martedì, Aprile 16, 2024
Criminal & Compliance

Estorsione aggravata dall’ “ambientalità” del contesto mafioso

A cura di: Zaccaria Sica

È sempre più manifesto l’effetto distorsivo sul tessuto economico della criminalità organizzata, che tra i suoi strumenti più pervasivi di controllo e sfruttamento del proprio bacino economico, possiede il delitto di estorsione, che altera il mercato, falsandone il meccanismo della concorrenza ed inficiandone gravemente la produttività e che mette le briglie allo sviluppo sociale ed alla libertà individuale. In questo lavoro ci si vuole concentrare sui profili di rilevanza penale delle condotte estorsive che fanno leva essenzialmente sulle condizioni c.d. “ambientali”, di natura mafiosa, ossia sugli spunti che offre il contesto di riferimento nel porre in essere un comportamento minaccioso caratterizzato da “mimetismo”, che cerchi di occultare il più possibile del proprio messaggio intimidatorio tra le ambiguità delle condizioni di fatto, di tempo e di luogo della quotidianità.

Il costringimento, che scaturisce dalla violenza o dalla prospettazione di un male ingiusto, del reato di cui all’art. 629 c.p. può manifestarsi in molteplici forme. La valenza coercitiva, che è l’aspetto che verrà di seguito approfondito, della condotta estorsiva può estrinsecarsi anche in un’azione implicitamente minacciosa che ponga il soggetto passivo in un tale stato di soggezione da non permettergli di autodeterminarsi liberamente. Una situazione soggettiva, però, che non debba derivare dal mero timore reverenziale, ma che debba risultare dal comportamento dell’agente, il quale, in qualsiasi modo o forma, abbia effettivamente veicolato un chiaro messaggio di sopraffazione verso la vittima allo scopo di creare uno stato di coazione pressante per costringere la stessa vittima ad adeguarsi alle proprie richieste[1]. Nell’alveo di tale orientamento rientra lo sfruttamento di modelli comunicativi caratterizzati generalmente da un’accezione vaga, ma suscettibili di assumere una forte e precisa pregnanza comunicativa in un particolare contesto di riferimento. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso limite di un soggetto, incensurato, imparentato o comunque in stretti rapporti con una nota cosca che abbia espresso molteplici esponenti di rilievo all’interno della locale associazione per delinquere di tipo mafioso, titolare di un’azienda di commercio di forniture all’ingrosso, il quale si presenti ad un dettagliante per proporgli un contratto di fornitura, consapevole di esser facilmente riconosciuto per il legame con la suddetta cosca che lo contraddistingue. Sarebbe configurabile, ed eventualmente in quale misura, la consumazione del reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso, qualora il dettagliante accettasse il contratto di fornitura, esclusivamente per timore di una futura violenza, consapevole che potrebbe essersi trovato di fronte ad una “moderna”, dissimulata, richiesta di pizzo?

Preliminarmente vanno definiti i confini entro i quali possono manifestarsi le variabili comportamentali, precisando, seppur senza pretesa di esaustività, gli elementi costitutivi della fattispecie astratta. Si tratta di un reato comune a dolo generico, il cui precetto si basa su di una condotta di costrizione relativa, ossia una contrazione determinante del processo volitivo del soggetto passivo, che non ne annulli completamente la libertà di autodeterminarsi, come effetto di una minaccia o di una violenza, intesi quali mezzi per indurlo a porre in essere un comportamento commissivo od omissivo, che, in assenza della costrizione, non avrebbe realizzato. Il delitto non è consumato fino a quando l’agente o un terzo non ne ricavino un profitto contra ius che costituisca una deminutio del patrimonio della persona offesa.

