venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Giustizia riparativa oggi: evoluzione o deriva?

NDR: Che cosa si intende per giustizia riparativa è chiaramente desumibile da un articolo scritto in precedenza in questa stessa rubrica. Per questo motivo, in questo articolo ci si soffermerà esclusivamente sugli aspetti essenziali dell’istituto, per poi passare a riflettere sulla effettiva funzionalità della giustizia riparativa oggi.

 

In primis, è bene riprendere brevemente gli aspetti salienti dell’istituto. La restorative justice (o giustizia riparativa, dir si voglia) si connota per essere un metodo alternativo di risoluzione delle controversie. Inoltre, affinché tale metodo si possa correttamente definire restorative justice sono necessari alcuni tratti:

  • Volontarietà;
  • Coinvolgimento di un terzo imparziale;
  • Divieto di costituzione di una forma di giustizia privata.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, è bene soffermarsi sul suo significato pregnante. Per “Divieto di costituzione di una forma di giustizia privata” si intende il non poter sostituire le tecniche riparative all’autorità statale. Tutto quello che avviene in virtù di questo metodo alternativo deve essere regolamentato dalla pubblica autorità, in modo che il privato non se ne appropri e lo faccia diventare appunto un metodo alternativo attraverso, però, il quale fare giustizia da sé[1].

Un accenno più approfondito su quest’aspetto è stato d’obbligo in modo da addentrarsi nella vicenda oggetto della trattazione e, più in particolare, nella riflessione che da essa nasce.

La vicenda riguarda una catena di supermercati, la Walmart Stores, nella quale nell’anno 2015 si era deciso di adottare una strategia per diminuire il numero degli episodi di taccheggio. Tale strategia doveva essere, appunto, di restorative justice, e prevedeva l’applicazione del cosiddetto “programma CEC”, offerto dalla società privata Corrective Education Company. In base a questo programma, quando una persona era sospettata di taccheggio all’interno di un negozio convenzionato nel territorio statunitense, una guardia privata, dopo aver condotto il soggetto in una stanza sul retro, gli mostrava un video che descriveva le conseguenze dell’arresto e del procedimento penale e gli prospettava poi due opzioni: il carcere oppure l’adesione al metodo CEC[2].

L’adesione al metodo comportava l’ammissione di colpevolezza, il versamento di una somma di denaro alla società e la partecipazione ad un corso di modifica comportamentale. Qualora il soggetto, dopo aver firmato la dichiarazione di colpevolezza, non avesse pagato quanto dovuto, si sarebbe potuta inviare una confessione scritta e firmata alla polizia.

Tralasciando per ora gli effetti di quel metodo in California, si può ora riflettere sulla compatibilità o meno dell’utilizzo di questa tecnica particolare nell’ordinamento giuridico nazionale, partendo da quel carattere sopra descritto, e valutando, quindi, le possibili derive dell’uso – distorto o meno – della giustizia riparativa oggi.

Innanzitutto, si può partire chiarendo in breve i termini della fattispecie: una guardia, all’interno di un negozio, per il sospetto che Tizio possa aver rubato qualcosa, lo porta in una stanza per mostrargli un video[3] con le possibili conseguenze dell’atto che, presumibilmente, ha compiuto. Emerge una sorta di promessa in base alla quale, se Tizio mette in atto il programma dalla guardia suggerito – comprensivo della dazione di una somma di denaro – allora il rivenditore non lo denuncerà. Somma di denaro, è bene sottolineare, che deve essere pagata alla CEC in cambio della tolleranza per un crimine, forse, commesso.

È chiaro che un simile caso non possa avere i presupposti per essere inquadrato nell’ambito della giustizia riparativa. Se uno degli elementi costitutivi della GR è il divieto di costituzione di una forma di giustizia privata, nel caso di specie è evidente che questo elemento difetti. In effetti, il programma è stato ideato dalla CEC, un ente che non è né terzo né imparziale in quanto alle dipendenze della Walmart. E, soprattutto, l’asserita tecnica di restorative justice non è altro che una forma di giustizia privata. L’iter da seguire sarebbe dovuto essere stato un altro. Qui invece è stato scelto di fare appunto giustizia da sé, creando un modo del tutto personale per ottenere giustizia, per l’ammissione di colpevolezza del reo sospetto e per la collaborazione. Infine, manca anche un altro elemento fondamentale per rientrare a pieno titolo nella GR: l’elemento umano. Sulla base di questo esempio, non sembra che la giustizia riparativa oggi risponda ai canoni con cui è nata. È evidente che quella descritta non è una reale e autentica forma di comunicazione tra vittima e colpevole, il quale tra l’altro se sceglie di collaborare non sarà certo per un atto volontario, bensì più per l’intimidazione data dal video e la paura delle possibili conseguenze.

Tale ultima affermazione porta ad un altro tipo di riflessione. Non solo quella utilizzata non è una modalità che possa rientrare nel mondo della giustizia riparativa, ma peraltro nell’ordinamento giuridico nazionale è idonea ad integrare una forma di reato. Quanto descritto, infatti, proprio per il fatto che non segue il normale iter giudiziario, non può che caratterizzarsi come un atto contra ius.

È sostenibile la configurazione del reato di estorsione[4]. Secondo una recente giurisprudenza[5]: <<In ordine al reato di estorsione, la minaccia di un male legalmente giustificato assume il carattere di ingiustizia allorché venga fatta non già per esercitare un diritto, bensì con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia>>. E, ancora: <<Integra la minaccia costitutiva del reato di estorsione quella che pur consistente nell’esercizio di una facoltà o di un diritto spettante al soggetto agente (e dunque all’apparenza legale), diviene “contra ius” per l’uso di mezzi giuridici legittimi diretti a ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti, come quando la minaccia sia fatta con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia>>[6]. Infine, con un più specifico riferimento al caso di specie: <<In tema di estorsione, la minaccia di adire le vie legali, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo del delitto di cui all’art 629 cod. pen. quando sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia>>[7].

