venerdì, Marzo 29, 2024
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Giustizia per Navalny: la Corte EDU condanna la Russia

Lo scorso 15 novembre, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sulla complessa vicenda di Aleksej Navalny, leader del Partito di Progresso, formazione di opposizione russa, e più volte arrestato nel corso di manifestazioni di protesta organizzate nei confronti del presidente Putin. La posizione del ricorrente, per il suo forte attivismo politico, e la condotta delle autorità russe hanno portato la questione all’attenzione della comunità internazionale, che ha reso Navalnyy un simbolo, unica forza di opposizione all’interno di un paese sempre più in mano agli oligarchi e all’autoritarismo.

I giudici della Corte hanno dovuto valutare questa spinosa vicenda bilanciando, da una parte, il peso politico della questione e, dall’altra, la tutela concreta dei diritti fondamentali del ricorrente in relazione ai diversi arresti e processi subiti. Navalny è infatti stato arrestato ben sette volte tra il 2012 e il 2014 e sottoposto ad una serie di processi instaurati con le più varie accuse: riciclaggio di denaro, corruzione e, soprattutto, organizzazione di manifestazioni non autorizzate contro il governo di Vladimir Putin.

In relazione a questi eventi, il ricorrente lamenta una serie di violazioni di norme convenzionali relative ad arresti e incarcerazioni avvenute in maniera illegittima, senza riconoscergli adeguata tutela dal punto di vista processuale.

Nel dispositivo, infatti, si legge come la Corte abbia riconosciuto sussistere, in primo luogo, una violazione dell’articolo 5 CEDU – che tutela il diritto alla libertà e alla sicurezza individuale – in relazione ad alcuni episodi in cui Navalny era stato arrestato e detenuto per diverse ore prima di essere portato di fronte ad un giudice, il tutto senza fornire motivazioni al ricorrente o ai suoi difensori. Proprio in relazione ad alcuni di questi episodi, la Corte evidenzia come il governo non abbia provveduto a fornire nessuna spiegazione ragionevole circa le ragioni di questa detenzione, nemmeno di fronte alla Corte stessa. Inoltre, in una di queste occasioni, i giudici affermano come vi sia anche violazione dell’articolo 6 CEDU, in quanto le autorità nazionali hanno giudicato e sanzionato Navalny basandosi soltanto sui rapporti della polizia, senza rispettare il diritto alla difesa dell’imputato.

Altro aspetto che il ricorrente solleva è che le autorità hanno più volte contrastato Navalnyy e i suoi compagni di partito nella loro attività politica, reprimendo manifestazioni che, benché non autorizzate, si sono svolte in maniera pacifica. La Corte evidenzia come la libertà di associazione e di riunione rappresenta uno dei diritti più importanti nel quadro della Convenzione e le autorità nazionali devono dotarsi di procedure per poter vagliare ogni richiesta[1]. D’altra parte, qualsiasi tipo di rifiuto o di provvedimento che comprima questa libertà deve possedere un giustificato motivo, quale, ad esempio, la prevenzione del crimine, mantenere l’ordine pubblico o proteggere diritti degli altri individui[2]. Sul punto, la Corte analizza i singoli episodi valutando quando e in che modo tale diritto sia stato violato.

Ad esempio, in occasione dei due arresti avvenuti nel febbraio del 2014, le circostanze del caso di specie non erano tali da richiedere l’intervento delle forze armate – si trattava semplici sit-in, che non causavano alcun pericolo o rischio per l’ordine pubblico. Negli altri casi i giudici di Strasburgo, pur ammettendo come sia possibile che i fermi siano avvenuti perseguendo un fine legittimo, d’altra parte la Corte non ha ritenuto questi provvedimenti fossero “necessari in una società democratica”. Al contrario, come più volte sostenuto dai giudici di Strasburgo, la giurisprudenza della Corte è invece orientata ad invitare gli Stati ad usare un certo margine di tolleranza nei confronti delle riunioni pacifiche, autorizzate o meno che siano[3]. Al contrario, le autorità russe hanno utilizzato, nei confronti del ricorrente e dei suoi collaboratori, metodi repressivi e misure, come quelle di carattere penale, assolutamente sproporzionate rispetto a quanto effettivamente commesso dal ricorrente, reo unicamente di aver preso parte ad assemblee pacifiche.