Proseguendo nell’esame dell’elemento costrittivo è necessario sottolineare che, ribadita l’irrilevanza penale del mero timore reverenziale indotto, lo scrutinio del diritto penale è ammissibile esclusivamente quale metro di giudizio di manifestazioni esteriori, senza potersi spingere fino alle intime motivazioni che hanno indotto un soggetto ad agire, sulla base dell’espressione comunemente utilizzata in dottrina che qualifica l’ordinamento penalistico italiano come un diritto penale del fatto. Si tratta di una precisazione che muove dal bisogno di escludere dall’indagine sulla configurabilità della condotta estorsiva l’ipotesi in cui il soggetto agente sia consapevole di possedere una propria forza intimidatrice, derivante ipso facto dai suoi legami con soggetti le cui inclinazioni criminali siano oggetto di pubblica convinzione, a prescindere da una verifica giudiziaria in merito, il quale però non mostra esteriormente di volerne fare uso con alcun comportamento. Infatti le posizioni della giurisprudenza sono solide nel richiedere che affinché una minaccia possa avere rilevanza penale nella sua forma implicita, la condotta materiale dell’agente debba essere inequivoca[2]. Pertanto non vi può esser rilevanza penale senza che sia raggiunto, da parte dell’agente, un coefficiente minimo di flusso di informazioni, veicolate verso la vittima, che concretizzino un’intimidazione percepibile da una persona mediamente diligente, dal messaggio non ambiguo, avente il fine immediato di ottenere un consenso estorto. La Sez. Pen. II della Suprema Corte, in tempi recenti, in più di un’occasione, nell’interpretare la circostanza aggravante del c.d. “metodo mafioso”, si è fatta portatrice di una posizione che tende a valorizzare fortemente il contesto sociale di riferimento, giungendo ad affermare, che è superata la soglia di rilevanza penale quando “in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica…il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività”…argomentando che “nei luoghi di radicata infiltrazione delle mafie storiche i codici di comunicazione degli affiliati sono noti ed è sufficiente un richiamo anche implicito per suscitare il timore dell’esercizio di note forme di violenza, la cui diffusa conoscenza fonda il potere di intimidazione e di controllo delle organizzazioni criminali riconducibili alle mafie storiche[3]. Lungi dal voler configurare una “pena del sospetto[4], non si può non sottolineare, seppur la su esposta considerazione non possa considerarsi consolidata in giurisprudenza, contrapponendosi ad essa impostazioni maggiormente garantiste[5], il tentativo di soddisfare la ratio di completezza sottesa alla aggravante di cui trattasi, in un’ottica politico-criminale, che non voglia concedere ambiti di non punibilità e di ingiustificato differenziato trattamento, a condotte connotate da analogo disvalore; vuoti sanzionatori che condurrebbero ad approdi viziati da un’incoerenza sistematica di fondo, ove la persona offesa possa esser sottoposta, senza possibilità di difesa, all’assoggettamento di una superiore forza prevaricatrice, non residuando altro che piena soccombenza all’agire criminale.

Proseguendo nel solco ermeneutico tracciato in tema di “metodo mafioso”, un’ulteriore pronuncia della Corte di Cassazione si presenta di dirimente importanza, statuendo che “…nel reato di estorsione, integra la circostanza aggravante del metodo mafioso l’utilizzo di un messaggio intimidatorio anche “silente”, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito”[6], proseguendo nel puntualizzare che per applicarsi tale aggravante, non è necessaria la specifica dimostrazione dell’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o l’intimidazione assumano i tratti tipici dell’azione mafiosa.

È necessario un accertamento che si serva di una pluralità di figure sintomatiche, circostanziate con precisione, le quali, correlate tra loro, rendano il messaggio implicitamente inviato alla persona offesa, non equivoco e di una intensità di contenuto tale da apparire idonea al fine che si era proposto l’agente, affinché il soggetto passivo sia costretto ad escludere un comportamento alternativo, per il timore di un futuro male ingiusto. Pertanto, escludendo dal novero delle condotte penali la spontaneità di un comportamento meramente accondiscendente, indotto da un timore scaturito dalla sola presenza di un personaggio notoriamente contiguo alle consorterie criminali, vanno enucleate delle categorie ricorrenti che rappresentino un “indice di mafiosità”, le quali, contestualizzate nella fattispecie concreta, possano manifestarsi quali messaggi intimidatori, sfruttando le consolidate massime di esperienza in tema di conoscenza della funzionalità e della struttura delle associazioni di tipo mafioso storicamente affermatesi su di un territorio, sia nelle caratteristiche costanti che soddisfino le esigenze di stabilità dell’organizzazione che negli aspetti dinamico-evolutivi; un bagaglio conoscitivo in parte consolidato in giurisprudenza, consci del fatto che la stessa Legge n. 646 del 1982, la quale ha introdotto l’art. 416bis nel codice penale, ha inserito nel precetto le risultanze storicamente accertate della realtà fenomenica mafiosa emerse a seguito di molteplici procedimenti giudiziari. Due macro-aree di rilevanza penale discendono dalla conoscenza del fenomeno, quella dei comportamenti che con qualsiasi mezzo, evochino, anche per mezzo di un terzo, la contiguità con l’organizzazione malavitosa, silentemente prospettando alla persona offesa che l’agente abbia il consenso della cosca; la seconda è quella che utilizza un codice di comunicazione tipico di un determinato contesto sociale, di scarso ed ambiguo significato al di fuori di esso, ma che assume esponenzialmente pregnanza di significato, in base al luogo ed alle persone che lo utilizzino, dalla natura verbale o non verbale, dal tono, dalla postura, dalle movenze del corpo che nella fenomenologia mafiosa rappresentino le sillabe di un linguaggio criminale dalla rigide regole grammaticali, che ne delineano un significato ben preciso.

[1] Cass. Pen. SS.UU., sentenza n. 12228, 24 ottobre 2013, pronunciata in materia di concussione “ambientale” le cui conclusioni si presentano utili anche nella seguente trattazione.

[2] Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 32, 2 gennaio 2017

[3] Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 10976, 12 marzo 2018, la quale richiama: Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 19245, 21 aprile 2017 e Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 32, 2 gennaio 2017

[4] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, edizione 2001

[5] Tra le altre, Cass. Pen. Sez. VI, sentenza n. 14249, 23 marzo 2017

[6] Cass. Pen. Sez. II, sentenza n. 46765, 15 ottobre 2018

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