Con la chiusura del “Caso Google Shopping” il Tribunale dell’Unione europea ha concluso un percorso iniziato più di dieci anni durante il quale la Commissione Europea, su segnalazioni di diversi concorrenti di Google, ha svolto approfondite indagini che hanno portato alla conferma della sanzione (da 2 circa miliardi di euro) inizialmente comminata dalla Commissione nei confronti dell’azienda per abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE.
Il Tribunale ha infatti ritenuto che Google abbia, in violazione della cd. competition on the merits, abusato della propria posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca. La violazione sarebbe stata realizzata da Google favorendo illegittimamente un altro suo servizio (Google Shopping, il proprio comparatore di prodotti) a discapito dei comparatori di prodotti concorrenti; impostazione, questa, oggi formalmente recepita dalla nuova disciplina unionale in tema di mercati digitali, il DMA (Digital Markets Act).
Le premesse
Già attivo tramite il proprio motore di ricerca, prodotto di punta della compagnia, nel 2004 Google ha fatto ingresso nell’adiacente mercato dei comparatori di prezzi con il servizio allora denominato “Froogle” – oggi Google Shopping. Il mercato dei comparatori- che selezionano offerte di prodotti dei retailers online consentendo all’utente di confrontarle- al momento dell’ingresso di Google era già popolato da diversi players con una posizione consolidata.
È nel 2008 che Google, a fronte degli scarsi risultati raggiunti (“Froogle simply doesn’t work”, si legge in un documento interno[1]), avrebbe optato per un cambio di strategia: ricorrendo alla posizione dominante raggiunta nel mercato dei motori di ricerca, vi avrebbe fatto leva per rafforzare quella detenuta nel mercato dei comparatori di prezzi.
I risultati raggiunti da Google Shopping e il successo che ne è derivato non sarebbero così riconducibili ad un criterio di meritevolezza, ossia alla qualità dell’offerta commerciale – e, per tali motivi, apprezzata e scientemente scelta dai consumatori, [2] (la cd. competition on the merits,) – ma piuttosto allo sfruttamento della posizione dominante detenuta in un mercato vicino, quello dei motori di ricerca. Su queste basi si innesta l’indagine intrapresa dalla Commissione nel 2010.
Le indagini della Commissione e la prima sanzione
Nel corso delle sue indagini la Commissione, tramite analisi di mercato, documenti forniti da Google e da suoi concorrenti e risultati di ricerca provenienti da Google stesso, è giunta a ritenere che Google avesse violato l’art. 102 TFUE per abuso di posizione dominante.
L’art. 102 TFUE non vieta la mera detenzione di una posizione dominante (condizione considerata – in teoria – lecita), ma il suo sfruttamento abusivo nel mercato interno o su una parte sostanziale dello stesso. Tuttavia – come già visto in casi analoghi[3]– la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea si è discostata da questa ricostruzione “tradizionale”, facendo gravare sulle imprese titolari di posizione dominante una c.d. special responsibility. Si tratta del dovere di astenersi da condotte che, se poste in essere da attori particolarmente influenti quali imprese in posizione dominante, creerebbero ostacoli all’esercizio di una concorrenza effettiva. Questa ricostruzione, che tiene sotto stretta osservazione la mera detenzione, rappresenta il punto di partenza per la ricostruzione, tra gli altri, anche del caso Google Shopping.
La Commissione prende le mosse dall’analisi della posizione di Google nell’ambito dei motori di ricerca. Si osserva come Google, all’interno dello spazio economico europeo, sia dominante in ogni mercato nazionale della ricerca generale su internet, eccedendo nella maggior parte dei casi la quota del 90% del mercato. In sostanza, non solo si tratterebbe di una super-dominanza nel mercato dei motori di ricerca, ma altresì di una posizione ben consolidata nel tempo, se si considera che in quasi tutti i paesi interessati – ad eccezione della sola Repubblica Ceca – Google è diventato dominante a partire già dal 2008[4].
