venerdì, Marzo 29, 2024
Uncategorized

Greenwashing: quando l’eco-friendly diventa un problema

A poche settimane dallo sciopero globale per l’ambiente del 15 marzo, l’emergenza climatica continua ad attirare nuova attenzione e a generare nuovo impegno da parte di un numero sempre maggiore di attivisti, con cori rivolti per la prima volta a istituzioni, politici e grandi multinazionali prima ancora che ai semplici cittadini.

Fino ad ora gli sforzi si erano concentrati principalmente su questi ultimi, cittadini-consumatori, facendo acquistare loro consapevolezza non soltanto circa gli aspetti più “palesi” dell’emergenza ambientale, quale la crisi delle risorse naturali e il problema dello smaltimento dei rifiuti, ma anche aumentando l’informazione su temi quali gli aspetti etici e sociali legati alla produzione e all’estrazione di materie prime.

Si tratta però di una consapevolezza che non è intervenuta soltanto a supporto dell’ambiente, promuovendo un’ottica globale di sostenibilità ambientale, ma che ha indubbiamente favorito anche tutte le realtà commerciali e di retail che hanno trasformato il concetto di tutela ambientale in una variabile strategica per prevalere sulla concorrenza, puntando sempre di più su prodotti “green”.

Secondo uno studio realizzato da McKinsey e focalizzato sui department store di tutto il mondo (dal titolo “Sustainability matters, but does it sell?”), circa il 70% dei consumatori preferisce scegliere un prodotto a ridotto impatto ambientale rispetto a uno non ecosostenibile, pur vedendo il prezzo salire del 5-10% rispetto alla media dello stesso prodotto non etichettato come “eco-friendly”.

Sono i dati a confermare che la tematica legata all’ambiente è destinata ad avere un’influenza sempre maggiore sulla popolarità dei brand e sulle strategie di mercato, se è vero che nei prossimi cinque anni la percentuale di prodotti ecosostenibili venduti nei negozi multimarca a livello globale è destinata a salire dal 23% al 42%.[1]

Questa tendenza ha portato negli ultimi anni allo sviluppo di numerose strategie di “green marketing”, finalizzate a puntare l’attenzione del consumatore sulle singole qualità ambientaliste del prodotto: contenuto di materiale riciclato, non tossicità, biodegradabilità, assenza di sostanze dannose per l’ambiente, non testato su animali ecc..

Dal rapidissimo successo di questo nuovo approccio si è giunti ben presto alla sua degenerazione, con l’avanzata sempre più dilagante del fenomeno del cosiddetto “greenwashing” (da green, “verde”, e whitewashing, “riverniciare per coprire le imperfezioni”).

Il termine greenwashing fu coniato a metà degli anni Ottanta in seguito all’eclatante caso della compagnia petrolifera Chevron, che per convincere i propri clienti del suo valore aggiunto rispetto alla concorrenza – quello dell’attenzione verso la questione ambientale – aveva commissionato una serie di costose pubblicità televisive che suggerivano come i dipendenti della compagnia fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe ecc.[2] La campagna pubblicitaria riscosse un notevole successo, tanto da valere a Chevron più di un premio e da permettergli di diventare un caso di studio della Harvard Business School.

La falsità (o quantomeno l’inesattezza) del messaggio che la pubblicità puntava a trasmettere fu ben presto smascherata dagli ambientalisti,[3] che fecero del caso Chevron l’esempio principe del fenomeno greenwashing. Chevron divenne così la prima di una lunga serie di aziende, industrie od organizzazioni che si appropriano ingiustificatamente di virtù ambientaliste, finalizzate alla creazione di un’immagine che metta in risalto le attività positive e distolga l’attenzione dagli impatti negativi sul pianeta.

Oggi, il fenomeno del greenwashing si concretizza principalmente nel riportare diciture di valenza ambientale su prodotti, imballaggi o materiali pubblicitari che si rivelano essere ingannevoli perché non verificabili o poco chiare, tanto da essere soggette ad errori di interpretazione (ne sono un esempio tutte quelle asserzioni vaghe come “amico della natura” o “sicuro per l’ambiente”). Ancora, spesso vengono esagerati o messi in risalto aspetti positivi della produzione che però sono già di per sé resi obbligatori dalla legge, oppure si esaltano qualità “green” per nascondere la negatività dell’effettivo impatto ambientale causato dall’azienda.

In alcuni Paesi queste affermazioni di tipo ingannevole sono espressamente proibite dalla legge (è il caso dell’Australia)[4], oppure sono fortemente scoraggiate dall’amministrazione, grazie all’attività di agenzia o commissioni che, attraverso la pubblicazione di linee guida, promuovono la salvaguardia della concorrenza e dei consumatori (come accade ad esempio in Canada, Norvegia e Stati Uniti).

