretativo dal momento che il divieto di analogia, pur formalmente rispettato, potrebbe sostanzialmente risultare aggirato dal potere discrezionale del giudicante che, in mancanza di elementi di fattispecie oggettivi, certi ed univoci, resta comunque insindacabile [4].

Un ulteriore profilo problematico si è posto con riguardo al concreto ambito applicativo della rinnovata disposizione.

In particolare, benché la Legge delega n. 366/2001 espressamente contemplasse l’equiparazione di responsabilità tra soggetti di fatto e soggetti di diritto tra i “principi e criteri direttivi” nella riforma della “disciplina penale delle società commerciali e delle materie connesse” (art. 11, comma I, lett. e), tale profilo non è stato ulteriormente “sviluppato” dal Legislatore delegato, il quale si è limitato a rapportare la disposizione agli illeciti societari contenuti nel codice civile.

Ebbene, limitando l’analisi all’ambito dei reati fallimentari (oggetto di interesse nella Pronuncia in commento), la tesi maggioritaria di dottrina e giurisprudenza è nel senso di ritenere che l’art. 2639 c.c. non abbia una vera e propria funzione incriminatrice, limitandosi, invero, a recepire orientamenti giurisprudenziali (già abbondantemente) consolidati nel nostro ordinamento.

Storicamente, infatti, è proprio nella cornice del diritto penale fallimentare che si è assistito alla nascita della figura dell’amministratore di fatto, sicché deve ritenersi che la citata disposizione “lungi dal contraddire il precedente consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui anche l’amministratore di fatto della società fallita poteva rispondere dei fatti di bancarotta previsti dall’art. 223 Legge Fallimentare, ne costituisce esplicita conferma, non essendovi, d’altra parte, ragione alcuna, una volta ritenuta la responsabilità dell’amministratore di fatto, in base al citato art. 2639, per i reati societari, di escluderla per quelli fallimentari[5].

Ciò posto, occorre, però, interrogarsi se la materia fallimentare resti assoggettata alle “regole interpretative” elaborate dall’esperienza delle Corti oppure se i presupposti di estensione della responsabilità penale, sanciti dal rinnovato art. 2639 c.c., trovino applicazione anche in questo settore.

In proposito, secondo un primo orientamento – assecondato dalla giurisprudenza della Suprema Corte [6]– la norma sarebbe investita di una funzione “di sistema”, dotando l’interprete di strumenti ermeneutici universali per stabilire se l’agente (di fatto) possa o meno essere chiamato a rispondere del reato proprio [7].

Occorre registrare anche la contrapposta opinione di autorevole Dottrina [8] che, valorizzando il dato letterale, è contraria ad una siffatta estensione sul presupposto che essa non sarebbe il frutto di una mera interpretazione estensiva, ma di una vera e propria analogia in malam partem.

  • Le categorie di soggetti penalmente responsabili.

L’art. 2639 c.c. disciplina il meccanismo di estensione delle qualifiche soggettive attraverso l’equiparazione di tre categorie di soggetti attivi.

Il comma I parifica al soggetto formalmente investito della funzione civilistica, sia “chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata” sia “chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Il comma II, invece, estende la punibilità anche “a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi”, ferma restando la più grave disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali e del conseguente “statuto penale della Pubblica Amministrazione”.

In ordine alla categoria dei soggetti incaricati di svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, essa è espressione del principio di irrilevanza della denominazione formale rispetto al contenuto della funzione effettivamente svolta ed ha come finalità quella di scongiurare vuoti di incriminazione in casi di variazione meramente nominalistica della qualifica ricoperta [9].

L’art. 2639, comma II c.c., invece, nel prevedere che le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applichino anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare società o beni, deve necessariamente essere letto nel suo stretto rapporto con la contestuale abrogazione, da parte del citato D. Lgs. 61/2002, delle norme in tema di delitti commessi dagli amministratori giudiziali e dai commissari governativi.

Ritenuta decisamente la più rilevante tra le categorie sopra menzionate, quella dei soggetti di fatto (art. 2639, comma I c.c. seconda parte) è anche l’equiparazione normativa che ha ricevuto, tra quelle di nuova introduzione, la più vasta applicazione.

  • In particolare: i soggetti di fatto.

La disposizione prende in considerazione i soggetti che, pur privi di una formale investitura, esercitano in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti ad una determinata qualifica.

La suddetta equiparazione ha, quindi, ad oggetto, oltre alla figura più nota dell’amministratore di fatto, anche altre qualifiche soggettive suscettibili di analoghi fenomeni, quali l’imprenditore, il datore di lavoro, il liquidatore, il direttore generale, il sindaco e revisore di fatto, la cui individuazione nella prassi applicativa risulta, però, meno agevole [10].

