Gli interventi edilizi sugli edifici diruti
Gli interventi eseguiti sui ruderi, ossia su quegli edifici in tutto o in parte crollati, rientrano negli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione edilizia?
La domanda ha apparentemente una risposta quanto mai semplice. L’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 (T.U. edilizia), infatti, ascrive alla nozione di ristrutturazione edilizia “gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Tali tipi di interventi, pertanto, rientrano nella categoria della ristrutturazione edilizia e seguono il relativo regime dei titoli. Il tutto a condizione che sia possibile accertarne la preesistente consistenza, e dunque che sia possibile determinare la volumetria del fabbricato da ristrutturare.
La precisazione è stata inserita dall’art. 30, comma 1, lett. a) della l. 98/2013 (c.d. Decreto del Fare). Si tratta di una vera e propria innovazione posto che, in precedenza, la giurisprudenza era solita far rientrare gli interventi eseguiti su edifici crollati o diruti nel novero degli interventi di nuova costruzione: ogni ricostruzione non contestuale alla demolizione di edifici fisicamente non esistenti veniva considerata non una ristrutturazione edilizia bensì una vera e propria nuova edificazione.
In passato, infatti, i giudici sostenevano che, poiché la ristrutturazione presuppone la presenza di un fabbricato dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, gli interventi svolti un rudere o su un edificio parzialmente crollato rientrassero nel concetto di nuova costruzione.[1]
Secondo la giurisprudenza, il discrimine tra ristrutturazione e nuova costruzione è segnato proprio dalla preesistenza o meno di un determinato patrimonio edilizio. Sicché, mentre la ristrutturazione presuppone in ogni caso la preesistenza di un organismo edilizio o la conservazione di parti considerevoli dello stesso, e dunque un territorio già trasformato, la nuova costruzione si ha in aree prive di organismi edilizi, e dunque libere, su un territorio privo di trasformazione.[2]
In sostanza, perché si possa parlare di ristrutturazione edilizia, è pur sempre necessaria “la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire”[3].
Stante l’attuale dato normativo, è bene precisarlo, in relazione a interventi su costruzione edilizie diroccate o in parte cedute, quali i ruderi, non si può parlare di manutenzione straordinaria o di restauro e di risanamento conservativo poiché si tratta di figure in re ipsa incompatibili, non essendo possibile manutenere o consolidare una costruzione demolita, priva di elementi strutturali.[4]
Il cambio di rotta segnato dalla modifica apportata dalla l. 98/2013 ha recato con sè un interrogativo di non facile soluzione: cosa si intende per preesistente consistenza dell’edificio?
Con riferimento alla ristrutturazione dei ruderi, la giurisprudenza è pressoché unanime nel ritenere che “non è sufficiente che si dimostri che un immobile è esistito e che attualmente risulta crollato per potere accedere alla sua ricostruzione come “ristrutturazione edilizia”, ma è necessario che in concreto si dimostri non solo il profilo dell’an (che un certo immobile attualmente crollato è esistito) ma anche quello del quantum (che cioè si dimostri l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si richiede la ricostruzione); il risultato è che se invece si riesce solo a dimostrare che in un certo luogo vi era in passato un immobile oggi demolito, ma non si riesce a dimostrarne la consistenza, la sua rinnovata edificazione deve essere inquadrata come “nuova costruzione””.[5]
Secondo la giurisprudenza più rigorista, ed in verità maggioritaria, un edificio diroccato può essere qualificato come preesistente solo “quando è possibile individuare le murature perimetrali, che individueranno la sagoma della struttura, le strutture orizzontali di piano e la copertura, che fisicamente delimita il volume preesistente occupato dal manufatto”.[6]
Qualora non sia possibile verificare i connotati essenziali (parti, tetto e solai), e dunque non sia possibile determinare la preesistente consistenza dell’edificio diroccato, quest’ultimo è da considerarsi alla stregua di un’area non edificata, e dunque soggetta al regime della nuova costruzione.[7]
Come è possibile provare la preesistente consistenza di un edificio diruto?
In linea generale, sono ritenuti idonei dalla giurisprudenza i documenti tecnici, fotografici e legali: atti notarili, rilievi fotografici anche storici, aerofotogrammetrie, visure e mappe catastali da cui si evince la presenza dell’originario fabbricato, risultanze di accertamenti peritali tecnici e atti di compravendita.
La norma sancisce l’onere in capo al privato di offrire la prova della consistenza strutturale e plano-volumetrica del preesistente edificio.
A posizioni più rigide che richiedono che il privato fornisca prove dalle quali si evinca con certezza la volumetria preesistente, si affiancano alcune pronunce in cui i giudici hanno aperto il campo all’accertamento della preesistenza in via deduttiva, “anche in misura inferiore, ma comprovabile, rispetto a quanto assunto dagli interessati, ovvero optando, in presenza di più risultati possibili, motivatamente per quello più restrittivo” [8].[9]
In subiecta materia la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che ai fini di cui all’art. 3, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 380 del 2001 “gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere,. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell’edificio” ed, in particolare ai fini qui d’interesse che “detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/1/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/6/2015, Petitto, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa, Rv. 266031)” (Cass. Sez. III, Penale, n. 39340/2018).
L’applicazione concreta dell’art. 3, comma 1, lett. d), come riformato nel 2013, tutt’altro che semplice in concreto, ha condotto ad una giurisprudenza particolarmente restrittiva sul punto. Aldilà di dell’atteggiamento prudenziale avuto sia dai giudici che dalle amministrazioni, preoccupate di dar adito ad abusi dell’istituto in esame, si avverte un certo scetticismo giurisprudenziale nel ricondurre gli interventi su edifici crollati, in tutto o in parte, nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, tradendo così l’intento del legislatore.
