venerdì, Marzo 29, 2024
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Fake news: quale responsabilità civile?

Fake news: quale responsabilità civile?

a cura di Davide Neri Africano

1. Definizione

Si definiscono fake news tutti gli articoli che diffondono notizie non autentiche o non verificate e contribuiscono alla disinformazione di chi li legge. Negli ultimi anni il fenomeno è divenuto dilagante, in particolare a causa dell’enorme sviluppo dei social network. Infatti, la maggior parte delle pubblicazioni avviene online. L’obiettivo di chi divulga le fake news è quello di aumentare la visibilità della propria pagina web e, di conseguenza, le rendite pubblicitarie derivanti dalla stessa. La circolazione delle notizie false non è dovuta alla loro attendibilità, perché trattano di eventi mai avvenuti o distorcono radicalmente la realtà dei fatti. Essa dipende dalla loro portata scandalistica. Il titolo serve a catturare l’interesse dei lettori meno avveduti e la narrazione si fonda su dati inventati e accadimenti non dimostrati. L’utente medio di internet, tuttavia, spesso non si cura di verificare i contenuti in cui si imbatte, ma si limita a leggerne il titolo o qualche riga[1]. Più la notizia è sensazionale, più egli ne agevolerà la circolazione, realizzando l’obiettivo economico di chi l’ha pubblicata. Tutto ciò a prescindere dalla sua veridicità. Vi sono, inoltre, casi in cui la sola intestazione dell’articolo non risponde alla realtà. Si parla, a riguardo, di clickbait, da classificare come fattispecie lieve di fake news. Anch’esso, infatti, ne realizza lo scopo, ma senza necessariamente rappresentare veicolo di disinformazione[2].

Si pone, però, un problema di carattere morale. Gli utenti che si lasciano ingannare dalle notizie false percepiscono una visione distorta della realtà. I siti, quindi, acquistano una sorta di responsabilità etica per le notizie (parzialmente o pienamente) false che divulgano. Da un lato, agli occhi dei lettori più attenti, questi indirizzi web perdono credibilità. Dall’altro, tuttavia, gli utenti meno scrupolosi finiscono per riporre cieca fiducia in queste fonti di disinformazione.

Nel frattempo, il popolo di internet non è rimasto immobile di fronte al proliferare del fenomeno. Sono stati infatti creati numerosi siti web con l’obiettivo di arginare il dilagante fenomeno della disinformazione[3] e rendere noti i nomi dei portali più inclini alla pubblicazione di contenuti ingannevoli. Tra questi spicca Butac[4], che periodicamente aggiorna la sua blacklist del web italiano, nella quale si possono leggere nomi particolarmente noti. Per fare qualche esempio, sono stati segnalati dalle pagine di debunking i siti di La Repubblica, Libero e tanti altri che contano migliaia se non milioni di visite quotidiane[5]. Tuttavia, la gogna pubblica non sembra dissuadere gli pseudogiornalisti e i loro seguaci dal diffondere fake news.

Al giorno d’oggi, invece, non è possibile parlare con certezza di responsabilità giuridica. I siti che pubblicano contenuti inattendibili rimangono sollevati da qualsiasi conseguenza legale. Solo negli ultimi anni la questione è approdata nei tribunali ma non vi sono ad oggi orientamenti consolidati. Si può speculare sull’introduzione di una responsabilità giuridica per chi trae in inganno il proprio pubblico. A livello penale la disciplina di cui agli articoli 640, 656 e 661 c.p., rubricati rispettivamente “Truffa”, “Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico” e “Abuso della credulità popolare” è potenzialmente in grado di coprire la fattispecie[6]. Anzi, è già consolidato l’orientamento che propende per l’applicazione di queste norme nei confronti di chiunque abbia pubblicato fake news[7].

Invece, l’indagine appare più ostica in materia civile, dove sembrerebbe possibile ricorrere agli articoli 2598 e 2043 c.c., ma rispettando alcune condizioni. L’obiettivo della presente analisi è, quindi, quello di dimostrare che la divulgazione di fake news soddisfa tutti i presupposti per l’applicazione dei suddetti articoli, così da poter delineare una responsabilità civile in capo a chi  inganna i propri lettori a fini di arricchimento personale.

