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Gestione delle sopravvenienze e potere di eterointegrazione del giudice: l’impostazione innovativa dell’Ufficio del Massimario

  1. Premessa: l’equilibrio del contratto.

Il legislatore codicistico ha tratteggiato il rapporto contrattuale come una relazione naturalmente equilibrata: due o più parti, con medesimi poteri e medesimi strumenti, stipulano un accordo costitutivo, modificativo o estintivo di rapporti giuridici.

Il codice del 1942, infatti, dedica una quantità esigua di disposizioni a fenomeni di squilibrio: alcuni esempi di squilibrio incidente sull’atto sono reperibili nella disciplina delle condizioni generali di contratto e nella rescissione mentre alcuni esempi di sperequazione nel rapporto sono individuabili nella disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità[1], dei contratti di affitto e di appalto.

Tuttavia, questa prospettiva viene a mutare a partire dagli anni Novanta: da un lato, emerge una innovativa tutela per la parte debole nei cc.dd. secondo e terzo contratto[2]; dall’altro, negli ultimi decenni la dottrina e la giurisprudenza hanno registrato una esaltazione del generale dovere di buona fede e della causa in concreto[3].

In specie, con la spinta del diritto comunitario, l’ordinamento italiano ha accolto i contratti c.d. asimmetrici, ovverosia contratti in cui la parte debole subisce l’unilaterale predisposizione delle clausole contrattuali o comunque versa in una condizione tale da non consentire una trattativa bilaterale sul contenuto del patto.

Si tratta di una sperequazione originaria e non sopravvenuta, che promana, nei contratti c.d. Business to consumer, da asimmetrie informative, oppure, nei contratti c.d. Business to business, dalla dipendenza economica del partner commerciale.

Per quanto concerne, invece, il generale dovere di correttezza, gli interpreti si sono interrogati sul perimetro applicativo del principio: secondo la più moderna accezione, il dovere in discorso è generale e trasversale, trova applicazione nelle trattative, nella interpretazione, nella esecuzione e nella integrazione del contratto.

Difatti, la buona fede oggettiva non è più solo un canone valutativo, è altresì precettivo, capace di fondare nuovi obblighi in capo alle parti.

Infine, la causa del contratto – così come intesa dalla impostazione interpretativa più recente – riveste un particolare rilievo per il contratto squilibrato.

La paternalistica concezione di Emilio Betti sulla causa in concreto, come funzione economico-sociale, ha ceduto il passo all’impostazione esegetica secondo cui la causa costituisce la funzione economico individuale del contratto. Attraverso la causa, così intesa, si oggettivizzano i motivi delle parti, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento a norma dell’art. 1322 comma 2° c.c. Impostazione, questa, che ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità a partire dal 2006.

Dunque, attraverso il controllo causale si verifica la sussistenza di un interesse meritevole, la conformità all’ordine pubblico, al buon costume e alle norme imperative, infine anche l’equilibrio e l’adeguatezza del rapporto.

  1. L’insindacabilità del prezzo.

Tradizionalmente l’equilibrio oggetto della verifica causale è stato inteso come procedurale e non sostanziale. Veniva escluso, in via compatta, un controllo sul prezzo o sul valore delle prestazioni oggetto del contratto.

In specie, secondo l’orientamento citato, il giudice aveva un sindacato sull’esistenza della causa, sulla sua liceità, nonché sulla adeguatezza della pattuizione, tuttavia questo vaglio non era esteso al prezzo.

Il prezzo o, più in generale, il valore della controprestazione costituiva una scelta insindacabile, appartenente alla signoria esclusiva delle parti, titolari della libertà negoziale nell’an e nel quomododel contratto, fatta eccezione per i casi espressamente previsti dalla legge.

Una declinazione del più elevato principio della insindacabilità delle scelte negoziali.

Gli addentellati normativi a sostegno di questa interpretazione venivano individuati negli artt. 1372 e 1376 c.c.

Ciononostante, si è presto avviata una riflessione critica attorno all’insindacabilità del prezzo a partire dalla sentenza della Suprema corte del 1999 sulla riduzione officiosa della clausola penale, confortata dal successivo pronunciamento delle Sezioni Unite del 2005.

Una riflessione senza dubbio supportata dai Principi dei contratti commerciali internazionali elaborati da Unidroit[4]e costituenti la fonte di cognizione della Lex Mercatoria, dai c.d. Principi di diritto europeo dei contratti[5].