Prima dell’attuale formulazione dell’art. 2639 c.c., la giurisprudenza non offriva interpretazioni univoche sul criterio da utilizzare ai fini della suddetta equiparazione.

Da un lato, infatti, un indirizzo evidenziava come il “soggetto di fatto”, per poter essere correttamente definito tale, dovesse risultare organicamente inserito nella compagine societaria, con funzioni gerarchiche e direttive. Al riguardo, si affermava che “la posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto – quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive – in qualsiasi momento dell'”iter” di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi – rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – e in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare[11].

In altre occasioni, la Suprema Corte si accontentava del criterio della mera “effettività delle funzioni”, rilevando che l’agente potesse essere ritenuto penalmente responsabile per violazione dei doveri connessi all’attività gestoria soltanto allorché fosse stata provata l’estraneità alla gestione del rappresentante legale. In altri termini, se il rappresentante legale esplica funzioni gestionali non è configurabile l’amministratore di fatto, pur potendosi avere gestione di fatto in relazione a singole attività [12].

Sotto questo punto di vista, il novellato art. 2639 c.c. ha recepito l’indirizzo che ancora l’equiparazione giuridica tra “soggetto di fatto” e “di diritto” tanto a precisi requisiti positivi – esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici rispetto ai poteri tipici della funzione – quanto all’implicito requisito negativo del difetto di formale investitura.

Trattasi di criteri che, oltre a “conciliare legalità ed effettività delle fattispecie sotto il profilo del soggetto attivo[13], ben riflettono l’esigenza di istituire un indice di incriminazione adeguato alle moderne organizzazioni aziendali complesse, consentendo di individuare e punire il reale autore dell’azione illecita.

  • L’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici.

Come già anticipato, affinché l’estensione soggettiva prevista dall’art. 2639 c.c. trovi applicazione, è necessario accertare che l’attività posta in essere dal soggetto privo delle qualifiche formali sia posta in essere in modo continuativo nel tempo e si traduca nell’esercizio dei poteri tipici di quella specifica funzione sociale.

Con riferimento al requisito della continuità, esso ha carattere quantitativo e temporale [14] ed ha la funzione di escludere dal penalmente rilevante “interventi operativi che si esauriscono in singoli atti di natura eterogenea e ad intromissioni sporadiche nell’esecuzione di singole operazioni[15], nonché di evitare “che atti isolati possano essere forieri di conseguenze[16] per chi li pone in essere.

Il requisito della tipicità dei poteri inerenti alla qualifica o alla funzione richiama necessariamente le disposizioni civilistiche, alle quali occorre riferirsi per stabilire se l’attività posta in essere dal soggetto sia o meno riportabile a quella tipica prevista dalla legge.

Da ultimo, occorre accertare l’esistenza dell’ulteriore criterio della significatività dei poteri, in relazione al quale, dottrina e giurisprudenza (in mancanza di ulteriori specificazioni fornite dal Legislatore), concordano nel ritenere che si debba guardare al fatto che il potere attenga “al core business della società, ossia all’ambito qualificante del suo oggetto statutario o della effettiva attività qualificante[17] e che rifletta l’esercizio di funzioni tipicamente decisionali/deliberative o di rappresentanza verso l’esterno [18].

La ratio è quella di scongiurare incriminazioni per il compimento di attività meramente marginali o secondarie.

  • La figura dell’amministratore di fatto.

Numericamente più frequente nella prassi giudiziaria, la figura dell’amministratore di fatto è anche, tra tutte quelle sopra enucleate, l’estensione soggettiva maggiormente discussa.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, la prova di siffatta posizione all’interno di una realtà d’impresa si traduce necessariamente “nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare[19].

Allineata sugli stessi binari interpretativi è anche l’autorevole Dottrina che ritiene doveroso scandagliare “i comportamenti gestori in effetti realizzati, la qualità degli stessi, il quantum dei fatti di gestione tecnico-economica e gli orientamenti di indirizzo volti alla realizzazione ed all’attuazione dell’oggetto sociale in concreto realizzati, unitamente alla correlativa ed essenziale presenza di un quid non certo esiguo di autonomia decisionale[20].

Particolarmente ampia è la casistica che si è sviluppata partendo da tali assunti.