In conseguenza di ciò, il mercato dei motori di ricerca sarebbe stato caratterizzato da importanti barriere all’entrata generate dal cd. effetto di rete. In sostanza, Google renderebbe difficoltoso – o comunque estremamente gravoso – per le “nuove” imprese concorrenti fare ingresso nel relativo mercato. Come spiegato dalla Commissione, il massiccio numero di utenti che fa ricorso al motore di ricerca di Google lo rende più attrattivo, allo stesso tempo, anche per gli inserzionisti che puntano a pubblicizzare prodotti e servizi. In base a questo meccanismo, Google potrebbe usare i profitti così generati e investirli per attrarre un numero maggiore di consumatori: nel caso di un motore di ricerca, è proprio l’ingente quantità di dati raccolta tra i gli utenti che gli consente di migliorare le proprie prestazioni.
Ritenuta sussistente la dominanza di Google nel mercato dei motori di ricerca, la Commissione ha proceduto ad analizzarne l’attività nel vicino mercato dei comparatori di prezzi. La condotta contestata a Google consiste nell’aver sistematicamente fornito una posizione privilegiata al proprio servizio di comparazione dei prezzi in danno degli analoghi servizi forniti dai concorrenti: in sostanza, quando l’utente “googla” un prodotto, Google tenderebbe a favorire volutamente come risultato della ricerca il proprio servizio di comparazione- mostrando in via privilegiata il comparatore Google Shopping- a discapito dei comparatori di prezzi dei concorrenti.
Questo risultato sarebbe intenzionalmente ricercato e ottenuto da Google tramite una pratica di “retrocessione” dei comparatori concorrenti tra i suoi risultati di ricerca: così facendo, i comparatori concorrenti sarebbero sistematicamente “relegati” a pagine di risultati successive alla prima (in base alle evidenze reperite dalla Commissione, addirittura mai prima della quarta pagina) con un consistente svantaggio concorrenziale.
Tale svantaggio risulta ancora più marcato se alla pratica di retrocessione si abbina un’analisi delle condotte del consumatore. Si è infatti osservato, all’esito di analisi e sondaggi, che il consumatore medio tende a fermarsi – o comunque a dare molta più attenzione – ai primi risultati della prima pagina rispetto ai risultati in fondo alla prima pagina o presenti nelle pagine successive. Tale effetto sarebbe ancora più accentuato nel caso di ricerca (come spesso avviene) tramite smartphone, date le più piccole dimensioni dello schermo.
Inoltre, secondo la Commissione, l’osservazione secondo cui i primi risultati sarebbero anche i più pertinenti non rappresenta una valida giustificazione, poiché spostando quello stesso risultato dalla prima alla terza pagina si ridurrebbe il numero dei click del 50%.
Quello che la Commissione ha contestato a Google è, in sostanza, la pratica nota come leveraging, in particolare sotto forma di self-preferencing. In generale, è presupposto del leveraging la detenzione di una posizione dominante nell’ambito di un mercato: l’impresa che fa leveraging sfrutta tale posizione dominante- facendovi per l’appunto leva- al fine di ottenere vantaggi in un altro mercato, in qualche modo connesso al primo in cui, al contrario, l’impresa non ha una posizione dominante.
Nel caso concreto, Google avrebbe sfruttato la sua posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca per ottenere vantaggi in un altro mercato, quello dei comparatori di prezzi in cui opera tramite Google Shopping. Infatti è stato proprio il traffico generato da Google come motore di ricerca a rilevare al momento della valutazione della sua condotta nell’ambito dell’attività di comparazione di prezzi.
La Commissione ha infatti osservato che il successo dell’attività di comparazione si fonda in larga misura sulle quantità di traffico prodotte: come un maggior traffico attrae più inserzionisti nel mercato dei motori di ricerca, allo stesso modo attirerà più retailers nel mercato dei comparatori di prezzi: effetto attrattivo che Google avrebbe prodotto, per l’appunto, tramite il leveraging.
Per essere più specifici, la particolare forma di leveraging realizzata da Google integrerebbe il cd. self- preferencing, pratica realizzata soprattutto dai i giganti del digitale che consiste nel favorire l’offerta dei propri prodotti a discapito di quella dei concorrenti.
La rilevanza di questo tipo di condotte deriva dalla loro idoneità a rafforzare ulteriormente la posizione già dominante delle imprese coinvolte, con la produzione per lo più di effetti escludenti nei confronti dei concorrenti. Alle imprese che operano in concorrenza con quella che realizza il self-preferencing, dunque, sarebbe impedito o comunque reso più complesso – se non estremamente gravoso – l’ingresso, la permanenza o la crescita all’interno del mercato di riferimento.