Dunque, la causa diviene un potente strumento di controllo dell’equilibrio e di conservazione del contratto, ancora più pervasivo rispetto al passato, e siffatta affermazione appare confortata da recenti orientamenti propugnati dalla dottrina, ma anche dall’Ufficio del Massimario della Cassazione in ordine alla interpretazione delle recenti norme anti-Covid19.

  1. La gestione delle sopravvenienze.

Per comprendere la portata dirompente del controllo sull’equilibrio e dei poteri del giudice, occorre prioritariamente muovere dall’analisi degli strumenti di gestione delle sopravvenienze.

Gli strumenti esaminandi costituiscono forme di autotutela privata rispetto ad un accordo valido, in deroga alla vincolatività del contratto stipulato dalle parti, a fronte di situazioni e fenomeni perturbanti.

Le sopravvenienze possono essere di fatto o di diritto: le prime sono determinate da fattori umani o naturali esterni al contratto, come un’epidemia; le seconde sono determinate dall’intervento di nuove leggi e provvedimenti in corso di esecuzione del contratto che applica la disciplina incisa, basti pensare agli atti aventi forza di legge e ai provvedimenti tesi a fronteggiare il rischio di contagio e le conseguenze economiche dell’epidemia.

Tra questi meccanismi si annoverano la risoluzione per impossibilità sopravvenuta e per eccessiva onerosità, il risarcimento del danno, il recesso, la riduzione del prezzo, le clausole di hardship.

Si distinguono strumenti idonei a determinare lo scioglimento del vincolo e meccanismi manutentivi tesi alla conservazione del contratto.

Come è evidente, i primi si pongono in collisione con il principio di conservazione del contratto, espresso dall’art. 1367 c.c., poiché determinano lo scioglimento del contratto squilibrato.

Diversamente, i meccanismi manutentivi aderiscono al principio conservativo, in quanto consentono al contratto di sopravvivere, epurato delle clausole incise dalla sopravvenienza che determina uno squilibrio non tollerato dalle parti.

In entrambi i casi si preserva l’interesse perseguito dai contraenti mediante l’originaria pattuizione: nel primo caso viene meno un vincolo che non risponde più all’interesse, nel secondo si rende il contratto conforme all’interesse.

Peculiare attenzione merita la rinegoziazione, con riferimento alla quale, nel corso degli anni, si sono posti alcuni dubbi.

La rinegoziazione consiste nella riattivazione della trattativa sul contratto già concluso dalle parti, al sopraggiungere di una sopravvenienza idonea a modificarne l’equilibrio.

Le parti possono farsi virtuose e inserire una apposita clausola di rinegoziazione o di hardship[6], con cui i contraenti si obbligano a trattare nuovamente in caso di specifiche sopravvenienze individuate.

Si tratta di clausole comuni nella prassi degli affari, difatti sono state standardizzate da organismi di categoria[7].

Con queste clausole le parti si impegnano all’adeguamento del contratto al fine di evitare sia lo scioglimento dell’accordo sia un eccessivo aggravamento della posizione di una delle parti in favore dell’altra. Si tratta di un istituto derivante dai sistemi di common law e recepito dalla prassi in ambito internazionale e domestico.

Tuttavia, non tutti i contraenti sono virtuosi e non tutte le sopravvenienze sono perfettamente tracciabili ex ante. Sicché si pone una importante querelleinterpretativa in ordine alla sussistenza di un obbligo generale di rinegoziazione nell’ordinamento italiano.

I dubbi non si attestato esclusivamente attorno all’ammissibilità di un simile obbligo e al reperimento di referenti normativi in grado di dare un sicuro appiglio al dovere di riattivare le trattative. Diversamente, riconoscere un simile obbligo induce a chiedersi quali siano i poteri del giudice a fronte della violazione dell’obbligo e quali siano gli addentellati per il potere eteronomo ascritto all’organo giudicante.

Nei decenni le tesi si sono polarizzate attorno a due impostazioni esegetiche: la prima negativa, maggioritaria e tradizionalmente sostenuta dalla più autorevole dottrina ancora oggi; la seconda positiva, confortata da alcuni interpreti e avallata da talune pronunce della giurisprudenza civile ed amministrativa.