Così, ad esempio, in una circostanza, la Suprema Corte ha avallato la Pronuncia di merito nella quale la qualità di amministratore di fatto era stata desunta dalla prestazione di determinate garanzie personali fornite dall’imputato alle banche e da un’accertata attività manipolatoria di bilanci e contabilità, a dimostrazione del suo diretto interesse nella conduzione della società e del concreto esercizio di un ruolo gestorio, confermato, peraltro, da testimonianze di dipendenti e fornitori [21].

In un’altra situazione, l’estensione soggettiva è stata tratta dal ritrovamento di lettere sottoscritte in qualità di amministratore delegato, dall’avvenuto incasso di assegni intestati alla società, dalla spendita della qualifica di dirigente, dall’imposizione di direttive in ordine ai pagamenti e dalle garanzie personali fornite alle banche [22].

Degno di menzione risulta anche un altro arresto della Corte di legittimità, con cui, a contrario, è stata negata la qualifica di amministratore di fatto in capo a colui che, non ricoprendo la qualifica di amministratore legale, si è trovato ad esplicare funzioni gestorie “sia pure con stabilità, solamente in un determinato ambito dell’attività sociale e con riferimento ad uno specifico e circoscritto compito”, rappresentato dalle attività di risanamento delle posizioni debitorie con gli istituti di credito [23].

Ciò posto, occorre ora domandarsi se e quando l’amministratore di diritto, a fronte di una diretta ingerenza nella gestione sociale di un soggetto terzo, possa rispondere anch’egli di eventuali comportamenti illeciti da questi realizzati.

Sul punto, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che l’accertamento della responsabilità penale dell’amministratore di fatto non escluda, per ciò solo, la punibilità anche di quello di diritto, sussistendo, in queste situazioni, una forma di responsabilità per concorso mediante omissione in capo al c.d. “prestanome” o “testa di legno”.

In tali situazioni, “l’amministratore di diritto, da autore indefettibile del reato societario, diventa concorrente nel reato del gestore effettivo[24], del quale risponde ex art. 40 cpv. c.p., per non aver adeguatamente adempiuto ai propri obblighi di vigilanza e, soprattutto, di controllo, sanciti dall’art. 2392 c.c. [25]

Dal punto di vista dell’elemento psicologico del reato, invece, il prevalente indirizzo ermeneutico fa ricorso alla discussa figura del dolo eventuale, affermando che “la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico), o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale), possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale[26], non potendo, comunque, detta consapevolezza in alcun modo desumersi dal solo fatto dell’accettazione della carica. In tale ipotesi, infatti, si assisterebbe alla creazione di una indebita responsabilità oggettiva o per posizione [27].

  1. La decisione della Suprema Corte n. 33599, 14 giugno 2022 (dep. 13 settembre 2022).

Così richiamati, seppure brevemente, i presupposti ed i limiti di operatività dell’art. 2639 c.c., è possibile ora entrare nel merito della Pronuncia in intestazione ed analizzarne le peculiarità.

Nel caso di specie, l’imputata era stata condannata per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui agli artt. 223, comma I – 216, comma I, n. 1 – 219, commi I-II Legge fall. per aver dissipato beni mobili di ingente valore (capo A) e di bancarotta fraudolenta semplice di cui agli artt. 224 – 217, comma I, nn. 2-3-4 – 219, comma II, n. 1 Legge fall., per aver consumato parte del patrimonio sociale in operazioni manifestamente imprudenti, aggravando il dissesto sociale e astenendosi dal chiedere la dichiarazione di fallimento (capo B).

Mediante l’interposto ricorso, la Difesa dell’imputata ha censurato, in particolare, la circostanza che difettassero gli indici rivelatori di un esercizio fattivo, continuativo e significativo dei poteri di amministratrice.

Tale critica è stata ritenuta priva di pregio dalla Suprema Corte, la quale ha avallato le argomentazioni offerte dai Giudici di merito, evidenziando come l’imputata:

  • attraverso una pluralità di altre società collegate, da lei formalmente o di fatto gestite del cd. Gruppo Alfa, controllava la fallenda società Beta”;
  • aveva compartecipato della decisione di modificare la destinazione d’uso dell’immobile della Beta da residenza alberghiera a civile abitazione”;
  • aveva affidato alla società Fratelli Gamma…l’appalto per la ristrutturazione dello stabile e ne aveva seguito l’esecuzione, stabilendo tempistica e scadenze, provvedendo ai pagamenti con assegni sottoscritti dall’amministratore di diritto e ciò fino al 2014”;
  • si era trasferita, in assenza di delibera assembleare o contratto in uno degli appartamenti, imputando i costi del trasloco alla Beta;
  • si relazionava con il commercialista per predisporre i bilanci e curare i profili fiscali della società Beta”;
  • aveva incaricato un agente immobiliare di occuparsi della vendita degli appartamenti”;
  • aveva consentito a una sua amica di fare uso gratuito di taluni degli appartamenti”;
  • era colei che teneva i contatti con tutti i soggetti esterni che entravano in contatto con la Beta”;
  • aveva condotto con un’altra società “la trattativa per il riscatto di parte dell’immobile per conto della Beta”.