2. Le soluzioni offerte dal codice civile

Il punto di partenza per l’individuazione di una responsabilità giuridica in capo a chi divulga fake news è rappresentato dalla sentenza 31 Ottobre 2016, n. 22042 della Sezione I della Cassazione, la quale ha sancito la liceità della diffusione di notizie vere e l’illiceità della diffusione di informazioni false[8]. Secondo l’orientamento della Suprema Corte, la pubblicazione di fake news rappresenta indubbiamente un illecito. A parere di alcuni commentatori, addirittura, sarebbe ragionevole punire anche chiunque ne abbia agevolato la circolazione[9].

Come anticipato, vi sono due norme del codice civile che consentono di coprire la fattispecie. La prima è l’articolo 2598 c.c., il cui numero 3 individua gli atti di concorrenza sleale nella condotta di chi “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai princìpi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare laltrui azienda[10]. Infatti il ricorso a titoli scandalistici e a notizie inventate al solo scopo di aumentare la visibilità della propria pagina è uno strumento idoneo ad attirare l’attenzione degli utenti meno attenti, che di conseguenza inizieranno a informarsi tramite i siti meno affidabili e smetteranno di seguire quelli più “onesti”. Questi ultimi perderanno seguaci, visibilità e, di conseguenza, guadagni[11]. Vi sono moltissime ragioni per considerare il mercato informatico come un settore d’affari a tutti gli effetti ed è già prassi consolidata che le norme di diritto commerciale trovino piena applicazione anche in esso. Basti, ad esempio, volgere l’attenzione all’enorme giro di denaro intorno alla piattaforma Google AdSense, noto servizio di monetizzazione del proprio spazio virtuale. In definitiva, la pubblicazione e diffusione di notizie false incarna tutti gli elementi della fattispecie della concorrenza sleale[12]. Legittimari dell’azione legale contro chi pubblica fake news saranno le testate giornalistiche che hanno costruito il loro progetto professionale sulla pubblicazione di contenuti veri e verificati. Infatti, i mezzi con cui la concorrenza sleale può essere attuata non rappresentano un numerus clausus bensì una categoria aperta[13], nella quale i nuovi mass media devono rientrare per garantire maggiore stabilità alla disciplina concorrenziale.

La seconda soluzione riguarda l’applicazione dell’articolo 2043 c.c., il quale prevede la risarcibilità del danno derivante da fatto illecito. La norma non punisce una condotta specifica ma delinea anch’essa una fattispecie aperta, nella quale può rientrare qualsiasi fatto che contribuisca a causare un danno ingiusto[14]. La questione, quindi, si sposta sull’individuazione degli elementi dell’illecito nella condotta di chi pubblica fake news.

2.1  Il danno da falsa informazione

In verità, gli studi in materia di responsabilità extracontrattuale hanno già delineato svariate volte le caratteristiche del danno da falsa informazione. Nulla quaestio, dunque, sulla sussistenza della fattispecie[15].

Il punto cruciale concerne invece la rilevazione di fatto, danno, nesso causale ed elemento soggettivo[16] nelle false informazioni pubblicate sul web. In primo luogo, non vi sono problemi nell’individuazione del fatto, che coincide con la pubblicazione stessa del contenuto. Infatti, la diffusione di notizie false è stata espressamente condannata dalla sentenza 18 Ottobre 1984, n. 5259 della Sezione I della Cassazione Civile. In questa pronuncia, la Suprema Corte ha fornito le regole del cosiddetto decalogo del giornalista. Si legge nella sentenza che l’informazione deve avere una sua utilità sociale, i fatti devono essere esposti e valutati in forma civile e la notizia deve essere vera. In riferimento al concetto di verità, la Corte ha ricordato che può trattarsi di verità oggettiva o putativa; tuttavia, nel secondo caso, è necessario che sia suffragata da un “serio e diligente lavoro di ricerca[17]. Le fake news non espongono alcuna verità putativa, ma solamente titoli ingannevoli o avvenimenti inventati che stimolano la curiosità degli utenti nei confronti delle ultime tendenze sociali. In esse vi è una chiara violazione del dovere di verità, mentre non assume rilevanza il luogo della pubblicazione, se fisico o virtuale.

