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Grecia: l’emblematico caso della crisi dei debiti sovrani UE

Lo scorso 20 agosto, la Grecia è uscita dalla fase di commissariamento dei programmi sottoscritti con i suoi creditori. Nella realtà, il nuovo corso sembra essere più di natura psicologica e formale che sostanziale: il salvataggio, infatti, è comunque condizionato da un programma di austerità e di riforme strutturali.

Per comprendere i limiti della ritrovata autonomia di politica economica, è necessario indagare le cause del caso greco nonché approfondire l’aspetto sui generis dell’Unione Monetaria Europea (UME). La crisi politica inizia con l’annuncio, nell’ottobre 2009, dell’allora premier socialista Papandreou di rivedere le stime sul deficit pubblico dal 6% al 12,7%. Nella successiva primavera, il debito di Atene avrebbe toccato quota 350 miliardi di euro. La Grecia, impossibilitata a ricorrere al rifinanziamento del debito tramite mercati finanziari, avrebbe chiesto un aiuto internazionale. La preoccupazione per la sostenibilità del debito di Atene ha innescato un acceso dibattito sull’effettiva possibilità di intervenire con un salvataggio, nei limiti dei Trattati Europei, o di avviare una Grexit e quindi un default di fatto. Lo spettro di un’uscita greca dall’Eurozona è stato scongiurato con un piano di aiuti eccezionali. Infatti, dal 2010 al 2018, la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario internazionale – la cosiddetta Troika – sono intervenuti attraverso vari strumenti – European Stability Mechanism, Extended Fund Facility, European Financial Stability Facility e prestiti bilaterali – per un esborso totale di circa 288 miliardi di euro, divisi in tre diversi memoranda. A tali aiuti corrispondono una serie di impegni di politica economica del governo greco. Le riforme strutturali miravano ad aumentare la competitività e la crescita della Grecia, mantenendo la stabilità del suo sistema finanziario. La manovra si sarebbe dovuta ottenere attraverso il riallineamento dei salari alla produttività, ciò che avrebbe comportato una diminuzione del costo unitario del lavoro di circa 15 punti percentuali.

Inoltre, il massiccio piano di di privatizzazioni avrebbe liberato nuovi investimenti e guadagni di produttività, sostenendo crescita e occupazione. Dal punto di vista strutturale, si prevedeva un progressivo aggiustamento del rapporto tra debito e Pil – rapporto tendente al 120% nel 2020 – nonché il raggiungimento di una serie di avanzi primari del 3,5% per 5 anni e un tasso costante di 2,2% fino al 2060. Corollario di tali politiche sono i tagli alla spesa pubblica e la riforma del sistema pensionistico. La concezione secondo cui un elevato debito causi effetti negativi sull’economia nazionale è una questione antica. Specialmente in Europa, una parte della letteratura economica di stampo ordoliberista sostiene che un elevato debito ostacoli la crescita[1].  Tuttavia, il principale problema nell’Eurozona riguarda la particolare natura del debito pubblico. Infatti, i Paesi aderenti all’Euro emettono debiti in una valuta non controllata dalla Banche Centrali nazionali. Quindi, manca una garanzia implicita sulla sostenibilità del debito poiché non esiste un prestatore di ultima istanza. A tal riguardo, bisogna ricordare che la Banca Centrale Europea è intervenuta con misure di politica monetaria non convenzionali: il Quantative Easing[2]. Si tratta, comunque, di una politica temporanea: a quel punto il problema della scissione tra politiche fiscali e responsabilità della moneta si riproporrà al centro del dibatto dell’UEM.

