giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Il fine rieducativo della pena, realtà o utopia?

L’Art. 27 della nostra Costituzione recita : “la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte“.

E’ bene soffermarsi sul significato della norma in modo generico andando poi ad un’analisi specifica del fine rieducativo della pena.

La Costituzione con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n° 354/75 e con il successivo intervento del 2007 è stata modificata introducendo alcuni aspetti di umanizzazione del trattamento penitenziario quali : permessi, licenze ed ulteriori agevolazioni; in particolar modo è stata abrogata la pena di morte, la quale solo in 101 stati è stata eliminata completamente. Vi sono tuttavia casi di Paesi che eseguono sporadicamente o sistematicamente esecuzioni in maniera extra-giudiziale al di fuori quindi della loro stessa struttura giuridica, risale infatti solo al 2014 l’ultima condanna in Sudan.

Cosa intende dirci il legislatore con l’espressione normativa “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato” inserita al comma 4 dell’Art. 27?

La rieducazione è la finalità ideologica della pena e consiste nel creare da parte dello Stato durante l’esecuzione della stessa, le condizioni necessarie affinché il condannato possa successivamente reinserirsi nella società in modo dignitoso mettendolo poi in condizioni, una volta in libertà, di non commettere nuovi reati. Tale finalità fu introdotta proprio per salvaguardare la dignità umana quale diritto fondamentale dell’uomo in quanto tale; ma ci si chiede, lecitamente, se sia davvero così, se il nostro sistema penitenziario miri e garantisca davvero quanto la costituzione statuisce. Guardando ai dati 2016 dell’Associazioni Antigone il sovraffollamento carcerario in Italia raggiunge il 108% non riuscendo nemmeno a garantire ai detenuti un posto letto, costatando che oggi all’incirca in quattromila non hanno un posto regolare all’interno delle strutture di detenzione. Ma come si spiega tutto ciò? Si può addebitare ai costi tale situazione? Per ogni persona in cella lo Stato paga più di 140,00 euro al giorno, un costo esorbitante se si paragona a quello di un detenuto francese che supera di poco i 100,00 euro, o quello di uno spagnolo, inferiore ai 53,00 euro, all’apparenza quindi non sembrerebbe imputabile a ciò tale disagio. Ma il dato più preoccupante è la recidiva che oggi in Italia è del 70%.

In Italia un grosso merito bisogna riconoscerlo all’Istituto minorile di Nisida, un vanto tutto Partenopeo che consente ai giovani fino ai 21 anni d’età di scontare la loro detenzione in un luogo sospeso tra il mare e la legalità garantendogli studio, socializzazione, canalizzazione delle loro energie in attività quali sartoria, falegnameria, pasticceria e molte altre ancora che un giorno potranno aiutarli a costruirsi un futuro dignitoso. Non meno importanti sono le attività sportive, che oltre ad aiutare a recuperare valori quali l’amicizia e la lealtà verso il prossimo, acuiscono la lealtà ad un ordinamento, inteso nella fattispecie come regole del gioco, che seppur non sanzionato con pene possa insegnare il rispetto.

Lo stato sociale di diritto, come ampiamente sostenuto da Moccia e da Roxin, deve fondarsi su diversi principi tra i quali :
• finalismo rieducativo e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità
• personalità della responsabilità penale
• ragionevolezza della pena
sottolineando come un sistema fondato solo sulla intimidazione generale, produca effetti di astio o addirittura di strumentalizzazione del reo, infliggendogli pene eccessive al fine di trattenere i consociati dal commettere a loro volta reati. Bisogna offrire al condannato la possibilità di orientare la propria esistenza nel rispetto di quella altrui e secondo le regole fondamentali della convivenza civile. La pena non è una vendetta, infatti è lecito ritenere che solo orientandosi verso la rieducazione e la risocializzazione del reo si possa aspirare al debellamento della recidiva, così usuale nel nostro paese.