La minaccia, ancorché non penalmente apprezzabile quando è legittima e tende a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico, diviene contra ius quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati apprestati dalla legge. Conseguentemente la minaccia di un male legalmente giustificato (come può essere la minaccia di adire le vie legali) assume il carattere di ingiustizia quando sia fatta non già per esercitare un diritto ma con il proposito di coartare la volontà di altri e per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia.

Nel caso di specie, è evidente che quella “promessa” avanzata dalla guardia non sia altro che una minaccia, idonea a coartare la volontà altrui prospettando un male ingiusto. Con riferimento all’ordinamento giuridico italiano[8], la minaccia è rappresentata dalla minaccia di denuncia, il male ingiusto si concretizzerebbe nel profitto richiesto, ingiusto anch’esso in quanto difetterebbe la correlazione tra la minaccia e lo scopo (arricchimento della CEC).

Alla luce di quanto scritto, si può concludere affermando che la giustizia riparativa è un modello alternativo di risoluzione delle controversie che può assumere connotati interessanti se rispettata, però, nella sua valenza intrinseca ed estrinseca. Qualora, invece, si decida di far proprio questo modello, innovando eccessivamente nelle tecniche e nelle applicazioni materiali, arrivando addirittura a far giustizia da sé, è chiaro che non solo si esce dalla GR, ma si rischia addirittura di integrare una qualche forma di reato, come ci ha mostrato in maniera lampante il caso sopra esaminato, creando una giustizia riparativa oggi diversa.

 

 

[1] G. Spinelli, Quando la “vittima” diventa “carnefice”: la restorative justice privata delle grandi catene della distribuzione americana altro non è che estorsione, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 24 luglio 2018.

[2] Ea, ibidem.

[3] Video che l’ufficio del procuratore della città di San Francisco ha peraltro definito “a scopo intimidatorio”.

[4] Segnata mentente, tentata estorsione in quanto il reato ex art. 629 c.p. si consuma solo al momento in cui il soggetto passivo effettivamente consegni la cosa al soggetto attivo.

[5] Cass. Pen., Sez. VI, 3 novembre 2015, n. 45468.

[6] Cass. Pen., Sez. II, 4 novembre 2009, n. 119, Rv. 246306.

[7] Cass. Pen., Sez. II, 7 maggio 2013, n. 36365, Rv. 256874.

[8] Si deve, infatti, tenere conto che in Italia il reato di furto ex art. 624 c.p. è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61, n. 7, e 625 c.p..

Avv. Maria Vittoria Maggi

Avvocato penalista, esperta in Scienze Forensi, Vice Responsible dell'area di Criminologia di Ius in Itinere. Maria Vittoria Maggi nasce a Padova il 29/07/1992. Dopo un percorso complesso, ma ricco, si laurea  in giurisprudenza il 7 dicembre 2016 con voto 110/110, con tesi in procedura penale, dal titolo "L'esame del testimone minorenne". Prima della laurea, Maria Vittoria svolge uno stage di sei mesi presso il Tribunale di Trento: i primi tre mesi, svolge mansioni legate alla  sistemazione dei fascicoli del giudice e alla citazione di testimoni; per i restanti tre mesi, affianca un magistrato nell'espletamento delle sue funzioni, con particolare riferimento alla scrittura dei capi di imputazione e dei decreti, alla partecipazione alle udienze, alla risoluzione di problematiche giuridiche inerenti a casi in corso di udienza. Una volta laureata, il 7 febbraio 2017 Maria Vittoria decide di continuare il percorso iniziato in precedenza e, così, diventa tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tribunale di Trento. Durante i 18 mesi previsti di tirocinio , la stessa ha assistito un Giudice Penale partecipando alle udienze e scrivendo le motivazioni delle sentenze. Contestualmente al primo anno di tirocinio, Maria Vittoria ha voluto approfondire in maniera più seria la sua passione. Ha, così, iniziato un Master di II livello in Scienze Forensi (Criminologia, Investigazione, Security, Intelligence) presso l'università "La Sapienza" di Roma. Ha concluso questo percorso il 16 febbraio 2018, con una votazione di 110/110L e una tesi dal titolo "L'interrogatorio e l'analisi finalizzata all'individuazione del colpevole". Una volta concluso anche il tirocinio in Tribunale, Maria Vittoria ha intrapreso la pratica forense presso uno studio legale a Trento, approfondendo il diritto civile. Dal 29 ottobre 2018 si è, quindi, iscritta al Registro dei praticanti dell’Ordine degli Avvocati di Trento. Dopo questa esperienza, nell'ottobre 2019 Maria Vittoria decide di frequentare anche un rinomato studio penale di Trento. Questa frequentazione le permette di completare, a tutto tondo, l'esperienza penalistica iniziata con un Pubblico Ministero, proseguita con un Giudice e conclusa con un avvocato penalista. Il 23 ottobre 2020, Maria Vittoria si abilita all'esercizio della professione forense. Dal novembre 2020 Maria Vittoria fa, inoltre, parte di LAIC (Laboratorio Avvocati-Investigatori-Criminologi). Collabora per le aree di Diritto Penale e Criminologia di Ius in itinere. email: mvittoria.maggi92@gmail.com

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