Negli Stati Uniti queste linee guida sono ad applicazione volontaria, ma attribuiscono alla FTC (Federal Trade Commission) il diritto di avviare un’azione giudiziaria contro chi utilizzi affermazioni false o improprie per promuovere i propri prodotti. Nel 2013 la FTC ha avviato sei azioni giudiziarie contro diverse società, tutte colpevoli di aver presentato come “biodegradabili” i propri imballaggi prodotti in plastica con l’utilizzo di additivi.

Un caso simile si era verificato nel 2012 in Italia, quando la Fonti di Vinadio S.P.A., proprietaria del marchio “Sant’Anna”, era stata condannata al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 30.000 euro per la pubblicizzazione della bottiglia in plastica biodegradabile “BioBottle”. Secondo il provvedimento dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, le caratteristiche di sostenibilità riportate sulla bottiglietta erano “vantate con enfasi eccessiva rispetto alla reale portata dell’impegno ambientale della società” e non trovavano riscontro nei dati forniti. In particolare, l’AGCM concordava con il segnalante nell’evidenziare come dire che “650 milioni di bottiglie di Sant’Anna Bio Bottle permettono un risparmio di 176.800 barili di petrolio” era un’affermazione ingannevole considerando che 650 milioni era l’ammontare totale delle bottiglie prodotte in un anno dalla società, e che di questo totale le bottiglie in bioplastica rappresentavano solo lo 0,2%.

Ma in base a cosa si era giunti a questa sanzione? Fino al 2014 in Italia non esisteva alcun chiaro riferimento legislativo al fenomeno del greenwashing, ma le eventuali dichiarazioni false o inesatte prodotte allo scopo di incrementare le vendite erano (e sono ancora) soggette al controllo e alle sanzioni dell’Antitrust. Si parla in questo caso della disciplina della “pubblicità ingannevole”, introdotta per la prima volta nel 1992 in attuazione (tardiva) della direttiva europea 84/450/CE e poi inglobata nel Codice del Consumo nel capo dedicato alle pratiche commerciali scorrette (artt. 20-23).

L’interpretazione della definizione di pubblicità ingannevole offerta dal testo del 1992 (e rimasta immutata con il nuovo d.lgs 145/07) non lascia alcuno spazio a requisiti soggettivi relativi al comportamento dell’operatore pubblicitario o dello stesso produttore, ma basa il giudizio di ingannevolezza su qualunque tratto oggettivo che possa verosimilmente pregiudicare il comportamento economico del consumatore o ledere un concorrente (seguendo così il principio della materiality richiesto dal sistema FTC negli Stati Uniti).[5]

Per quanto riguarda il fenomeno del greenwashing nello specifico, nel marzo 2014 l’IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria) ha pubblicato la 58esima edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che al nuovo art. 12 propone un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale:

“La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono.”

Al di là del controllo esercitato da IAP e Antitrust, ad orientare la scelta di utenti e consumatori intervengono spesso strumenti di marcatura ed etichettatura che evidenziano l’aderenza delle aziende produttive a specifici regimi di risparmio energetico e tutela ambientale.

Questi sistemi di riconoscimento, noti come certificazioni ambientali, si distinguono principalmente in certificazioni di processo e certificazioni di prodotto.

Nella prima categoria rientrano le certificazioni secondo gli standard EMAS e ISO 140001.

L’EMAS è uno standard europeo ora disciplinato dal regolamento 2009/1221/CE e prevede una certificazione gestita da un’autorità pubblica (Comitato Ecolabel-Ecoaudit) previa pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di indicatori quali il consumi, emissioni, produzione di rifiuti e scarichi industriali ecc.

L’ISO 140001 è invece uno standard pubblicato nel 1996 dall’International Standardisation Organisation. È un riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione che attesti l’introduzione di un sistema per migliorare la performance ambientale e il controllo degli impatti di un’organizzazione. Questa seconda certificazione risulta meno impegnativa e vincolante per le organizzazioni rispetto all’EMAS, in quanto non richiede né l’analisi ambientale iniziale né l’invio di una dichiarazione ambientale convalidata.

I marchi ecologici (detti anche etichette ambientali o eco-etichette), sono invece un sistema di etichettatura per prodotti di consumo, imballaggi e servizi, finalizzati ad orientare la scelta del consumatore verso quei beni che puntano a minimizzare il proprio impatto ambientale lungo tutto il ciclo produttivo. Alcuni marchi sono obbligatori per legge (come il marchio CE per l’Unione europea, l’etichetta energetica per gli elettrodomestici o i contrassegni per prodotti tossici o pericolosi) e indicano la conformità a standard definiti e certificati in base alla normativa. Altri invece vengono ottenuti in seguito all’attivazione volontaria dell’istruttoria da parte dell’azienda produttrice, finalizzati ad essere annoverati fra le “eccellenze ambientali” a seguito di un rigoroso controllo sul rispetto della normativa ambientale e di quella specifica del settore di appartenenza. Le eco-etichette di natura volontaria sono poi divisibili in:

  • Etichette ambientali di tipo I: regolamentate dallo standard ISO 14024, sono assegnati da organismi indipendenti pubblici o privati secondo schemi di operatività trasparenti e predeterminati e tengono conto di tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto (dall’approvvigionamento delle materie prime allo smaltimento)
  • Etichette ambientali di tipo II (o autodichiarazioni ambientali): regolamentate dallo standard ISO 14021. Sono in genere riferiti a singole caratteristiche o fasi produttive del prodotto e, pur non essendo assegnate da organismi terzi, devono rispettare tutta una serie di requisiti di attendibilità e serietà nei riguardi dei consumatori e della concorrenza (devono essere appunto non ingannevoli, specifiche e verificabili).
  • Etichette ambientali di tipo III (o Dichiarazioni Ambientali di Prodotto): regolamentate dallo standard ISO 14025, le DAP sono documenti che raccolgono tutte le informazioni relative alla prestazione ambientale dell’intero ciclo produttivo, con l’obiettivo di fornire al consumatore gli strumenti e i dati necessari ad effettuare un confronto fra servizi e prodotti funzionalmente equivalenti, orientando la sua scelta in un’ottica di sostenibilità.

A questi standard internazionali di etichettatura ecologica si aggiunge poi l’Ecolabel, l’unica etichetta volontaria di tipo I riconosciuta dall’Unione europea.[6] Secondo il regolamento 2010/66/CE, intervenuto a regolarne la disciplina, l’Ecolabel deve essere attribuita in base a criteri ecologici che rispettino il principio di gestione ambientale condivisa, fissati quindi da una commissione che coinvolga tutte le parti interessate: imprese, associazioni dei consumatori, associazioni ambientali. L’Ecolabel oggi può essere assegnato a 21 gruppi di prodotti, che corrispondono a 6 settori produttivi e ad un’attività di servizi (quella della ricettività turistica).

La lista prosegue poi con decine di altre eco-etichette, che possono caratterizzarsi in base all’ambito territoriale di utilizzo (singolo stato o area geografica), alla tipologia di prodotto, alla specificità della caratteristica di valenza ambientale che si vuole evidenziare.[7]

Ognuno di essi è uno strumento messo nelle mani del consumatore non soltanto per orientarsi nella scelta ma anche per penalizzare e scoraggiare, attraverso le sue preferenze di acquisto, le pratiche aziendali che traggono i loro profitti anche da sistemi di produzione poco rispettosi dell’ambiente e delle risorse naturali. L’affidamento a questi sistemi di marchiatura, preceduta da una puntuale e precisa informazione al riguardo, possono rappresentare un modo efficace di contrastare le pratiche di greenwashing, fenomeno sempre più pervasivo e dannoso sia per l’ambiente che per il mercato.

[1] M. Casadei, “La sostenibilità è importante, ma vende? Sì, secondo i buyer, e sempre di più”, marzo 2019, disponibile al link

[2] Chevron Commercial Ad 1985, disponibile al link: https://youtu.be/cpm00Z9PXzk

[3] M.A. Cherry, J.F. Seniors on, “Chevron, Greenwashing and the myth of ‘Green Oil’ companies”, Journal of Energy, Climate and the Environment, 2012, Vol. 3(1).

[4] Il Trade Practices Act del 1974 proibisce le “misleading environmental claims” con multe fino a 6 milioni di dollari.

[5] Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 1254, 6 marzo 2001; TAR del Lazio, Sez. I, sentenza n. 1372, 11 gennaio 2006.

[6] Ministero dell’Ambiente, “Ecolabel UE”, disponibile al link https://www.minambiente.it/pagina/ecolabel-ue

[7] Camera di Commercio di Ancona, “Le etichette ecologiche”, dicembre 2010, disponibile al link:

Marianna Riedo

Classe 1996, frequenta l’ultimo anno di  Giurisprudenza presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Da tempo interessata al rapporto fra diritto e nuove tecnologie e desiderosa di approfondire questa tematica con un periodo di studio all’estero, ha deciso di trascorrere un semestre di exchange in Australia. Qui ha frequentato la UTS: University of Technology Sydney, dove ha seguito corsi inerenti a materie quali proprietà intellettuale, informatica e innovazione imprenditoriale. Attualmente si trova in Estonia, dove collabora con il ruolo di Research Trainee presso l’IT Law Programme dell’Università di Tartu. Nel febbraio 2017 ha iniziato a collaborare con ELSA Bologna (the European Law Students’s Association) per poi assumere la guida dell’area Attività Accademiche in qualità di Vicepresidente e, infine, arrivare a ricopre il ruolo di Presidente. È Senior Associate Editor della University of Bologna Law Review, realtà con la quale collabora dal 2016.

Lascia un commento