In adesione alla tesi positiva, è stato affermato che il generale dovere di buona fede pervade ed attraversa in via trasversale la vita del contratto, trova il suo riconoscimento nell’art. 2 cost., laddove impone doveri di solidarietà sociale ed economica, nonché negli artt. 41-42 cost., nella loro dimensione sociale e non esclusivamente egoistica.

Il principio di buona fede c.d. oggettiva si declina nella buona fede nelle trattative, ex artt. 1337-1338 c.c., nella interpretazione del contratto, ex art. 1366 c.c., e nella esecuzione del medesimo, ex art. 1375 c.c.

Come sommariamente illustrato, si tratta di un principio non solo valutativo ma precettivo[8], idoneo a dare origine ad obblighi di protezione senza prestazione: l’obbligo di informazione, di riservatezza, di chiarezza, di lealtà e correttezza.

La natura precettiva dell’obbligo di buona fede è stata confermata dalla dottrina, prima, e dalla giurisprudenza, poi, per quanto concerne la natura della responsabilità precontrattuale.

In particolare, il recesso ingiustificato dai negoziati o l’omissione di informazioni rilevanti per orientare la controparte a stipulare o la mancata comunicazione delle cause invalidanti sono tutte condotte che violano il generale dovere di buona fede[9].

Conseguentemente, la responsabilità precontrattuale implica l’inadempimento di questo generale obbligo, secondo il paradigma della responsabilità “contrattuale”.

È stata data qui applicazione alla teoria del contatto sociale qualificato, elaborata dalla pandettistica e recepita in Italia da Castronovo.

Conseguentemente, il dovere di bona fideè capace di imporre inediti obblighi, estranei alle clausole convenzionali predisposte dalle parti, le quali si impegnano a perseguire i propri interessi, senza un ingiustificato ed eccessivo sacrificio di quelli altrui.

Tra questi obblighi – secondo la tesi positiva – si individua quello di rinegoziare: contravviene a buona fede chi, dinanzi ad una sopravvenienza incidente sul rapporto contrattuale, si rifiuta di partecipare alla nuova trattativa.

Tuttavia, la buona fede non sembrerebbe imporre il preciso dovere di concludere i negoziati, allorquando sia impossibile realizzare un adeguamento contrattuale che contemperi gli opposti interessi e l’unica via risulti essere quella dello scioglimento.

L’accezione del diritto alla rinegoziazione e delle conseguenze della mancata adesione alle trattative rievoca le previsioni Unidroit e PECL. L’art. 6.2.3 Principi Unidroit, recante la rubrica “Hardship”, dispone che l’insorgenza di eventi tali da alterare l’equilibrio delle prestazioni, fornisce alla parte svantaggiata il diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto. Il diritto riconosciuto è subordinato alla condizione che la richiesta venga fatta senza ingiustificato ritardo e previa indicazione dei motivi sulla quale è basata la richiesta del soggetto svantaggiato.

Sicché la richiesta di rinegoziazione non dà, ex se, alla parte svantaggiata il diritto di sospendere l’esecuzione del contratto inciso dalla sopravvenienza (art. 6.2.3 n. 2), diversamente è solo in caso di mancato accordo tra le parti entro un termine ragionevole, che ciascuna delle parti può rivolgersi al giudice (art. 6.2.3 n. 3). Quest’ultimo, se accerta il ricorrere di una ipotesi di “Hardship”, può risolvere il contratto in tempi e modi di volta in volta da stabilire oppure modificare il contratto al fine di ripristinare l’originario equilibrio (art. 623 n. 4). Similmente, l’art. 6:111 Principi di diritto europeo dei contratti è dedicato alla rinegoziazione in modo analogo ai Principi Unidroit.

Rispetto alla norma citata in precedenza, tuttavia, reca l’ulteriore previsione in accordo con la quale è consentito al giudice di condannare al risarcimento dei danni la controparte per la perdita cagionata dal rifiuto di una parte di intraprendere trattative o dalla rottura di esse in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.

Emerge dunque che se è priva di conseguenze la mancata conclusione positiva di una trattativa, non lo è pure la condotta di rifiuto alla riattivazione della negoziazione.

In particolare, a fronte di un ingiustificato diniego il giudice può interpretare la volontà delle parti espressa ed oggettivizzata nel contratto, ricostruire l’operazione negoziale ed individuare le soluzioni idonee all’adeguamento della convenzione alla sopravvenienza.