In secondo luogo, anche l’elemento soggettivo, da intendersi quale dolo o colpa, è palese. Chiunque decida di pubblicare contenuti che sa essere falsi agisce con dolo evidente. Invece, chiunque decida di pubblicare notizie non verificate che si rivelano essere infondate agisce con colpa cosciente se non addirittura con dolo eventuale.

Più difficoltosa sembrerebbe la definizione del danno, dal momento che il diritto all’informazione non gode di esplicito riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, esso è sancito dagli articoli 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea[18]. È indubbio, quindi, che tale diritto esista, sebbene manchi un riferimento ad esso nella nostra Costituzione. Inoltre, l’articolo 10 di quest’ultima, nella parte in cui afferma la supremazia delle norme internazionali, sembra legittimare l’ingresso nel nostro panorama giuridico dei diritti da queste protetti. Da ultimo, come già ricordato, l’articolo 2043 c.c. prevede la risarcibilità di qualsiasi danno che presenti i caratteri dell’ingiustizia, anche quando il diritto violato non sia espressamente codificato.

L’ultimo punto dell’analisi concerne l’individuazione del nesso causale. Nel caso in cui il singolo lamenti una lesione del proprio diritto allinformazione ad opera dalle sedicenti testate giornalistiche, il nesso eziologico tra fatto e danno sarebbe rinvenibile nel legittimo affidamento che costui ha riposto nella corrispondenza tra quanto riportato nell’articolo e quanto realmente accaduto. Non si tratta di una soluzione innovativa. Già nella sentenza 4 Maggio 1982, n. 2765 la Sezione III della Cassazione Civile aveva fatto riferimento alla sussistenza di un legittimo affidamento che la parte compie nei confronti delle informazioni ricevute dall’altra, presumendo l’affidabilità di queste. Anche nel panorama internazionale la fattispecie è nota. Si parla nei paesi di common law di deceit tort, o crimine di inganno, che si realizza quando un soggetto ingenera nel prossimo una falsa rappresentazione di un dato accadimento, fornendo consapevolmente e fraudolentemente informazioni errate[19]. Bastino questi brevi richiami per dimostrare che il danno da falsa informazione è ampiamente conosciuto nelle aule di tribunale di tutto in mondo.

Nel caso della pubblicazione di fake news, il nesso eziologico è evidente, perché il lettore ha già eletto un determinato sito a fonte di informazione privilegiata. Nel momento in cui questo pubblica notizie false o inesatte, la catena causale che collega la diffusione dolosa di fake news, la disinformazione del cittadino e la lesione del suo diritto allinformazione risulta completa.

Nel caso di articoli clickbait, invece, il sito incriminato potrebbe opporre che sul lettore incombesse un onere di verificare che il testo dell’articolo corrispondesse a quanto inserito nel titolo. Il mancato impiego della diligenza dell’uomo medio per la verifica del contenuto potrebbe spezzare la catena causale e sollevare il sito di pseudo-informazione da qualsiasi responsabilità. Tuttavia, è opportuno fare alcune osservazioni in merito. Innanzitutto, il materiale che si trova su internet è destinato a un uso consumistico. La quasi totalità dei contenuti pubblicati in rete non è mai letta per esteso, ma viene solamente vista di sfuggita durante lo scorrimento della sezione home, nella quale si possono visualizzare unicamente i titoli (clickbait) dei contenuti[20]. In secondo luogo, internet è un mondo a cui tutti possono accedere indiscriminatamente, a prescindere da età e altre condizioni. Qui risulta molto più facile manipolare le masse e suscitare il loro isterismo. In sintesi, l’utente medio del web non mostra una diligenza particolarmente alta. Non sembra quindi opportuno ricorrere a un argomento che faccia leva sulla diligenza dell’uomo medio quando è manifesto nella realtà di tutti i giorni che: 1) la diligenza dell’internauta medio è decisamente più bassa di quella auspicata dal codice civile quando parla di “uomo medio[21]; 2) il concetto stesso di diligenza dell’uomo medio si sta repentinamente modificando in peius, perché solamente una minima parte di chi ha accesso a internet realmente verifica i contenuti in cui si imbatte.