La Commissione, ritenendo che Google abbia così posto in essere pratiche illegali e realizzato distorsioni della concorrenza in danno dei concorrenti, ha previsto una sanzione di circa 2,4 miliardi di Euro.
Il giudizio davanti alla CGUE
Google, non condividendo le conclusioni della Commissione, ha impugnato la decisione dinanzi al Tribunale, che però, come anticipato, ha confermato la sanzione applicata dalla Commissione, osservando come la violazione dell’art. 102 realizzata da Google – e la sua idoneità ad incidere negativamente sulla concorrenza – si fondi sulla combinazione tra tre fattori[5].
Come primo elemento rileva la consistenza del leveraging realizzato da Google: l’entità del traffico generato da Google nel mercato dei motori di ricerca generali e l’influenza che questo ha avuto sul mercato dei comparatori di prodotti.
Il secondo fattore consiste nel fatto che Google, servendosi proprio della sua dominanza come motore di ricerca, abbia “deviato” – dai comparatori di prezzi concorrenti verso Google Shopping (il proprio comparatore di prezzi)-un insieme di dati che per natura e proporzioni non potevano essere replicati dai concorrenti di Google Shopping.
Come terzo elemento, viene in rilievo la condotta del consumatore medio, che di solito non approfondisce l’analisi dei risultati delle sue ricerche ma, tendenzialmente, si ferma ai primi risultati che nel caso concreto sarebbero tutti riferibili a Google Shopping: di qui il vantaggio concorrenziale rispetto agli altri comparatori di prezzi.
Il Tribunale ha poi analizzato le modalità di svolgimento dell’attività di Google. Si è infatti osservato che Google, nella funzione di ricerca generale, dovrebbe operare come un’“infrastruttura aperta”, consentendo all’utente che “googla” un determinato di avere accesso a diversi comparatori di prezzi.
Al contrario Google, al fine di favorire il proprio comparatore di prezzi, avrebbe alterato la “vocazione universale” tipica del motore di ricerca, favorendo esclusivamente sé stesso e promuovendo, come esito della “ricerca su Google” solo un tipo di risultati specializzati, ossia i propri, indipendentemente dal fatto che fossero o meno migliori rispetto ai risultati dei concorrenti.
Il Tribunale ha poi proceduto ad analizzare la natura del servizio di ricerca generale fornito da Google. Si è ritenuto, da un lato, che l’attività del motore di ricerca si avvicini molto, per le caratteristiche che ricopre nel caso concreto, a un’“essential facility”. Dall’altro – non senza contraddizioni – il Tribunale ha sostenuto però che l’abuso in oggetto non appartiene alla categoria del “rifiuto di fornitura”, qualificandolo invece come un trattamento differenziato che i concorrenti di Google subirebbero rispetto a Google Shopping.
Sul punto, Google aveva infatti contestato le posizioni della Commissione, che aveva qualificato l’abuso di posizione dominante come forma di violazione di un “duty to supply”, ossia un obbligo, in capo a Google (come motore di ricerca) di consentire ai comparatori di prezzi concorrenti di accedere al suo servizio, fornendo loro accesso alle boxes in cima ai suoi risultati di ricerca generale – nello stesso modo in cui è consentito ai risultati di Google Shopping. Tuttavia, tale obbligo di rendere i propri “technologies and designs” accessibili ai concorrenti può essere fatto gravare sull’operatore solo quando il relativo servizio sia da qualificarsi come essential facility in base a dei precisi requisiti individuati dalla giurisprudenza della Corte: secondo Google, tali requisiti non sussisterebbero nel suo caso.
A sostegno della propria tesi, Google ha richiamato il caso Bronner[6], punto di riferimento nella ricostruzione della c.d. essential facilities doctrine. In questo caso si è disposto che non costituisce abuso di posizione dominante il fatto che un’impresa dominante – che gestisce l’unico sistema di recapito del prodotto su scala nazionale esistente nello stesso Stato membro – neghi l’accesso a tale sistema, contro un adeguato corrispettivo, al concorrente che non sia in grado di gestire un proprio sistema di distribuzione in modo autonomo ed economicamente conveniente.
Come statuito dalla Corte, difatti, affinché una simile condotta integri un abuso è necessario non solo che il diniego sia in grado di eliminare del tutto la concorrenza sul mercato di riferimento e che non sia obiettivamente giustificabile, ma richiede altresì un requisito di indispensabilità, ossia che l’accesso sia assolutamente necessario per promuovere la concorrenza nel mercato di riferimento: non deve cioè esistere alcun modo […] che possa realmente o potenzialmente sostituirsi al [predetto] sistema […], tramite il quale l’operatore dominante svolge la propria attività.