A fronte di tali risultanze, secondo i Giudici di legittimità, la Corte d’Appello avrebbe correttamente affermato che “la gestione da parte dell’amministratore di fatto ha rilevanza penale anche se concorre con altri soggetti, cioè anche se non si sostanzia in una gestione in riferimento a tutti i poteri e in via esclusiva[28].

In tal senso, i Giudici rilevano che la previsione di cui all’art 2639 c.c. non esclude che l’esercizio dei poteri dell’amministratore di fatto possa verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali – in tempi successivi o anche contemporaneamente – esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione (cfr. in tal senso Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 12912, 6 febbraio 2020).

Parimenti ritenuta non decisiva la doglianza avente ad oggetto “la circostanza che A., imprenditore edile al quale era stato affidato l’incarico di ristrutturazione dell’immobile…sapesse che l’imputata non era l’amministratrice di diritto”. Sul punto, i Giudici rilevano che non è la consapevolezza da parte dei terzi di chi svolga formalmente o sostanzialmente le funzioni di amministrazione, a essere rilevante, non essendo in gioco il “bene della fiducia o dell’inganno del terzo”; individuare chi svolga effettivamente le funzioni di amministrazione, rileva ai fini della responsabilità per le funzioni svolte, a tutela o a detrimento delle ragioni della società e del ceto creditorio.

Ancora, secondo la Cassazione, non convince il motivo di doglianza avente ad oggetto il denunciato travisamento delle dichiarazioni del Curatore fallimentare, al quale l’amministratore di diritto riferì quale fosse l’ubicazione di parte dei mobili: dalla dichiarazione de relato dell’Organo fallimentare, secondo la prospettata tesi difensiva, emergerebbe che fu l’amministratore di diritto a dissipare i mobili e a non recuperarli, non la ricorrente.

Si tratta di una interpretazione che non è stata ritenuta meritevole di approvazione, dal momento che “chi ricopre le funzioni di amministrazione, di fatto e anche in via non esclusiva, ha comunque il dovere di adempiere agli obblighi nell’interesse della società: in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 c.c., la qualifica di amministratore “di fatto” di una società è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest’ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40 c.p., comma 2”.

Per tutte le sopra esposte argomentazioni, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto di non accogliere i motivi di censura sviluppati dalla Difesa, dichiarando complessivamente inammissibile il ricorso proposto.

  1. Conclusioni.

La Sentenza in commento dimostra di aver fatto corretto governo dei principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di estensione delle qualifiche soggettive, laddove ribadisce la necessità di trarre, dalle emergenze processuali, seri e concreti indici sintomatici dell’inserimento, non episodico e non occasionale, del “soggetto di fatto” nelle sequenze organizzative, produttive o commerciali dell’attività d’impresa.

Peraltro, il riscontro di un siffatta immedesimazione organica nelle funzioni tipicamente svolte dai soggetti di diritto, rappresenta solo il primo (ma pur sempre imprescindibile) accertamento che l’interprete è chiamato a compiere per fondare il rimprovero di responsabilità del soggetto non qualificato, al quale dovrà poi seguire la rigorosa dimostrazione dei presupposti di ricorrenza della fattispecie di reato concretamente addebitata; solo in questi termini, infatti, potranno ritenersi realmente rispettati i postulati della responsabilità “per fatto proprio e colpevole” sanciti dall’art. 27 Cost.

 

[1] In questa sede ci si limita ad approfondire i profili di fatto e di diritto aventi ad oggetto l’ambito di applicazione dell’art. 2639 c.c., tralasciando gli ulteriori aspetti oggetto di doglianza.

[2] RICCI, I criteri per l’individuazione del soggetto responsabile in ambito societario: l’estensione delle qualifiche soggettive, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, a cura di CANZIO, CERQUA, LUPARÌA, Milano, 2016, 201.

[3] LA SPINA, Art. 2639 c.c. Estensione delle qualifiche soggettive, in Diritto penale dell’economia, a cura di CADOPPI, CANESTRARI, MANNA, PAPA, Milano, 2019, 343.