In conclusione, l’uomo medio del ventunesimo secolo fa pari affidamento su notizie vere, fake news e titoli clickbait senza distinguere tra di essi. Il suo livello di diligenza si è drasticamente abbassato negli ultimi decenni. Non sembra quindi possibile opporre alla lamentata lesione del diritto allinformazione il mancato ricorso alla diligenza dell’uomo medio quando questa ormai rappresenta un concetto anacronistico. La diligenza dell’uomo medio, oggi, è quella di chi si limita alla sola lettura del titolo dell’articolo e non al controllo del contenuto. In sostanza, l’onere di verifica si può dire adempiuto con il ricorso alle condotte che ogni utente del web pone in essere quotidianamente (ossia la lettura del titolo) e non ad accorgimenti che non sono propri della maggior parte di essi, quali l’integrale lettura del testo.

3. Monetizzazione del danno: un dilemma apparente

Per risolvere il complesso aspetto della monetizzazione del danno, si può ricorrere all’istituto dei danni punitivi, i quali sono stati accolti con favore nel nostro ordinamento già da alcuni anni[22]. Questi, in breve, consistono in un aumento del risarcimento dovuto alla vittima quando l’illecito sia stato perpetrato con dolo o colpa grave. Fino al 2017 erano conosciuti solamente nei paesi di common law, ma con la sentenza 5 Luglio 2017, n. 16601 della Cassazione Civile si è confermato il loro ingresso nel nostro panorama giuridico[23].

Imputando il danno da falsa informazione al sito che ha fraudolentemente ingannato i propri lettori, la questione sulla sua risarcibilità verterebbe non sull’an bensì sul solo quantum. Infatti, una volta provata l’occorrenza del danno, è indubbio che le vittime possano attivarsi per chiedere un risarcimento.

Il tema si riduce quindi alla sola determinazione dell’ammontare. Non appare ragionevole stabilire l’entità del risarcimento in una semplice somma simbolica, ossia erogata solamente per confermare la sussistenza dell’illecito. In tal caso, infatti, non si avrebbe alcuna modifica della situazione sostanziale delle parti, e il provider fraudolento rimarrebbe, di fatto, impunito. Invece, ricorrendo all’erogazione di danni punitivi, chi ha pubblicato e fatto circolare le fake news vedrebbe il risarcimento dovuto crescere considerevolmente in forza del proprio elemento psicologico. Si è già detto che chiunque decida di pubblicare contenuti fuorvianti lo fa intenzionalmente, rendendo superflua la necessità di dimostrarne il dolo. Una volta provato il dolo, i danni punitivi vengono erogati in misura massima. Di conseguenza, sarà massimo anche il risarcimento a cui potrà ambire la vittima dell’inganno.

4. Considerazioni conclusive

Si è dimostrato che chi pubblica fake news può essere chiamato a risarcire civilmente i lettori ingannati dalla propria attività di pseudo-giornalismo. Da un lato, ad agire potrebbero essere i siti che hanno tenuto un comportamento rispettoso della deontologia giornalistica e dei propri lettori. In tal caso, si è visto, si può ricorrere a norma dell’articolo 2598 c.c. La divulgazione di false informazioni al solo scopo di aggiudicarsi spazi virtuali integra una condotta di concorrenza sleale ai danni dei siti più corretti. Il risarcimento dovuto sarebbe cospicuo. Infatti, i lettori guadagnati dai provider più sleali grazie alla pubblicazione di fake news sono seguaci, condivisioni e rendite potenzialmente sottratti a quelli più diligenti. Tutto ciò con il ricorso a metodi commerciali scorretti. Dall’altro lato, il giudizio potrebbe essere introdotto dai singoli individui che hanno fatto legittimo affidamento sui contenuti divulgati dal provider ingannevole. Costoro, infatti, hanno riposto fiducia in sedicenti pagine web il cui unico obiettivo è quello di ottenere il maggior numero di interazioni, senza garantire sulla qualità dei propri articoli. A prescindere dall’ammontare del risarcimento, è opportuno riconoscere la slealtà intrinseca delle tecniche di marketing di alcuni provider e condannare il loro comportamento. Ammettendo questa interpretazione, la questione verterebbe al più sul quantum del risarcimento, senza mai mettere in dubbio l’illiceità delle condotte.