Laddove sia possibile questa ricostruzione, il giudice consegue l’effetto di conservare il contratto in adesione al principio di cui all’art. 1367 c.c., il giudice pronuncia una sentenza costitutiva, ai sensi dell’art. 2932 c.c., che tiene luogo del contratto rinegoziato non concluso dalla parte inadempiente per la violazione della buona fede.

Rileva la progressiva esaltazione della causa in concreto, intesa come funzione economico individuale, e della buona fede oggettiva.

L’operazione compiuta dall’organo giudicante non collide – secondo i teorici di questo filone – con i principi sanciti dagli artt. 1372 e 1366 c.c. Gli aderenti a questa tesi sostengono che il giudice non si fa portatore di una volontà estranea a quella delle parti del contratto, non diventa, a sua volta, parte.

L’organo giudicante si limita a svolgere il suo compito, ovverosia interpretare le norme applicabili, secondo le coordinate fornite dagli artt. 1366 e 1367 c.c.

A ciò si aggiunge, poi, che l’operazione manutentiva appare confortata da alcune disposizioni dell’ordinamento.

Il pensiero corre agli artt. 1464, 1467, comma 3°, 1468, 1664, 1623 c.c. e 168 disp. att. c.c.

In un contratto a prestazioni corrispettive, se si verifica una sopravvenienza idonea a rendere impossibile in via oggettiva parte della prestazione, la controparte ha diritto alla riduzione in via corrispondente della prestazione dovuta.

La rimodulazione della consistenza delle prestazioni, prevista dall’art. 1464 c.c., risulta alternativa al recesso dal contratto.

Tuttavia, esiste una importante differenza tra le due conseguenze dell’inadempimento parziale, in quanto è possibile recedere quando sia venuto meno l’interesse alla prestazione, in caso contrario la parte può invocare solo la riduzione.

Similmente, l’art. 1467 c.c. disciplina la risoluzione per eccessiva onerosità nei contratti a prestazioni corrispettive.

A fronte della sopravvenienza squilibrante, il legislatore prevede due soluzioni alternative: da un lato, consente alle parti di liberarsi del vincolo contrattuale, dall’altro, consente alla parte avvantaggiata dalla sopravvenienza imprevedibile e straordinaria di offrire una modifica delle condizioni del contratto secondo equità. Secondo la dottrina[10], il legislatore avrebbe così codificato la clausola rebus sic stantibus.

Nella disciplina del contratto di affitto, poi, l’art. 1623 c.c. prevede la possibilità di conservare il contratto a fronte di sopravvenienza di fatto o di diritto che incide notevolmente sulle prestazioni importando una perdita o un vantaggio.

Anche le regole sull’appalto sono sensibili alle sopravvenienze: l’artt. 1664 c.c. consente di richiedere una revisione del prezzo nel caso in cui le sopravvenienze importino variazioni di spesa per l’acquisto dei materiali o per il pagamento della manodopera, eccedenti un decimo del prezzo originariamente convenuto nel contratto.

In aggiunta, l’ultimo comma dell’art. 1664 riconosce il diritto ad un equo compenso a fronte di difficoltà di esecuzione derivanti da fattori naturali o strutturali non imputabili all’appaltatore, tali da rendere notevolmente più onerosa la prestazione di quest’ultimo.

Questi referenti normativi sono stati impiegati per sostenere che la rinegoziazione non è estranea al tessuto normativo: non si tratterebbe di fattispecie isolate, ma di un fascio di declinazioni di un generale obbligo di rinegoziazione a fronte di fattori perturbanti.

Il potere eteronomo del giudice di implementare la pattuizione rimodulata è stato, invece, giustificato ricorrendo a diversi referenti normativi.

Secondo taluni, il giudice può ricorrere all’equità integrativa; secondo altri, il giudicante può determinare il contenuto della prestazione come un terzo alla stregua dell’art. 1349 c.c.; secondo una distinta opzione ermeneutica, può dare attuazione all’operazione delle parti in ragione delle generali regole della interpretazione del contratto e, in particolare, degli artt. 1366 e 2932 c.c.

Alla tesi positiva accedono alcuni pronunciamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità, non solo in sede civile ma anche amministrativa.