La Corte fa poi riferimento ad altri aspetti particolarmente controversi e che evidenziano ancora di più come le autorità russe abbiano usato il “pugno di ferro” nei confronti di Andrej Navalny. Ad esempio, i giudici evidenziano come gli arresti siano avvenuti in un arco di tempo molto ristretto e anche in alcuni casi in cui lo stesso Navalny – come nel caso degli arresti del 24 febbraio visti prima – non aveva avuto un ruolo attivo nell’organizzazione delle manifestazioni.

Le circostanze dimostrano poi come l’inasprimento delle misure verso il ricorrente siano giustificate nell’ottica di una politica di repressione politica e di aperta intolleranza verso le opposizioni. La Corte esplicita persino che i provvedimenti delle autorità russe, oltre ogni ragionevole dubbio, erano orientati a sopprimere il pluralismo politico, che invece costituisce componente fondamentale di una sana democrazia e di uno stato di diritto nel senso previsto dal Preambolo della Convenzione[4].

In relazione a questi aspetti, la Corte riconosce anche una violazione dell’articolo 18 CEDU, in combinato disposto con gli articoli 5 e 11. Tale norma, infatti, pone dei limiti a restrizioni imposte a diritti convenzionali solo nel margine in cui dette limitazioni siano previste dalla Convenzione stessa.

Sul punto, occorre specificare che, dalla giurisprudenza della Corte, emerge come tale norma sia applicabile a casi di “sviamento di potere”, ossia quando determinati vincoli all’esercizio dei diritti convenzionali siano posti perseguendo un fine diverso, ulteriore rispetto a quelli per cui tali limiti sono previsti. Benché numerosi ricorrenti, in altre occasioni, abbiano eccepito una violazione dell’articolo 18, ben poche volte la Corte ne ha riconosciuto la violazione: ciò è dovuto principalmente alle difficoltà, per i ricorrenti, di provare che le autorità hanno perseguito, con la loro condotta, uno scopo “segreto”, diverso da quello effettivamente manifestato[5].

Oltre a queste valutazioni, specifiche per il caso di specie, la pronuncia della Corte sul caso Navalny si inserisce in una ricca giurisprudenza della Corte che ha più volte condannato le autorità russe per aver arbitrariamente limitato il diritto di riunione ed associazione dei cittadini[6]. Proprio alla luce di questo rapporto – quanto meno problematico – tra le autorità russe e la tutela dei diritti dell’uomo, i giudici di Strasburgo rilevano come, anche nel caso Navalnyy, la mancanza di una normativa adeguata e le mancanze strutturali dell’ordinamento russo hanno contribuito a causare una violazione de diritti umani.

Già dalle parole della Corte, però, emerge un problema più “culturale” che normativo: le autorità russe non sembrano tenere debitamente in conto l’importanza del diritto di riunione e di associazione, oltre a non tollerare forme di opposizione, anche pacifica, che nascono naturalmente all’interno di una sana democrazia.

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[1] Corte EDU, Navalnyy c. Russia, ricorsi nn. 29580/12, 36847/12, 11252/13, 12317/13 e 43746/14, sentenza 15 novembre 2018, §§99 – 100.

[2] Sul punto, sono diverse le pronunce in cui la Corte affronta casi relativi a minoranze politico-parlamentari (Corte EDU, Partito popolare democratico-cristiano c. Moldavia, ricorso n. 28793/02, sentenza 14 febbraio 2006, §71) o partiti separatisti (Corte EDU, Stankov e Ilinden, ricorsi nn. 29221/95 e 29225/95, sentenza, §97).

[3] Corte EDU, İzci c. Turchia, ricorso n. 42606/05, sentenza 23 luglio 2013, §89.

[4] Corte EDU, Navalnyy c. Russia, cit., §175; Corte EDU, Ždanoka c. Lettonia, ricorso n. 58278/00, sentenza 16 marzo 2006, §98.

[5] Bartole S., De Sena P., Zagrebelsky V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, CEDAM, Padova, 2016, pp. 584 – 585.

[6] Corte EDU, Lashmankin e altri c. Russia, ricorsi nn. 57818/09 e altri 14, sentenza 7 febbraio 2017; Corte EDU, Kasparov e altri c. Russia (n. 2), ricorso n. 51988/07, sentenza 13 dicembre 2016.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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