La situazione è ben diversa nei confronti di coloro che invece il regime carcerario debbono scontarlo secondo quanto statuito dall’Art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, comunemente chiamato “regime di carcere duro” . Con tale norma si è attribuito al Ministro di grazia e giustizia di sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati previste dalla stessa legge, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di ordine e di sicurezza pubblica nei confronti di detenuti internati per reati quali criminalità organizzata, terrorismo ed eversione. Tali restrizioni consisterebbero nel rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, limitazione della permanenza all’aperto e la censura della corrispondenza. Su tali restrizioni diverse sono state le questioni di legittimità costituzionale sollevate, tutte rigettate dalla Corte Costituzionale con quattro sentenze interpretative (93/349, 93/410, 96/351 e 97/376), le quali hanno confermato l’attribuzione, al Ministro, del diritto di apporre tali restrizioni a condizione di poterle giustificare e succintamente motivare in nome della permanenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica che ne costituiscono il loro presupposto. L’aspetto più problematico a tal punto è l’oggetto della restrizione, la quale, ovviamente, non potrà ricadere su quelle regole che sono alla base dei diritti fondamentali della persona o che attengono al soddisfacimento di bisogni primari quali l’igiene, il vitto; quello a cui si punta è di incidere sulla vita interna all’istituto, ma in primis dei contatti del reo con il mondo esterno.

E’ credenza dei più ritenere giuste le condizioni disumane in cui il reo deve scontare la sua pena, qualunque essa sia; l’espressione “è giusto, deve pagare per quanto ha fatto” dilaga tra la popolazione che non prova vergogna per le atrocità, per lo stato disumano, per la violazione dei diritti che i detenuti ogni giorno, per tutto il tempo della loro detenzione devono subire. La forma mentis è qualcosa che in primis dovrebbe mutare: bisognerebbe puntare ad una società che, conscia dei suoi limiti, miri a costruire un futuro dignitoso per tutti, garantendo anche una seconda possibilità a chi, dopo aver “sbagliato”, se ne sia pentito. Quello a cui si auspica è di ottenere un sistema penitenziario giusto, proporzionato al reato e capace di guardare oltre la pena. Capace di guardare all’uomo, all’individuo colpevole che può cambiare, può essere rieducato, può reinserirsi nella società dopo aver “pagato” per quanto compiuto. Si auspica ad un’evoluzione della giustizia che miri non a punire semplicemente, ma ad ottenere, con il tempo, una società che rispetti la regola o le sanzioni dovute alla sua violazione, in prospettiva di una risocializzazione fiduciosa che rispecchi i parametri di dignità umana garanti dalla Carta dei diritti fondamentali.

Valeria D'Alessio

Valeria D'Alessio è nata a Sorrento nel 1993. Sin da bambina, ha sognato di intraprendere la carriera forense e ha speso e spende tutt'oggi il suo tempo per coronare il suo sogno. Nel 2012 ha conseguito il diploma al liceo classico statale Publio Virgilio Marone di Meta di Sorrento. Quando non è intenta allo studio dedica il suo tempo ad attività sportive, al lavoro in un'agenzia di incoming tour francese e in viaggi alla scoperta del nostro pianeta. È molto appassionata alla diversità dei popoli, alle differenti culture e stili di vita che li caratterizzano e alla straordinaria bellezza dell'arte. Con il tempo ha imparato discretamente l'inglese e si dedica tutt'oggi allo studio del francese e dello spagnolo. Nel 2017 si è laureata alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, e, per l'interesse dimostrato verso la materia del diritto penale, è stata tesista del professor Vincenzo Maiello. Si è occupeta nel corso dell'anno di elaborare una tesi in merito alle funzioni della pena in generale ed in particolar modo dell'escuzione penale differenziata con occhio critico rispetto alla materia dell'ergastolo ostativo. Nel giugno del 2019 si è specializzata presso la SSPL Guglielmo Marconi di Roma, dopo aver svolto la pratica forense - come praticante avvocato abilitato - presso due noti studi legali della penisola Sorrentina al fine di approfondire le sue conoscenze relative al diritto civile ed al diritto amministrativo, si è abilitata all'esercizio della professione Forense nell'Ottobre del 2020. Crede fortemente nel funzionamento della giustizia e nell'evoluzione positiva del diritto in ogni sua forma.

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