venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Hate speech: il confine tra la libertà di espressione e la censura

Che cos’è l’hate speech?

Il perenne dialogo reso possibile dalla diffusione di internet si “colora” sempre più di espressioni di odio razziale e politico, di offese e di comportamenti ossessivi nei confronti di altre persone.

La giurisprudenza americana ha elaborato la categoria dell’hate speech – spesso tradotto con la formula “incitamento all’odio” – per indicare un genere di parole e discorsi il cui scopo è quello di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo. Questo genere di offesa si radica in un qualsiasi tipo di discriminazione: razziale, etnica, religiosa, di genere o di orientamento sessuale.

La repressione dell’hate speech, dal punto di vista giuridico, si pone sulla sottile linea di confine che separa il diritto alla libertà di espressione dalla censura. Per tale motivo rappresenta uno dei temi più discussi della digital era.

Inoltre, a quella dell’hate speech, sono connesse nuove categorie comportamentali:

  • Cyberbullismo: diffamazione, ingiurie, pressioni, molestie, interferenze illecite nella vita privata di un determinato individuo;
  • Cyberstalking: condotte reiterate volte a determinare un grave stato d’ansia o paura in un determinato individuo;
  • Grooming online: adescamento di minori a fini sessuali;
  • Sexting: invio o ricezione di email, messaggi e altre forme di comunicazione contenenti testi e/o immagini sessualmente esplicite;
  • Revenge Porn: pubblicazione online di immagini o video con scene di sesso esplicito riprese nel corso di una normale relazione intima e diffuse senza il consenso del partner a scopo vendicativo;

Le differenze tra l’odio online e l’odio offline

Risulta necessario, per una complessiva comprensione del fenomeno dell’hate speech, evidenziare quali sono le sue peculiarità e criticità che lo rendono, pertanto, un fenomeno diverso dalle manifestazioni di odio offline:

  • la permanenza, in quanto l’odio manifestato online rimane attivo per lunghissimi periodi di tempo, e ciò anche a causa delle seguenti caratteristiche;
  • il possibile ritorno, l’odio che viene rimosso dal web può ritornare facilmente grazie ad una diversa forma o titolazione;
  • l’anonimato, forse la più importante tra le caratteristiche dell’hate speech, in quanto la possibilità di rimanere anonimi genera negli utenti la falsa ed errata sensazione di poter evitare le conseguenze
  • la transnazionalità che complica enormemente l’individuazione dei colpevoli.

Il ruolo dei social network

Dal momento che si tratta dell’odio online, i social network non possono non considerarsi elementi essenziali del fenomeno. Sono “il campo di battaglia” dove, purtroppo e sempre più spesso, si assiste alla mortificazione della democrazia, della buona educazione e della dignità umana.

Il problema assume una gravità rilevante soprattutto perché mancano specifiche normative internazionali condivise. Tale lacuna giuridica produce una gerarchia, nell’ambito della libertà di espressione dei social network, in cui una piattaforma adotta parametri più o meno stringenti di altre.

Le grandi aziende come Google e Facebook fanno affidamento su gruppi di lavoro specifico la cui funzione è quella di decidere se un determinato contenuto viola o meno le norme di utilizzo della piattaforma. YouTube, inoltre, proibisce esplicitamente l’hate speech, da intendersi come linguaggio offensivo di tipo discriminatorio.
Facebook, al contrario, risulta essere più permissivo: in generale lo vieta, ma aggiunge che sono consentiti messaggi con «chiari fini umoristici o satirici», che in altri casi potrebbero rappresentare una minaccia e che molti potrebbero comunque ritenere «di cattivo gusto».
Il più “aperto” di tutti risulta essere Twitter: non vieta esplicitamente l’hate speech e neppure lo cita, se non in una nota in cui si legge che le campagne politiche contro un candidato «generalmente non sono considerate hate speech».

Nella pratica però questa attività di controllo si rivela tutt’altro che facile e immediata: le difficoltà teoriche e tecniche relative alla valutazione dei contenuti offensivi non in linea con le disposizioni di utilizzo hanno spinto aziende, come quelle sopracitate, ad affidare una rilevante parte del lavoro alla comunità di utenti tramite il sistema delle segnalazioni.

L’utente, con la segnalazione, invia ai moderatori una determinata espressione, foto o video ritenuti offensivi, e questi possono intervenire qualora l’oggetto della segnalazione risulti contrario alla normativa del social network. Sia chiaro: non tutte le segnalazioni si concludono con la rimozione del contenuto offensivo, ma nonostante ciò rappresentano uno strumento fondamentale per coinvolgere la comunità degli utenti.