Questi requisiti non sono soddisfatti quando esistono- e sono in concreto utilizzate- modalità alternative, anche se meno vantaggiose, per svolgere la medesima attività o fornire lo stesso servizio. In sostanza, il rifiuto integra abuso ex art. 102 soltanto in presenza di “ostacoli di natura tecnica, normativa o anche economica capaci di rendere impossibile o straordinariamente difficile” ai concorrenti replicare un proprio ed autonomo sistema finalizzato a svolgere la medesima attività.
Google non ha ritenuto di rientrare in questa casistica – e quindi nell’ambito di applicazione dell’art. 102 TFUE- poiché mancherebbe il requisito di indispensabilità. La Commissione non avrebbe dimostrato che l’accesso ai servizi di Google fosse indispensabile ai concorrenti nel mercato dei comparatori di prezzi e che – senza tale accesso – tutta la concorrenza effettiva in quel mercato sarebbe stata eliminata. Secondo Google infatti la Commissione si sarebbe limitata a sostenere che il traffico generato dallo stesso come motore di ricerca generale sia sì importante per rendere i concorrenti in grado di competere nell’ambito della comparazione dei prezzi, ma senza mai dimostrarne l’indispensabilità. In pratica, le altre fonti di traffico sarebbero soltanto “meno efficaci” ai fini della concorrenza nel mercato dei comparatori, ma non anche completamente inadeguate o addirittura inesistenti- come richiederebbe la tesi del refusal to supply.
Il Tribunale non ha però ritenuto di condividere la ricostruzione di Google, sostenendo che il caso Bronner non si applichi al caso di specie. La pronuncia infatti ha, da un lato, ritenuto che l’abuso perpetrato da Google non sia da ricondursi ad un “refusal to supply”; dall’altro, per giustificare la qualificazione della condotta di Google come violazione ex art. 102, ha fatto ricorso ad una categoria diversa ed autonoma di abuso, quella del c.d. trattamento differenziato. In sostanza Google non avrebbe operato tramite un meccanismo di rifiuto ma, al contrario, tramite una condotta proattiva di “favoritismo” a vantaggio del proprio servizio e a discapito di quello dei concorrenti.
In conclusione, il Tribunale ha ritenuto sussistenti gli effetti anti-competitivi della condotta di Google e sussistente la fattispecie di abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE, confermando in massima parte la sanzione applicata dalla Commissione. Il Tribunale ha infatti ritenuto sufficiente la dimostrazione, da parte della Commissione, che il traffico dei comparatori di prodotti concorrenti generato dalle pagine di risultati generali di Google “rappresentava una quota rilevante del loro traffico totale” oltre a risultare effettivamente non sostituibile tramite diverse fonti di traffico (come la pubblicità). Ciò avrebbe potuto condurre, potenzialmente, ad una scomparsa dei comparatori di prodotti concorrenti, oltre che a riduzioni dell’innovazione e ad una minore scelta per i consumatori. Il tutto, anche indipendentemente dall’identificazione di “effetti reali di esclusione dai mercati” che la Commissione, come sostenuto dal Tribunale, non era tenuta a svolgere.
Conclusioni
La pronuncia conferma l’impostazione (che era già stata assunta dalla giurisprudenza europea in altre circostanze, si veda il caso Amazon e ad oggi, come si dirà, oggetto di formale recepimento) che configura pratiche come il self-preferencing come autonome fattispecie di abuso di posizione dominante, ampliando di fatto la rosa di condotte riconducibili all’ambito di applicazione dell’art. 102 TFUE. Il percorso argomentativo seguito dal Tribunale non sembra, però, privo di contraddizioni.
Come visto il Tribunale, da un lato, pone a fondamento della propria decisione l’importanza del traffico generato da Google come motore di ricerca ai fini della competitività nel contiguo mercato dei comparatori di prezzi, sottolineando inoltre la non sostituibilità di questo stesso traffico: in sostanza, qualifica il servizio di ricerca di Google- seppur implicitamente- come una essential facility.