Nel 2011 il Tribunale di Bari[11]ha affermato la natura generale del dovere di rinegoziazione, il quale trova la sua base normativa negli artt. 1175, 1375, 1366 e 1367 c.c.

Contravviene a buona fede il contraente che rifiuta ingiustificatamente di riattivare la trattativa avvantaggiandosi della sopravvenienza, così arrecando un sacrificio eccessivo alla controparte.

Tuttavia, dinanzi a siffatta violazione appare insoddisfacente lo scioglimento del vincolo ed il risarcimento del danno, in quanto si omette di considerare l’interesse delle parti, ivi compresa quella svantaggiata, alla permanenza del vincolo, ancorché epurato delle conseguenze squilibranti.

Peraltro, il risarcimento risulterebbe limitato all’interesse negativo e non anche a quello positivo differenziale.

Per questi motivi, il giudice sarà chiamato a ricostruire il contratto epurato in via interpretativa ed emettere sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., che tenga luogo del contratto rinegoziato.

Secondo il giudice pugliese, non esiste un’incompatibilità tra i principi sanciti dagli artt. 1325, 1372 e 1376 c.c. e la ricostruzione giudiziale del contratto, in quanto occorre perseguire l’obiettivo della conservazione ai sensi dell’art. 1367 c.c.

Ciononostante, il Tribunale di Bari non affronta il tema della necessaria conformità della sentenza ai sensi dell’art. 2932 c.c. al contratto preliminare inadempiuto.

Anche l’Adunanza Plenaria[12], occupandosi della pregiudiziale amministrativa, ossia l’autonomia dell’azione di risarcimento dalla domanda di annullamento, alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, ha raggiunto conclusioni simili, individuando però un limite alla conservazione del contratto nell’apprezzabile sacrificio. In specie, il Supremo consesso della giustizia amministrativa ha sostenuto che non si può imporre alla parte un’operazione onerosa, gravosa, straordinaria, rischiosa che superi i limiti di un notevole ed apprezzabile sacrificio.

In questo solco di idee, si pone anche la giurisprudenza di legittimità con riferimento al contratto preliminare complesso[13].

A fronte di tutti questi argomenti, le tesi negative si dividono. Secondo la prima, non esiste nell’ordinamento italiano un generale dovere di rinegoziare. In accordo con la seconda, invece, si riconosce cittadinanza all’obbligo di rinegoziazione, quale corollario del generale dovere di buona fede, tuttavia censura la tesi positiva per la genericità degli argomenti e per l’impiego vago e talvolta improprio dei referenti normativi citati: tale obbligo non è coercibile a norma dell’art. 2932 c.c.

Dai sostenitori della prima, è stato obiettato, l’ordinamento difetta di una norma generale di copertura per l’obbligo di rinegoziazione, né dagli artt. 1464, 1467, 1664, 1623 c.c. è possibile trarre l’argomento a supporto di una categoria generale. Si tratta semmai di ipotesi specifiche in cui il legislatore, che individua nel contratto un rapporto astrattamente paritario, offre rilievo eccezionale alle sopravvenienze e mira al riassetto di un rapporto squilibrato.

Il rinvio all’art. 1349 c.c. è stato considerato una estensione analogica e priva dell’aedem ratio.

Peraltro, si tratta di un istituto che rimette al mero arbitrio del terzo la determinazione dell’oggetto. Diversamente, il giudice non può e non deve vantare un mero arbitrio nella controversia tra le parti.

Con riferimento all’argomento dell’equità integrativa, è stato affermato che sono eccezionali le ipotesi ordinamentali in cui il legislatore ammette il ricorso all’equità da parte del giudice. Peraltro, non si tratta di un criterio interpretativo ma integrativo di lacune: il contratto squilibrato non può essere equiparato ad un contratto lacunoso.

Semmai appare più opportuno, secondo alcuni, il riferimento alla presupposizione, che tuttavia consente secondo l’orientamento maggioritario la risoluzione del contratto e, secondo l’orientamento intermedio ancorché autorevolmente sostenuto, il recesso, ma non anche la rinegoziazione.

Peraltro, esistono precisi rimedi per le sopravvenienze individuati dal legislatore, come la risoluzione del contratto per impossibilità parziale o per eccessiva onerosità.

A censura dell’argomento della conservazione del contratto ex art. 1367 c.c., poi, è stato valorizzato lo stesso limite dell’apprezzabile sacrificio: non può essere revocato in dubbio che attraverso una ricostruzione in camera di consiglio del contratto non rinegoziato venga sacrificato l’interesse della parte non svantaggiata dalla sopravvenienza.