Una timida apertura, (rectius: una prima applicazione fedele al dettato normativo), sembra provenire da alcune recentissime pronunce.
Tra queste si segnala il Tar Liguria[10] che in primo luogo, ha chiarito che la formulazione dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 rende suscettibile di intervento edilizio l’edificio diruto, vale a dire quello “di cui parti, anche significative e strutturali, siano andate distrutte nel tempo ma di cui sia possibile documentare l’originario inviluppo volumetrico complessivo e la originaria configurazione tipologica, a fini della sua ricostruzione”[11]. Di conseguenza, ha sancito l’applicabilità della normativa in materia di ristrutturazione edilizia “all’ipotesi di edificio che non esiste più, ma di cui si rinvengono resti sul territorio e di cui si può ricostruire la consistenza originaria con un’indagine tecnica”.
Una spinta verso un’applicazione fedele al dettato normativo dell’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 può essere intravisto nelle modifiche apportate al d.P.R. 380/2001 dal d.l. Semplificazioni (l. 120/2020).
L’art. 10 comma 1, lett. b) della l. 120/2020 ha allargato il perimetro applicativo della ristrutturazione, comprendendovi anche la demolizione e la ricostruzione, e ha consentito la modifica di sagoma, prospetti, sedime e planivolumetria, con possibile incremento di volumetria qualora non vi siano distanze preesistenti.[12]
Rilevante è anche l’art. 9-bis del d.P.R. 380/2001 che, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. Semplificazioni, elenca gli elementi atti a testimoniare lo “stato legittimo degli immobili”. Con riferimento agli immobili c.d. ante-67, ossia realizzati in un momento storico in cui non era necessario un titolo abilitativo per esercitare lo ius aedificandi, il comma 1-bis dell’art. 9-bis definisce documenti probanti “le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza”. [13]
È facilmente ipotizzabile come le costruzioni oggi semidistrutte siano state realizzate ante-67: a mezzo dell’art. 9-bis siffatti edifici posso tornare ad avere il diritto a riacquisire l’originaria consistenza, e dunque ad essere ricostruiti.
[1] Ex multius TAR Campania, Napoli, Sez. III, 27/2/2017 n. 1169; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 11/09/2009 n. 4949.
[2] Così D. Vaiano, Art. 3, in Codice dell’edilizia, a cura di R. Garofoli, G. Ferrari, Nel Diritto Editore, IV edizione, p.
74;
[3] Cons. Stato, Sez. IV, 15/9/2006, n. 5375;
[4] Sul punto si veda P. Tanda, La nuova disciplina dei titoli abilitativi in materia urbanistica: in particolare, gli interventi di ristrutturazione edilizia anche alla luce della l. 21 giugno 2017 n. 96, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, fasc. 5, 1 ottobre 2017, pag. 335;
[5] Così TAR Toscana, Sez. III, 21 marzo 2014, n. 567. Si veda anche TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23/12/2019, n. 6098; Cons. Stato, Sez. VI, 5/12/2016, n. 5106; Cons. Stato, Sez. IV, 19/3/2018, n. 1725;
[6] Così TAR Puglia, Bari, Sez. III, 18/10/2019, n. 1359; Cons. Stato, Sez. IV, 17/09/2019, n. 6188;
[7] Così Cons. Stato, Sez. V, 15/3/2016, n. 1025; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 26.5.2016 n. 2700;
[8] Cons. Stato, Sez. IV, 27/9/2017, n. 4516;
[9] Per un completo approfondimento, si rinvia a A. Di Leo, Questioni pratiche (edilizie ed urbanistiche) relative alla ricostruzione di edifici, in tutto o in parte, crollati, in L’Ufficio Tecnico, fasc. 3, marzo 2018, p. 62 e ss.;
[10] Così TAR Liguria, Sez. I, 28/9/2020, n. 642;
[11] Così art. 2, comma 1, lett. b) L.R. Liguria 49/2009. I giudici hanno ritenuto analoghe le definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001 e l’art. 2, comma 1, lett. b) L.R. Liguria 49/2009;
[12] L’ultimo periodo dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001, come aggiunto dalla l. 120/2020, prevede che: “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
[13] In tal senso G. Saporito, Ruderi vincolati, ristrutturazione senza demolizione, in ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com, 30/12/2020
Marica De Angelis nasce a Monza il 16 Febbraio 1996.
Consegue la maturità scientifica presso il Liceo Scientifico Statale Alberto Romita di Campobasso nell’estate 2015.
Nel periodo liceale frequenta corsi di lingua inglese conseguendo le relative certificazioni.
Dalla lettura quotidiana di articoli giornalistici, sviluppa la curiosità e la voglia di comprendere le dinamiche del diritto e decide di iscriversi al corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna.
Durante il percorso universitario sviluppa un particolare interesse per il Diritto Pubblico e in particolare per il Diritto Amministrativo e prende parte a diverse attività extracurricurali promosse dall’ateneo come processi simulati e seminari.
Nel luglio 2020 conseguito il titolo di Dottoressa Magistrale in Giurisprudenza con una tesi in Diritto Amministrativo, relatore Prof. Giuseppe Caia, dal titolo “Le regole del contenzioso in materia di contratti pubblici: nuove prospettive e rinnovate criticità dopo l’abrogazione del rito super-speciale”.
La voglia di approfondire le tematiche oggetto dello studio, la porta, a partire da maggio 2019, a collaborare con la rivista giuridica “Ius In Itinere” per cui, ad oggi, riveste il ruolo di Vicedirettrice per l’area di Diritto Amministrativo.
Attualmente svolge la pratica forense presso lo studio legale LEGAL TEAM presso la sede di Roma.
Contatti: marica.deangelis@iusinitinere.it