In effetti, il caso greco è emblematico. Il piano di aggiustamento strutturale richiesto per ripagare i creditori europei e internazionali comporta tagli al settore pubblico sia in termini di produzione e di servizi che probabili aumenti delle imposte, specie quelle indirette. Così operando, si riduce la domanda aggregata, diminuendo le importazioni. Quindi bisogna sperare in condizioni internazionali favorevoli per garantire un buon regime di esportazioni per avere comunque una bilancia dei pagamenti in attivo. Tale avanzo potrebbe ancora generarsi per la diminuzione dei salari e dei prezzi: la cosiddetta svalutazione interna poiché si diviene più competitivi nel mercato globale e si tratterebbe dell’unica possibile nel caso in cui non si possa determinare la svalutazione esterna. Oltre all’avanzo commerciale, occorre registrare anche un miglioramento dei saldi per gli interessi sul debito, su cui è importante la fiducia degli investitori internazionali. In un contesto mondiale in crescita, è possibile supporre che il paese indebitato con l’estero migliori le proprie esportazioni e si generi il meccanismo descritto. Nel caso di una crisi economica internazionale è invece difficile immaginare l’incremento di esportazioni e la restituzione del debito. In questo caso può venire in aiuto il Fondo Monetario Internazionale, concedendo un prestito con il quale restituire il debito alle banche straniere creditrici, eventualmente ristrutturando il debito attraverso un differimento della scadenza e una riduzione del tasso di interesse. Se il Paese debitore non può svalutare la moneta, ad esempio perché non è solo sua, allora al prestito del Fondo e alla ristrutturazione, se non sufficienti, si aggiunge una politica di austerità di cui si è accennato. Se tutte queste politiche economiche risultano inefficaci, allora non resta che il default.

Il rischio default della Grecia ha innescato una serie di dibattiti per delle ipotesi di ristrutturazione del debito a livello europeo. Infatti, la difficoltà a ridurre i debiti sovrani nell’Eurozona in modi diversi da quello del progressivo accumulo nel tempo di avanzi primari e, almeno in parte in certa letteratura economica, l’insoddisfazione delle politiche di austerità fiscale spiegano l’attenzione crescente per le ipotesi di ristrutturazione del debito. La discussione ha diverse anime. L’opinione dell’ortodossia liberista guarda a questa prospettiva con l’intenzione di sostituire alle regole una più rigida disciplina di mercato. Si tratterebbe di applicare agli stati sovrani un meccanismo per la risoluzione delle crisi della stessa natura di quello istituito per le banche con l’unione bancaria. Invece, la letteratura ancora legata a una tradizione progressista, che vede con favore l’intervento pubblico nell’economia, considera comunque una grande opportunità quella di alleggerire gli stati che sono più appesantiti dal debito aprendo un maggiore spazio alle politiche fiscali attive e alle politiche sociali. Nella formulazione delle proposte concrete, la prima impostazione sta prevalendo sulla seconda.

Bisogna distinguere, nel dibattito, due filoni. Da una parte si discute la questione dell’abbattimento dei debiti in essere, quelli ereditati dal passato mentre dall’altra si progettano regimi permanenti di insolvenza per gli stati sovrani. Il primo gruppo si riferisce al passato – debito ereditato –  mentre il secondo al futuro, cioè alle nuove emissioni di titoli. La distinzione è ritenuta fondamentale perché una procedura di insolvenza per il debito in essere è considerata una modifica, inaccettabile sul piano etico, dei termini contrattuali iniziali, mentre per le nuove emissioni, il contratto conterrebbe clausole che prevedano la procedura di insolvenza. Inoltre, il problema di una riduzione dei debiti in essere può essere affrontato nell’ambito dell’attuale quadro giuridico e istituzionale dell’UEM, mentre la creazione di un meccanismo permanente per affrontare situazioni di crisi sovrane richiede la modifica dei trattati.

Infine, i progetti relativi al debito esistente sono costruiti sulla premessa di evitare il coinvolgimento del settore privato perché considerato inaccettabile per motivi etici, e molto rischioso per la stabilità finanziaria.

Fonti:

A cura di Marani U., Di Maio A., Politiche economiche e crisi internazionali. Uno sguardo sull’Europa, l’Asino d’oro, 2017.

http://www.oecd.org/greece/

IMF, Greece Country Report 2017

[1] Si ricordino i parametri del Patto di Stabilità e Crescita: rapporto deficit/PIL <3%; rapporto debito/PIL <60%.

[2] Operazione di alleggerimento quantitativo  per acquistare titoli finanziari delle banche e titoli di Stato a breve scadenza con aste di liquidità sul mercato secondario.

Marco Di Domenico

Dottore in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Appassionato di politica ed economia internazionale.

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