martedì, Aprile 16, 2024
Criminal & Compliance

Frode nell’esercizio del commercio: l’art. 515 c.p.

Il reato di frode nell’esercizio del commercio è regolato all’art. 515, capo II del titolo VIII del libro II del codice penale e rientra tra i delitti contro l’economia pubblica. E’ posto a tutela della libertà, della produzione e dello scambio, nonché della fiducia nell’esercizio delle attività commerciali. Esso si configura ogniqualvolta in un’attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico viene consegnata all’acquirente una cosa mobile per un’altra ovvero diversa per origine, provenienza, qualità, quantità, da quella dichiarata o pattuita [1].

Nello specifico, la diversità per “l’origine” del prodotto riguarda il luogo geografico di produzione di cose che, nella mente dei consumatori, ricevono un particolare apprezzamento proprio per essere prodotte in una determinata zona o regione. La diversità per “provenienza” consiste nell’utilizzare nella confezione di un bene l’attività di un’azienda diversa da quella che lo contraddistingue. La difformità per “qualità” si ha quando tra la cosa dichiarata o pattuita e quella consegnata vi sia un divario di pregio o di utilizzabilità, mentre la “quantità” investe il peso, la misura o il numero.

L’elemento soggettivo del reato è caratterizzato dal dolo generico, cioè dalla consapevolezza e volontarietà del venditore di cedere al pubblico un prodotto diverso da quello stabilito. Il soggetto attivo, non si identifica soltanto nel titolare di una ditta o di un esercizio commerciale, ma può investire anche i dipendenti, i familiari, il rappresentante o il socio. Dunque, non è richiesta la qualità esclusiva di commerciante, ma è sufficiente che l’attività delittuosa si esplichi nell’esercizio di un atto obiettivamente commerciale. Può essere soggetto attivo anche il privato agricoltore o l’artigiano che vende i suoi prodotti direttamente al consumatore. La persona offesa dal delitto è l’acquirente, ma talvolta il reato può presentare natura plurioffensiva, ledendo in questo caso sia gli interessi del produttore sia dell’acquirente-consumatore.

Il reato di cui all’art. 515 c.p. tende a confondersi con il reato di truffa, alla luce del loro nucleo in comune, ossia la lesione dell’altrui fiducia tramite condotte fraudolente. Il confine tra questi due delitti è spesso sottile, in quanto possono venire entrambi in rilievo in situazioni simili. La principale differenza risiede nella diversa gravità delle condotte descritte nelle due norme: il reato di truffa è senza dubbio più grave, in quanto implica uno o più atti compiuti al preciso fine di far cadere in errore l’altro contraente. Tale condotta deve essere necessariamente realizzata mediante un comportamento volto a far sembrare vera una falsa rappresentazione della realtà e quindi, creare un errata convinzione per il consumatore. Il delitto ex art. 515 c.p. differisce dalla truffa ex art. 640 c.p. per il fatto che, per quest’ultimo l’inganno deve porsi come causa determinante del consenso della vittima, mentre nella frode in commercio l’inganno si realizza nella fase successiva alla conclusione del contratto. Nella truffa l’inganno dipende sempre da artifizi o raggiri usati dall’agente, mentre per la frode in commercio questi elementi non sono necessari.  [2]

Siffatto delitto si differenzia altresì dai reati contro il patrimonio, perché aggredisce gli interessi economici di una cerchia indeterminata di persone e riflette la lesione dell’interesse patrimoniale del privato in una dimensione più generale. Ciò che il legislatore ha cercato di impedire è il malcostume commerciale pericoloso per la massa dei consumatori. Infatti, la mancanza del minimum di probità e lealtà che è indispensabile nello scambio dei beni, produce sfiducia e rallentamento negli affari e, di conseguenza, ostacola lo sviluppo del commercio non solo nel mercato interno, ma anche nel campo internazionale, specie ai fini della concorrenza. [3]

Attualmente sta aumentando sempre di più, nella pratica commerciale, il fenomeno di detenere all’interno delle cucine dei ristoranti prodotti congelati o surgelati. Questo pone il problema di stabilire se la detenzione di prodotti diversi da quelli indicati nella lista delle vivande, configura il delitto di frode nell’esercizio commerciale nella forma consumata o tentata.

