giovedì, Aprile 18, 2024
Criminal & Compliance

Evoluzione storica della responsabilità penale degli enti

 

La responsabilità degli enti, ha rappresentato quasi sempre un tema “alieno”  ed incompatibile rispetto al sistema penale.  Questa incongruenza si rileva anche in relazione alla struttura del “reato”, che è orientato in senso antropomorfico , individuano l’uomo come unico artefice dell’azione illecita. Detta impostazione è tra l’altro corroborata dall’art. 85 c.p.[1] secondo cui ai fini dell’imputabilità è richiesta la capacità di intendere e di volere, inteso quale presupposto minimo e necessario affinché al soggetto possa essere rimproverato la commissione di un reato.

Con un excursus storico si rileva che anche il codice penale del 1930 era organizzato secondo una struttura antropocentrica, non lasciando trasparire alcun interesse verso la responsabilità delle persone giuridiche e dando vigore al brocardo latino “Societas delinquere non potest”.

L’impianto penalistico conserva questa organizzazione sino agli anni ’60, ove si tende a collocare un prima forma, seppur embrionale, di responsabilità degli enti.

Invero, alcuni studiosi preferiscono  individuare la genesi della responsabilità penale degli enti all’inizio del Novecento e precisamente negli Stati Uniti, dove la sentenza della Corte Suprema nel  noto caso  New York Central & Hudson River R.R. v United States[2], riconosce per la prima volta la responsabilità penale delle persone giuridiche.

Questa nuova forma di responsabilità  fatica ad arrivare in Italia, difatti la dottrina evidenziava come una simile soluzione era palesemente incompatibile con i principi fondamentali della Costituzione italiana.

Un ostacolo apparentemente insormontabile era rappresentato dall’art. 27[3] della Costituzione che richiama(va) il principio antropomorfico, in particolare il 1° comma prevede che la responsabilità penale è personale, di guisa si richiede che tra l’agente e il fatto (illecito) deve esserci un legame oggettivo, nel senso che il soggetto deve aver compiuto materialmente il fatto, ed un legame soggettivo, in relazione agli elementi del dolo o della colpa.

Inoltre, il 3° comma disciplina lo scopo della pena ovvero quella della rieducazione, e quindi affinché al soggetto possa essere mosso un rimprovero è necessario che abbia compiuto l’azione intenzionalmente o comunque che si possano rilevare gli estremi di una colpa.

Alla stregua di quanto detto, l’Italia sembrava aver “chiuso le porte” ad una possibile responsabilità degli enti, tuttavia grazia alla spinta delle diverse Convenzioni sovranazionali, si obbligano gli Stati membri nella previsione di una responsabilità per le persone giuridiche, ai fini di salvaguardare la leale concorrenza nei mercati economici e per temperare il fenomeno del c.d. forum shopping.

La risposta del legislatore italiano arriva con il d.lgs n. 231/2001 (conosciuto anche come modello organizzativo 231), che introduce una nuova forma di responsabilità, qualificata però come “amministrativa”, ciò al fine di eludere le limitazioni imposte dall’articolo 27 Cost.

I presupposti richiesti ai fini della configurazione della responsabilità amministrativa degli enti sono essenzialmente tre:

  1. Il soggetto che compie il fatto deve essere collocato, nella struttura organizzativa dell’ente, in  una posizione apicale, ovvero deve svolgere mansioni di amministrazione, di direzione e/o di gestione dell’ente.
  2. I’agente non deve però svolgere necessariamente cariche dirigenziale, potendo rivestire la qualifica di socio e quindi trovarsi in una posizione subordinata.
  3. L’azione deve essere posta  nell’interesse o comunque a vantaggio dell’ente.

Il dato che più ha generato discussioni e dubbi riguardo al modello 231, è che il tipo di sanzioni seppur qualificate come amministrative, in realtà presentavo tutte le caratteristiche della sanzione penale.

Dottrina più sensibile, parla a tal proposito di Frode dell’etichetta,   secondo cui il nomen iuris attribuito alla sanzione non può spingersi sino a travolgere completamente l’anima della sanzione.

E’ interessante ricordare la teoria di un noto penalista Nuvolone, che osserva come  la sanzione penale si presenti con un carattere afflittivo, punitivo e repressivo,  ed è posta come conseguenza coattiva ad un comportamento di ribellione al comando.

Queste caratteristiche insite nella sanzione penale prescindono dall’etichetta, per cui ogni qual volta che la sanzione presenti questi tratti, indipendentemente dal nomen iuris, devono operare le garanzie Costituzionali e penali.

Per completezza è utile evidenziare come ai fini della configurazione della sanzione è possibile richiamare gli Engel Criteria, elaborati dalla Corte di Strasuburgo, a seguito della nota sentenza Engel ed altri Vs Paesi bassi[4], secondo cui  la sanzione è da ritenersi “convenzionalmente penale”  qualora sia presente anche solo uno dei tre criteri:

  1. La qualificazione del diritto interno
  2. La natura dell’infrazione
  3. La severità della pena.

In detto “quadro” giova infine  ricordare anche la sentenza Grande Stevens e altri Vs Italia[5], dove la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha asserito che la natura sostanzialmente penale della sanzione soggiace al principio del ne bis in idem, avvalorando la tesi dell’anima penale delle sanzioni amministrative.

In conclusione,  anche se la sanzione si presenti formalmente come amministrativa ma abbia carattere punitivo o repressivo, si dovrà intendere come sostanzialmente penale, sottostando alle garanzie fondamentali insite nella Costituzione.

 

 

 

 

[1] Articolo 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile

È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere.

[2] Per un maggior approfondimento si veda: www.rivista231.it

[3] Articolo 27 Cost. La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato

Non è ammessa la pena di morte.

[4] Per un approfondimento della sentenza si veda qui: file:///C:/Users/Amministratore/Downloads/ENGEL%20AND%20OTHERS%20v.%20THE%20NETHERLANDS-1976.

[5] Per una lettura della sentenza Grande Stevens e altri Vs. Italia si veda qui: file:///C:/Users/Amministratore/Downloads/GRANDE%20STEVENS%20AND%20OTHERS%20v.%20ITALY-2014.pdf

 

FONTE IMMAGINE: http://www.adriamed.it/d-lgs-231/

Tayla Jolanda Mirò D'Aniello

Tayla Jolanda Mirò D'aniello nata ad Aversa il 4/12/1993. Attualmente iscritta al V anno della facoltà di Giurisprudenza, presso la Federico II di Napoli. Durante il suo percorso univeristario ha maturato un forte interesse per le materie penalistiche, motivo per cui ha deciso di concludere la sua carriera con una tesi di procedura penale, seguita dalla prof. Maffeo Vania. Da sempre amante del sistema americano, decide di orientarsi nello studio del diritto processuale comparato, analizzando e confrontando i diversi sistemi in vigore. Nel privato lavora in uno studio legale associato occupandosi di piccole mansioni ed è inoltre socia di ELSA "the european law students association" una nota associazione composta da giovani giuristi. Frequenta un corso di lingua inlgese per perfezionarne la padronanza. Conseguita la laurea, intende effettuare un master sui temi dell'anticorruzione e dell'antimafia.

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