Dall’altro lato, ha tuttavia ritenuto di poter non ricondurre la condotta di Google al cd. Bronner test, che governa il rifiuto di fornitura con riguardo a una essential facility. Nonostante ciò, il Tribunale non ha però, come è stato osservato[7], elaborato alcun legal test alternativo dimostri la tesi per cui una pratica di self-preferencing, tenuta da un’impresa in posizione dominante, integri una violazione dell’art. 102 TFUE.
Il tutto, a discapito della necessità di certezza giuridica. È pacifico che l’art. 102 abbia- appositamente- una struttura aperta e che quindi l’elenco di fattispecie abusive indicate sia solo esemplificativo, consentendo alla norma di inglobare anche fattispecie di nuova creazione. Dall’altro lato, tuttavia, è chiaro che la pronuncia non sia in grado di delineare con precisione la “nuova” fattispecie abusiva di self-preferencing. In sostanza, non definisce entro quali confini l’impresa sia libera di modellare la propria attività e di riservare ai propri prodotti e servizi un trattamento favorevole (come è logico che sia) senza incorrere in una violazione del diritto della concorrenza[8].
Ciò conduce anche ad una riflessione sull’importanza di un effects-test con riguardo a questa tipologia di condotte, seppur tenute da un’impresa in posizione dominante; ossia sull’opportunità di procedere caso per caso, ad un’analisi in concreto degli effetti che una condotta, in astratto legittima, come il favorire sè stessi in luogo dei prodotti e dei servizi dei concorrenti, possa produrre, e quindi del suo effettivo impatto anticoncorrenziale nei mercati di riferimento.
Tuttavia, le recenti evoluzioni a livello dell’Unione europea sembrano condurre verso un’altra direzione. Questo approccio interpretativo è stato infatti recepito dal DMA (Digital Markets Act), recente regolamento europeo che mira ad un controllo più efficace del mondo del digitale tramite una più rigida disciplina dell’attività dei cd. gatekeepers. Si tratta di quei (pochi) giganti del digitale in grado di connettere un grande numero di utenti business ad altrettanti utenti finali (si pensi, per l’appunto, ad un motore di ricerca) e che, di conseguenza, sono dotati di un consistente potere economico.
Nel suo suo testo definitivo il DMA prevede, tra gli svariati obblighi e divieti gravanti sui gatekeepers, quello di garantire un trattamento più favorevole, in termini di posizionamento e relativi indicizzazione e crawling, ai servizi e prodotti offerti dal gatekeeper stesso rispetto a servizi o prodotti analoghi di terzi.
In sostanza la nuova disciplina approda ad una ricostruzione del self-preferencing come espressamente vietato cristallizzando – senza precedenti – una condotta finora rimasta soggetta alla discrezionalità interpretativa della giurisprudenza.
[1] Antitrust: Commission fines Google €2.42 billion for abusing dominance as search engine by giving illegal advantage to own comparison shopping service Factsheet https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/es/MEMO_17_1785
[2]M. Libertini, Abuso del diritto e abuso di posizione dominante , disponibile qui http://www.rivistaodc.eu/abuso-del-diritto-e-abuso-di-posizione-dominante
[3] Amazon e l’uso di sensitive data: l’UE contesta l’abuso di posizione dominante, https://www.iusinitinere.it/amazon-e-luso-di-sensitive-data-lue-contesta-labuso-di-posizione-dominante-34428
[4] Antitrust: Commission fines Google €2.42 billion for abusing dominance […]. Ibid.
[5] Tribunale dell’Unione europea, Comunicato stampa n. 197/21, 10 novembre 2021, Sentenza nella causa T-612/17
Google e Alphabet / Commissione (Google Shopping)
[6] Causa C-7/97, Sentenza della Corte del 26 novembre 1998, Oscar Bronner GmbH & Co. KG contro Mediaprint Zeitungs […]
[7] E. Deutscher, Google Shopping and the Quest for a Legal Test for Self-preferencing Under Article 102 TFEU, https://www.europeanpapers.eu/en/europeanforum/google-shopping-quest-for-legal-test-for-self-preferencing
[8] Ibid.

Marta Desantis, laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi del Sannio (con votazione di 110/110 e lode) con tesi in Comparazione e cultura giuridica dal titolo “Il risarcimento del danno Antitrust: analisi comparata tra il sistema europeo e statunitense”. Praticante avvocato. Collaboratore dell’area di diritto internazionale.