Infine, si possono fare alcune considerazioni riguardo alla possibilità di prevenire gli episodi di disinformazione. Dottrina e giurisprudenza hanno ricordato più volte che il mondo di internet rappresenta un microcosmo di scarsa affidabilità, al punto che le informazioni ivi reperite non possono essere inserite nella categoria dei fatti notori, a differenza di quelle ottenute tramite gli altri mezzi di comunicazione di massa[24]. Tuttavia, vi sono moltissimi siti web che possono vantare un’altissima affidabilità e qualità dei contenuti. Al momento, l’attività delle pagine di debunking non è sufficiente per impedire che le persone acquisiscano informazioni errate e percezioni della realtà distorte. Manca, come si è evidenziato, un intervento legislativo e giudiziale a cui la buona volontà dei debunkers non può supplire[25]. Parte della dottrina ha suggerito, inoltre, l’implementazione di piattaforme di fact checking per accertare la veridicità degli accadimenti così come riportati negli articoli pubblicati online[26]. In questo modo, si promuoverebbe la circolazione di notizie verificate e si contrasterebbe ulteriormente la diffusione delle fake news. Tra le varie iniziative, spicca la TNI[27].

Ulteriore e risolutivo strumento per sanzionare le condotte di disinformazione sarebbe però l’apertura definitiva dei confini della giurisprudenza italiana a questa nuova fattispecie, dal momento che si è dimostrata la sussistenza di tutti i presupposti per l’applicazione degli articoli 2043 e 2598 c.c.

[1] S. Cosimi, G. Donadio, “La gente legge solo i titoli e poi commenta sui social. Lo dimostra uno studio”, Agosto 2016, disponibile qui: : secondo lo studio, il 70% degli utenti di Facebook e il 59% degli utenti di Twitter condivide articoli leggendone unicamente il titolo; anche M. Critelli, “Guida utile: il 70% degli utenti non legge gli articoli che condivide. Ecco come diventa virale una bufala”, Agosto 2016, disponibile qui: https://www.bufale.net/guida-utile-il-70-degli-utenti-non-legge-gli-articoli-che-condivide-ecco-come-diventa-virale-una-bufala/; anche L. Montesi, “Perchè la gente legge solo i titoli?”, Aprile 2019, disponibile qui: https://www.centropagina.it/benessere/psicologia-perche-gente-legge-solo-titolo/; anche G. Villa, “Dedicato a chi legge solo i titoli”, Aprile 2020, disponibile qui: http://www.gvnews.it/dedicato-a-chi-legge-solo-i-titoli/: il concetto sarà meglio sviluppato infra, § 2.1.

[2] P. Meriano, “Clickbait”, ottobre 2018, disponibile qui: https://www.insidemarketing.it/glossario/definizione/clickbait/#qualche_considerazione_etica_sul_clickbaiting.

[3] Sul tema si legga M. C. Falchi, “Covid-19: tra propaganda e disinformazione”, Ius in itinere, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/covid-19-tra-propaganda-e-disinformazione-34107.

[4]  Bufale un tanto al chilo, disponibile qui: https://www.butac.it/.

[5]  Qui la blacklist integrale: https://www.butac.it/the-black-list/.

[6]  A. Costantini, “Istanze di criminalizzazione delle fake news al confine tra tutela penale della verità e repressione del dissenso”, Giugno 2019, disponibile qui: https://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/DPC_Riv_Trim_2_2019.pdf.

[7]  C. Maietta, “Fake news, cosa rischia lutente: tutte le leggi violate, i reati e gli illeciti”, Marzo 2018, disponibile qui: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/fake-news-cosa-rischia-lutente-tutte-le-leggi-violate-i-reati-e-gli-illeciti/.

[8]  Sentenza disponibile qui: https://renatodisa.com/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-31-ottobre-2016-n-22042/.

[9]  C. Maietta, “Fake news, cosa rischia lutente: tutte le leggi violate, i reati e gli illeciti”, Marzo 2018, disponibile qui: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/fake-news-cosa-rischia-lutente-tutte-le-leggi-violate-i-reati-e-gli-illeciti/.

[10]  G. F. Campobasso, Diritto commerciale, edizione 2017; anche art. 2598 c.c.