È contestato, poi, l’esasperato impiego dell’art. 2 cost., al punto da meritare il colorito appellativo di “apriscatole giuridico”[14]. L’obiezione muove dal frequente ricorso al referente costituzionale per dare avallo alle impostazioni interpretative più irriverenti ed espressive di giustizia sostanziale.

La seconda tesi critica, invece, riconosce il dovere di rinegoziazione nell’ambito della buona fede, tuttavia constata l’impossibilità di coartare la rinegoziazione attraverso l’art. 2932 c.c. Più precisamente, l’azione di esatto adempimento costituisce rimedio specifico, che tiene luogo degli effetti di un contratto non concluso. In mancanza della rinegoziazione, però, non c’è alcun contratto equilibrato di cui riprodurre gli effetti; difetta il contratto preliminare che consente al giudice di dare operatività allo strumento disciplinato dall’art. 2932 c.c.

Semmai, se si ritiene l’obbligo di rinegoziazione una particolare declinazione del dovere di buona fede è configurabile una obbligazione risarcitoria, pari all’interesse negativo.

  1. La rinegoziazione nei contratti incisi dalle misure anti-Covid e l’impostazione innovativa dell’Ufficio del Massimario.

Il tema è recentemente ritornato al centro del dibattito dogmatico[15], in ragione dell’epidemia derivante dalla diffusione del virus Covid-19 e delle disposizioni volte a contenere il rischio di diffusione.

In particolare, sono state introdotte una serie di disposizioni per la locazione commerciale, per le imprese in crisi e per quanto concerne l’adempimento è stato introdotto l’art. 91 d. l. 18/2020, c.d. Cura Italia. La disposizione da ultimo citata, non brillante sotto il profilo della tecnica redazionale, ha sollecitato un vivace dibattito dottrinale.

L’art. 91[16]considera l’incidenza delle disposizioni del Governo per il contenimento del virus e, per tale ragione, prevede che sia sempre valutato dal giudice il rispetto di tali norme al fine di valutare la responsabilità del debitore da inadempimento delle proprie obbligazioni.

Sebbene un’isolata tesi abbia circoscritto l’applicazione della disposizione ai soli contratti pubblici, in ragione della rubrica, la dottrina maggioritaria ha escluso la riferibilità della norma alla categoria menzionata, in quanto ad essi si riferisce il solo comma 2°, e ha sin da subito avanzato dubbi esegetici in ordine alla interpretazione del breve enunciato.

In specie, secondo una tesi il legislatore ha inteso tutelare la parte inadempiente liberandola dall’onere probatorio; è stato valorizzato l’avverbio “sempre”, come accaduto per l’interpretazione della nuova disciplina della legittima difesa.

Secondo altri, invece, la norma indica un preciso iterinterpretativo e motivazionale al giudice, il quale è chiamato a sindacare sull’inadempimento, ciononostante egli non può non considerare l’incidenza dell’epidemia e deve appurare l’eziologia tra l’ossequio delle disposizioni anti-Covid19 e l’inadempimento.

Secondo la più acuta dottrina, invece, si tratterebbe di una norma non solo emergenziale ma emozionale: il legislatore, in un periodo particolarmente concitato, ha inteso rassicurare il cittadino e le imprese.

Non si tratterebbe, tuttavia, di una disposizione innovativa, in quanto l’epidemia e le misure di contenimento integrano già il c.d. factum principis, sicché sono sufficienti le regole contenute negli artt. 1453 e ss. nonché gli approdi già raggiunti in punto di rinegoziazione del contratto squilibrato dal fattore perturbante.

Sulla neo-introdotta disciplina, però, l’ufficio del Massimario presso la Corte di Cassazione ha redatto una relazione che assume particolare rilevanza per le innovative conclusioni raggiunte[17].

In particolare, dopo aver ricostruito la disciplina in materia di gestione delle sopravvenienze, esaminato le normative anti-Covid19 e svolto una analisi attorno all’istituto della rinegoziazione, l’Ufficio del Massimario afferma che nell’ordinamento italiano è rinvenibile un generale obbligo di rinegoziazione, in applicazione degli artt. 2, 41, 42 cost. oltre che in ragione degli artt. 1175, 1375 e 1366 c.c.