L’hate speech in Italia

I dati pervenuti dalla prima ricerca italiana sull’hate speech, realizzata dal Cospe nell’ambito del progetto europeo contro il razzismo e la discriminazione sul web, “Bricks – Building Respect on the Internet by Combating hate speech“, purtroppo, non sono confortanti. Hanno evidenziato, complice, negli ultimi anni, la crisi umanitaria che ha riguardato i paesi europei e balcanici, la crescita di discorsi antisemiti e razzisti, xenofobi e islamofobi.

Dall’analisi emerge un ulteriore problema: il fenomeno non va ricondotto solo ai lettori, ma, anzi, vi sono coinvolti attivamente anche personaggi pubblici, politici, uomini di potere e giornalisti, i quali non perdono occasione per criminalizzare i migranti con interventi, slogan e affermazioni discriminatorie e xenofobe. L’evidente mancanza di cultura e, anche, di cultura digitale, rendono questo fenomeno pressoché incontrollabile.

Si segnala, inoltre, che l’ordinamento italiano è privo di una una legge specifica sull’hate speech. Nella maggior parte dei casi le fattispecie più rilevanti, o che ricevono maggior risonanza sociale e mediatica, vengono ricondotte nell’alveo dei reati di incitamento all’odio razziale (Legge Mancino, n. 205 del 1993), di ingiuria (ex art. 594 c.p.), di minaccia (ex art. 612 c.p.), di diffamazione (ex art. 595 c.p.).

Tuttavia, negli ultimi anni, non sono mancati tentativi di disciplinare la materia organicamente: nel maggio 2015 il Senato ha approvato il disegno di legge “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”; nel luglio 2015, su iniziativa di Laura Boldrini, presidente della Camera, è nata la “Dichiarazione dei diritti di internet” che, come si legge nel preambolo, risulta essere «indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale».

A tale proposito, infatti, l’articolo 13 comma 2 di tale Dichiarazione afferma da una parte che «Non sono ammesse limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero» e, dall’altra, che «Deve essere garantita la tutela della dignità delle persone da abusi connessi a comportamenti quali l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza».

 Conclusioni

Il tema è attualmente all’attenzione delle Istituzioni Europee. Infatti, pochi giorni dopo le rivelazioni del The Guardian in merito alle non proprio rassicuranti linee guida che i moderatori di Facebook devono usare nella valutazione dei contenuti offensivi o socialmente pericolosi, il Consiglio europeo ha approvato una serie di proposte in merito all’obbligo delle piattaforme online di rimuovere i contenuti che incitano all’odio. L’approvazione definitiva spetta ora al Parlamento Europeo.

Si tratterebbe del primo intervento normativo ad hoc in materia che costringerebbe i social network a rispettare, quanto meno nel territorio Europeo, le norme previste dall’Unione.

Da questo punto di vista, la rete si dimostra un luogo ed uno strumento totalmente incapace di autoregolamentarsi, e gli effetti che tali lacune normative possono avere sull’opinione pubblica e sulla vita dei singoli utenti possono essere, come purtroppo appreso da molti fatti di cronaca, devastanti. L’Unione ha preso coscienza di questa esigenza, per cui non resta che attendere una celere risposta in grado di arginare la diffusione dell’odio online.

Simone Cedrola

Laureto in Giurisprudenza presso l'Università Federico II di Napoli nel luglio 2017 con una tesi in Procedura Civile. Collaboro con Ius in itinere fin dall'inizio (giugno 2016). Dapprima nell'area di Diritto Penale scrivendo principalmente di cybercrime e diritto penale dell'informatica. Poi, nel settembre 2017, sono diventato responsabile dell'area IP & IT e parte attiva del direttivo. Sono Vice direttore della Rivista, mantenendo sempre il mio ruolo di responsabile dell'area IP & IT. Gestisco inoltre i social media e tutta la parte tecnica del sito. Nel settembre 2018 ho ottenuto a pieni voti e con lode il titolo di LL.M. in Law of Internet Technology presso l'Università Bocconi. Da giugno 2018 a giugno 2019 ho lavorato da Google come Legal Trainee. Attualmente lavoro come Associate Lawyer nello studio legale Hogan Lovells e come Legal Secondee da Google (dal 2019). Per info o per collaborare: simone.cedrola@iusinitinere.it

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