[11] I. Policarpio, “Fake news: cosa rischia chi diffonde bufale online?”, Aprile 2020, disponibile qui: https://www.money.it/fake-news-cosa-rischia-chi-diffonde-bufale: l’illecito appare ancora più evidente se la fake news sia strumentale a screditare gli altri concorrenti di mercato.

[12]  R. Manfredi, “Il fenomeno delle fake news e i risvolti legali”, Aprile 2020, disponibile qui: http://www.salvisjuribus.it/il-fenomeno-delle-fake-news-e-i-risvolti-legali/.

[13] C. Cavalea, “Le diverse fattispecie di concorrenza sleale previste dal codice civile nell’art. 2598”, Aprile 2015, disponibile qui: .

[14]  V. Navarri, “Fake news vs libertà despressione: bilanciamento complesso”, Aprile 2017, disponibile qui: https://magazine.journalismfestival.com/fake-news-vs-liberta-despressione-bilanciamento-complesso/.

[15] M. Gobbato, M. Barella, P. Mancone, “Danno da informazione: uso illecito o diffusione di informazioni false o parziali”, Aprile 2005, disponibile qui: http://www.francocrisafi.it/web_secondario/varie%202005/danno%20da%20informazione.pdf.

[16]  F. Galgano, I fatti illeciti, edizione 2008.

[17]  Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 5259, 18 Ottobre 1984, disponibile qui: https://www.apart-italia.com/documents/147481/149056/Cassazione+529+1984/de85d56f-29e6-4ff5-9316-0ece81ce127b.

[18]  E. Natale, G. Zaccaria, “Libertà di espressione online e fake news alla luce del diritto costituzionale e del diritto europeo”, Ius in itinere, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/liberta-di-espressione-online-e-fake-news-alla-luce-del-diritto-costituzionale-e-del-diritto-europeo-30353.

[19]  J. Cartwright, M. Hesselink, Precontractual liability in European private law, edizione 2010.

[20] S. Cosimi, G. Donadio, “La gente legge solo i titoli e poi commenta sui social. Lo dimostra uno studio”, Agosto 2016, disponibile qui: : secondo lo studio, il 70% degli utenti di Facebook e il 59% degli utenti di Twitter condivide articoli leggendone unicamente il titolo; anche M. Critelli, “Guida utile: il 70% degli utenti non legge gli articoli che condivide. Ecco come diventa virale una bufala”, Agosto 2016, disponibile qui: https://www.bufale.net/guida-utile-il-70-degli-utenti-non-legge-gli-articoli-che-condivide-ecco-come-diventa-virale-una-bufala/; anche L. Montesi, “Perchè la gente legge solo i titoli?”, Aprile 2019, disponibile qui: https://www.centropagina.it/benessere/psicologia-perche-gente-legge-solo-titolo/; anche G. Villa, “Dedicato a chi legge solo i titoli”, Aprile 2020, disponibile qui: http://www.gvnews.it/dedicato-a-chi-legge-solo-i-titoli/.

[21] Art. 1176 c.c.

[22]  E. Al Mureden, I fatti illeciti, edizione 2018.

[23]  Cass. Civ., Sezioni Unite, sentenza n. 16601, 5 Luglio 2017.

[24]  F. Novario, Le prove informatiche nel processo civile, edizione 2015.

[25]  Human Rights Monitoring Institute, “È legale intervenire contro gli articoli clickbait?”, aprile 2016, disponibile qui: https://www.liberties.eu/it/news/lituania-clickbait-titoli-copyright-liberta-di-espressione/7872.

[26]  I. Policarpio, “Fake news: cosa rischia chi diffonde bufale online?”, Aprile 2020, disponibile qui: https://www.money.it/fake-news-cosa-rischia-chi-diffonde-bufale; anche V. Navarri, “Fake news vs libertà despressione: bilanciamento complesso”, Aprile 2017, disponibile qui: https://magazine.journalismfestival.com/fake-news-vs-liberta-despressione-bilanciamento-complesso/.

[27]  BBC, “Trusted news initiative (TNI) steps up global fighting against disinformation with new focus on US presidential elections”, Luglio 2020, disponibile qui: https://www.bbc.co.uk/mediacentre/latestnews/2020/trusted-news-initiative.

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