Si legge nella relazione che la rinegoziazione e il potere eteronomo del giudice consentono di ovviare a quell’ “imbuto esiziale” rappresentato dalla applicazione della buona fede.

Ciò in quanto l’applicazione del generale dovere ai contratti squilibrati conduce sempre allo scioglimento del contratto, in spregio all’interesse delle parti alla conservazione, in accordo con l’impostazione maggioritaria.

La ricostruzione operata appare adesiva ai precedenti della giurisprudenza di merito e di legittimità: si individua nell’art. 1366 c.c. il referente per l’opera ricostruttiva del giudice, in ragione del principio di cui all’art. 1367 c.c. e nella causa in concreto la guida per l’esegesi del giudice.

Successivamente, il contratto ricostruito dal giudice viene applicato ai sensi dell’art. 2932 c.c., senza alcuna violazione del principio consensualistico e di relatività, in quanto il giudice si limita a interpretare la volontà delle parti sulla base del contratto già concluso e delle caratteristiche della operazione complessivamente intesa.

Per specificare questo iter, l’Ufficio del Massimario osserva, ad esempio, che se la sopravvenienza incide rendendo eccessivamente onerosa la prestazione, anziché risolvere il contratto è possibile considerare l’aumento del prezzo della manodopera, dei materiali da reperire, del tempo occorrente per addivenire alla produzione nella quantificazione del corrispettivo, per modularlo sulla base di elementi già disponibili e non innovativi, così da mantenere il contratto in vita.

A fronte della relazione illustrata residuano dei dubbi: non viene esplicitato se l’operazione ermeneutica risulta applicabile alle sole vicende incise dalla pandemia, come sembra suggerire l’incipit delle conclusioni, oppure costituisce la più recente elaborazione del generale dovere di rinegoziazione, come sembra intuibile dalla mancanza di un riferimento specifico alle norme.

Ancora, non è chiaro se il giudice sia in grado di operare una ricostruzione del contratto alla luce della causa in concreto e della buona fede oggettiva, fuori dai casi in cui la sopravvenienza ha inciso sui costi. Dunque, ci si chiede, se il giudice può prolungare la durata del contratto, limitare o addirittura estendere l’oggetto del contratto.

  1. Considerazioni conclusive.

Sulla base dell’analisi fin qui operata, l’equilibrio del contratto rappresenta un tema ancora sottoposto all’indagine degli interpreti, anzi versa nella sua fase ascendente di riflessione ed evoluzione.

Tuttavia, le esigenze di certezza del diritto, di prevedibilità delle decisioni giudiziarie e di tutela effettiva dell’interesse di ciascuno dei contraenti impongono una applicazione cum grano salisdi obblighi generali, quale sembra essere quello di rinegoziazione.

La dottrina e la giurisprudenza, allora, saranno presto chiamate ad individuare i limiti del potere eteronomo del giudice con maggiore dovizia e verificare la compatibilità di questo potere, con i principi contenuti negli artt. 1372 e 1376 c.c.

[1]Nella Relazione al Re n. 133, viene enunciato che con l’art. 1467 c.c. “si introduce in modo espresso e in via generale il principio dell’implicita soggezione dei contratti con prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus, sulle tracce del diritto comune, e, quindi in collegamento con una tradizione prettamente italiana”. A parere di alcuni autori, tale disposizione avrebbe veicolato nell’ordinamento italiano la clausola a livello generale: sul punto, v. T. Auletta, Risoluzione dei contratti per eccessiva onerosità, inRiv. trim. dir. proc. civ.,1949, p. 170; A. Boselli, Eccessiva onerosità, inNoviss. dig. it.,1960, p. 332; P. Gallo, Eccessiva onerosità sopravvenuta, in Digesto discipline privatistiche, 1991, p. 235.

[2]V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, inRiv. dir. priv.,2001, p. 769 ss.

[3]M. Santise, Coordinate ermeneutiche di diritto civile, III ed., Torino, 2017, p. 655.