Conformemente a tali principi, la Giurisprudenza più risalente evidenziava come anche l’amministratore di fatto dovesse rispondere di bancarotta, “dovendosi in questa materia aver riguardo alla concreta sussistenza dell’effettivo potere di gestione, più che alla carica ufficiale (Cass. pen., sez. V, n. 1072/1970).

[4] Sul punto si rimanda a CAPIROSSI, Legem non curat praetor. Responsabilità civili e penali dell’amministratore di fatto, in Riv. trim. dir. pen. econ. 2005, 776.

[5] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 36630, 5 giugno 2003.

[6] Si segnala, tra le tante, Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 1137, 13 gennaio 2009 secondo cui “le norme penali di cui sono destinatari gli amministratori sono applicabili anche a chi, secondo la sopravvenuta disposizione dell’art. 2639 c.c., svolga in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, benché in concomitanza con l’amministratore di diritto, perché “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale”.

[7] Tale interpretazione consentirebbe, altresì, di scongiurare indebite disparità di trattamento tra i settori societario e fallimentare.

[8] Per tutti si segnala MANNA, I soggetti attivi, in MANNA (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 24 ss.

[9] Come chiarito efficacemente da RICCI, I criteri per l’individuazione del soggetto responsabile in ambito societario: l’estensione delle qualifiche soggettive, cit., 205 tale scelta ha come scopo primario quello di garantire “l’equiparazione tra i destinatari del precetto penal-societario preindividuati dal legislatore e soggetti che non lo sono formalmente, ma funzionalmente, in base a quel complesso di poteri e doveri attribuiti ad un determinato soggetto per il compimento degli atti tipici della gestione sociale”.

[10] Per vero, una tale equiparazione non è del tutto nuova al nostro ordinamento, essendo, ad esempio, già stata introdotta qualche tempo prima in materia di responsabilità amministrativa dell’ente; l’art. 5, D. Lgs. 231/2001, infatti, prevede che: “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso…”.

[11] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 9222, 22 aprile 1998.

[12] Sul punto, cfr. Cass. pen., sez. III, n. 12965/1994.

[13] LA SPINA, Art. 2639 c.c. Estensione delle qualifiche soggettive, cit., 349

[14] Trattasi di qualificazioni che sintetizzano efficacemente la natura delle funzioni di cui si discute; qualificazioni attribuite da LA SPINA, Art. 2639 c.c. Estensione delle qualifiche soggettive, cit., 351.

[15] CASTELLANA, L’equiparazione normativa degli autori di fatto agli autori di diritto per i reati del riscritto titolo XI, libro V cod. civ., in Indice pen., 2005, 1073.

[16] ROSSI, I soggetti nella sistematica del diritto punitivo societario, in Giur. it., 2010, 973 ss.

[17] LA SPINA, Art. 2639 c.c. Estensione delle qualifiche soggettive, cit., 352.

[18] Conformemente a tali principi Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 22413, 21 maggio 2003 ha stabilito che “la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 c.c. postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione. Nondimeno, “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale”.

[19] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 35346, 22 agosto 2013.

[20] ROSSI, I soggetti nella sistematica del diritto punitivo societario, cit., 973 ss.

[21] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 22413, 21 maggio 2003.

[22] Cass. pen. sez. V, Sentenza n. 43388, 30 novembre 2005.

[23] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 5893, 15 febbraio 2006.

[24] CONSULICH, Poteri di fatto ed obblighi di diritto nella distribuzione delle responsabilità penali societarie, in Soc., 553 ss.

[25] In proposito, Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 44826, 27 ottobre 2014 ha affermato che “sussiste la responsabilità dell’amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, con l’amministratore di fatto non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all’interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma 2, c.p., l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita”.

[26] Cass. pen., sez. V, Sentenza n. 11938, 26 marzo 2010.

[27] In questa direzione anche BENDONI, Osservazioni a Cass. Pen., sez. V, 9 febbraio 2010, n. 11938, in Cass. pen., 2011, 693 ss., secondo cui “occorre scongiurare un’impropria flessibilizzazione del diritto penale in funzione di pur commendevoli obiettivi di politica criminale. A tal fine, è auspicabile, de jure condito, confinare l’applicazione della disciplina del concorso omissivo alle sole ipotesi fondate su autentici obblighi di garanzia (e non su meri obblighi di sorveglianza) e connotate da un effettivo coefficiente psicologico doloso; de jure condendo, arricchire l’armamentario punitivo a disposizione del giudice attraverso l’introduzione di autonome fattispecie incriminatrici della violazione dei doveri di controllo gravanti sugli amministratori, dotate di una più mite cornice edittale di pena”.

[28] Aggiungono i Giudici che “secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive…il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione”.

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