Secondo un primo orientamento non si prospetta il reato di tentata frode nella semplice detenzione di alimenti congelati. In tal caso, infatti, in assenza di ulteriori elementi circostanziali, non è individuabile una condotta idonea e diretta alla conclusione di un intesa contrattuale [4].

Al contrario, un altro orientamento ritiene che [5], la mera detenzione di prodotti surgelati possa integrare il reato in questione. Alla base di tale indirizzo, si osserva che la detenzione è di per se rilevatrice della volontà di consegnare una cosa diversa da quella pattuita, infatti il menù presentato al cliente equivale ad una proposta contrattuale. Di recente, Cassazione si è pronunciata sul punto con una decisione [6], con la quale ha statuito che la detenzione di prodotti congelati o surgelati, integra il reato di tentata frode in commercio, poiché siffatto comportamento dimostra la volontà dell’esercente di consegnare ai clienti una cosa diversa da quella pattuita.

Alla luce di questi principi, in un caso di specie, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di due ristoratori alla pena di due mesi di reclusione ed euro 80 di multa per avere compiuto in concorso fra loro nel proprio ristorante, atti idonei diretti a vendere al pubblico cibo congelato come pesce fresco, non riuscendo però nel tentativo, per cause indipendenti dalla loro volontà. Nello specifico, i due ristoratori non avevano informato la clientela, di detenere e servire pesce decongelato/surgelato, mancando qualsiasi indicazione in tal senso sul menù [7]. Per vero, inutile è stato per i ristoratori lamentare la violazione e la falsa applicazione del reato di frode nell’esercizio del commercio nella forma tentata, sottolineando che la condotta descritta nel capo d’imputazione non era stata riscontrata, poiché non era stato dimostrato che nel menù fosse specificato che i prodotti serviti erano freschi. La sola circostanza provata era quella che nel locale vi fosse anche pesce fresco, la cui presenza, secondo gli imputati, escludeva la sussistenza del tentativo di frode in commercio. La Corte di Cassazione ha specificato che il nucleo essenziale della condotta contestata, risiede non nella mancata specificazione nel menù che i prodotti erano freschi, ma piuttosto nella circostanza che non era stato chiarito che alcuni alimenti posti in vendita erano congelati. Ad avviso della Suprema Corte tale circostanza è di per sé idonea a smentire il dato che, rispetto ad altri alimenti pure indicati nel menù e, quindi, parimenti proposti in vendita nel locale, non era specificato che si trattava in realtà di prodotti congelati e non freschi, il che, è sufficiente a integrare il tentativo di frode in commercio in ordine a tali alimenti.

È possibile concludere osservando che nel reato di frode in commercio di cui all’art. 515 c.p. l’interesse protetto si identifica nell’esigenza di tutelare i protagonisti del mercato, sia nella qualità di consumatori, sotto il profilo dell’affidamento negoziale, sia nella qualità di produttori e i commercianti, riguardo al leale e corretto svolgimento del mercato in termini concorrenziali.

[1] art. 515 c.p. frode nell’esercizio del commercio, www.brocardi.it

[2] Cappalonga A., Truffa o Frode in commercio? Due fattispecie a confronto, articolo del 12.02.2018

[3] articolo tratto da www.avvocatosimoneferrari.it

[4]Cass. Penale, sez. III, 22 giugno 2001- 3 novembre 2001 n. 35743

[5]Cass. Penale, 17 gennaio-16 giugno 2017 n. 30173

[6] Cass. Penale, sez III, sentenza n.  13726 del  29 marzo del 2019

[7] Michetti E., Scatta il reato di frode in commercio se nei locali ci sono alimenti congelati non indicati nel menù, articolo tratto da www.qotidianodellapa.it, del 2 aprile 2019

Mariaelena D'Esposito

Mariaelena D'Esposito è nata a Vico Equense nel 1993 e vive in penisola sorrentina. Laureata in giurisprudenza alla Federico II di  Napoli, in penale dell’economia: “bancarotta semplice societaria.” Ha iniziato il tirocinio forense presso uno studio legale di Sorrento e spera di continuare in modo brillante la sua formazione. Collabora con ius in itinere, in particolare per l’area penalistica.

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