[4]L’art. 6.2.3 Principi Unidroit, recante la rubrica “Hardship”, dispone che l’insorgenza di eventi tali da alterare l’equilibrio delle prestazioni, fornisce alla parte svantaggiata il diritto di chiedere la rinegoziazione del contratto. Il diritto riconosciuto è subordinato alla condizione che la richiesta venga fatta senza ingiustificato ritardo e previa indicazione dei motivi sulla quale è basata la richiesta del soggetto svantaggiato. Sicché la richiesta di rinegoziazione non dà, ex se, alla parte svantaggiata il diritto di sospendere l’esecuzione del contratto inciso dalla sopravvenienza (art. 6.2.3 n. 2), diversamente è solo in caso di mancato accordo tra le parti entro un termine ragionevole, che ciascuna delle parti può rivolgersi al giudice (art. 6.2.3 n. 3). Quest’ultimo, se accerta il ricorrere di una ipotesi di “Hardship”, può risolvere il contratto in tempi e modi di volta in volta da stabilire oppure modificare il contratto al fine di ripristinare l’originario equilibrio (art. 623 n. 4).

[5]L’art. 6:111 Principi di diritto europeo dei contratti è dedicato alla rinegoziazione in modo analogo ai Principi Unidroit. Rispetto alla norma citata in precedenza, tuttavia, reca l’ulteriore previsione in accordo con la quale è consentito al giudice di condannare al risarcimento dei danni la controparte per la perdita cagionata dal rifiuto di una parte di intraprendere trattative o dalla rottura di esse in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.

[6]P. Gallo, Revisione e rinegoziazione del contratto, inDig. disc. priv.,Agg. VI, Torino, 2011, p. 804 ss.

[7]Si veda International Chamber of Commerce, Le nuove Clausole ICC Force Majeure e Hardship 2020, inDiritto e pratiche del Commercio Internazionale,4 maggio 2020.

[8]E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1943; F. Santoro – Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962; C.M. Bianca-S. Patti-G. Patti, Lessico di diritto civile, Milano, 1991, p. 745 e ss.

[9]Per un’acuta ed attenta ricostruzione, si veda G. Bevivino, Antiche, nuove e nuovissime questioni attorno al tema della “precontrattualità”, inGiust. civ., 2019, 3, p. 565 ss.

[10]La teoria è stata sostenuta da Guido Alpa. Si veda, T. Galletto, Clausola Rebus Sic Stantibus, inDig. disc. priv., II, Torino, 1988.

[11]Trib. Bari, 14 giugno 2011, ord., in Contratti, 2012, 571 ss., con nota di F.P. Patti, Obbligo di rinegoziare, tutela in forma specifica e penale giudiziale.

[12]CdS, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, in dait.governo.gov.it.

[13]Cass. civ., SS.UU., 27 febbraio 1985, n. 1720, in Giust. civ.,1985, 1, p. 1630 ss.

[14]La colorita espressione si deve a R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario: la buona fede adeguatrice e demolitoria, inForo it.,2014, 2, c. 2039 ss.

[15]S. Monti, Il Covid-19 e il revival dell’obbligo di rinegoziazione, inDanno e Responsabilità, 2020, 5, p. 587 ss.

[16]Per un acuto commento, si veda G. Iorio,Gli oneri del debitore fra norme emergenziali e principi generali (a proposito dell’art. 91 del d.l. n. 18/2020, “Cura Italia”), in Actualidad Juridica Iberoamericana, 2020, 12, p. 366-377.

[17]Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale, Relazione tematica n. 56, Roma, 8 luglio 2020, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Tematica_Civile_056-2020.pdf.

Stefania Pia Perrino

Nel marzo 2016, la dott.ssa Stefania Pia Perrino consegue il diploma di Laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Milano Bicocca, con una tesi in Procedura penale, intitolata "Le indagini preliminari nel processo agli enti", con votazione 110 e Lode. Dopo aver svolto un tirocinio formativo presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Milano, VI Dipartimento, consegue l'abilitazione all'esercizio della professione forense nel 2019. Nello stesso anno è Visiting Scholar presso l'Università di Edimburgo, Scozia. E' dottoranda di ricerca in Diritto Privato presso l'Università degli Studi di Milano - Bicocca, con un progetto dedicato a "La natura giuridica dell'embrione", e tutor accademico in Diritto Privato nei corsi di Scienze dei Servizi Giuridici e Scienze dell'Organizzazione. E' autrice di numerose pubblicazioni scientifiche ed accademiche, nonché vincitrice del Premio Laura Bassi (winter 2020) per la sua ricerca sul trattamento giuridico delle cellule riproduttive e degli embrioni umani.

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