I bit, unità minime di informazione: come sono qualificati giuridicamente?
I bit, unità minime di informazione: come sono qualificati giuridicamente?
Con il termine bit si intende la più piccola unità di informazione.
Sul piano giuridico, la qualificazione dei bit non è di poco conto: la classificazione di essi quali beni “materiali” o “immateriali” assume una certa rilevanza con particolare riferimento al momento applicativo di determinate norme di legge.
In alcuni casi, infatti, queste ultime presuppongono la materialità del bene cui si riferiscono; in altri, la loro applicabilità, se considerata in relazione ad elementi immateriali, richiede l’adozione di determinate misure volte a preservare le caratteristiche dei beni su cui si esplicherebbero i loro effetti.[1]
Prima di trattare il fenomeno da un punto di vista giuridico, è opportuno preporre brevissimi cenni sulle caratteristiche fisiche dei bit.
Anzitutto, un bit, dall’inglese “binary digit”, in informatica è rappresentato da una singola cifra binaria – 0 o 1 – in quanto espressione della scelta elementare tra due sole alternative possibili.[2]
Una stringa di 8 bit costituisce un byte, ovvero una sequenza utilizzata per codificare un singolo carattere alfanumerico in un calcolatore.
Secondo alcuni, sul piano fisico la dimensione – materiale o meno – dei bit sarebbe strettamente interconnessa alla tipologia di memoria con cui interagiscono.
In estrema sintesi, si può dire che essi:
- nella loro fase statica – ossia, nella fase di archiviazione su una memoria secondaria costituita da una base materiale (ad esempio, su un nastro magnetico, su un hard disk, su un disco ottico) – sarebbero da considerare beni materiali, in quanto in tal caso risulterebbero dalla deformazione della materia di cui si compone la memoria di massa su cui sono conservati;
- se considerati, invece, quali puri impulsi tensionali elettrici, separati dalla materia della memoria secondaria – dunque, nelle fasi dinamiche di elaborazione da parte della memoria primaria e di teletrasmissione – essi sarebbero beni dematerializzati. [3]
Poste tali brevi premesse fattuali, è possibile ora soffermarsi sulla qualificazione giuridica dei bit.
Nel nostro ordinamento, come noto, ai sensi dell’art. 810 del codice civile, “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Il termine “cosa” cui fa riferimento la disposizione non va inteso in senso naturalistico, ma in senso più ampio, alla stregua del concetto romanistico di “res”, includendovi sia entità materiali (res quae tangi possunt), sia quelle immateriali (res quae tangi non possunt).
La materialità, pertanto, non costituisce un presupposto ai fini della sussunzione nella categoria dei beni giuridici. Non è necessario che il bene venga percepito dai nostri sensi come una sostanza corporea: può trattarsi anche di qualcosa che sia percepito unicamente attraverso l’intelletto.
Pur tuttavia, giuridicamente, la categoria delle “cose”, anche se considerate nella loro immaterialità, può ricomprendere unicamente – secondo l’interpretazione prevalente – quelle che possono ricadere sotto la nostra “signoria” e che siano idonee a soddisfare un bisogno, ad avere una certa utilità. A tal proposito, si rileva che non è necessaria l’effettiva sottoposizione alla signoria di taluno, essendo sufficiente la suscettibilità di esserlo.
Sul piano pratico, la dimensione materiale o immateriale dei bit ha avuto ed ha un certo rilievo soprattutto in ambito penale, con riferimento alla concreta applicabilità di determinate fattispecie di reato, quali, ad esempio, il furto o l’appropriazione indebita, laddove aventi ad oggetto dati ed informazioni espressi in numeri binari.
Nella materia penale, infatti, a complicare ulteriormente la questione vi è la circostanza che il termine “cosa” è accolto in un’accezione più ristretta, come infra si vedrà.
Come è stato rilevato[4], la questione ricorda quella, analoga, attorno alla qualificazione giuridica dell’energia elettrica affrontata dal nostro legislatore negli anni ’30, il quale introdusse nel codice penale il reato di furto di energia, integrando il disposto dell’art. 624 c.p. con l’inciso “agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico”.
I principi del nostro sistema penale impediscono un’applicazione analogica della disposizione citata, pertanto non è possibile dirimere in tal modo la questione insorta a proposito della natura giuridica dei bit.
Sul tema, è intervenuta a più riprese la giurisprudenza di legittimità, assestandosi tuttavia su posizioni divergenti nel corso degli anni.
Nel presente contributo, si è scelto di analizzare due dei più rilevanti arresti della Suprema Corte sul tema: uno più risalente, l’altro più recente, per operare un parallelismo tra i due diversi orientamenti.
Cassazione Penale, Sezione II, sentenza n. 308/2005
Nel 2005, con la pronuncia n. 308 della Sezione II Penale, la Suprema Corte aveva escluso la configurabilità del reato di ricettazione a carico di un soggetto limitatosi a ricevere dati e informazioni tratti da documenti informatici indebitamente sottratti, atteso che, secondo la Corte, in siffatta ipotesi mancava l’esistenza di una res suscettibile di apprensione e possesso.
Più nello specifico, nel caso in esame all’imputato veniva contestato di aver acquistato dati e notizie tratti da materiale documentario illecitamente sottratto dai registri di repertorio e dalle tavole alfabetiche dell’ufficio di un’agenzia territoriale.
Ad avviso della Cassazione del 2005, i dati e le informazioni possono essere oggetto di cognizione, ma non di apprensione, pertanto se ne deve escludere tanto il furto, tanto la ricettazione. “I dati e le informazioni non sono suscettibili di autonomo possesso e non costituiscono “cose” – nell’accezione materiale dei reati contro il patrimonio – né può ritenersi che essi costituiscano provento o prodotto del furto dei documenti da cui sono stati desunti”: queste le parole del provvedimento.[5]
Su tale pronuncia si basano ulteriori, successive, decisioni della giurisprudenza di legittimità, unite dal presupposto, di partenza, secondo cui la particolare natura dei dati informatici rappresenta un ostacolo alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie penale di volta in volta presa in considerazione e volte ad escludere, pertanto, una qualsiasi forma di materialità in capo ai bit.
Cassazione Penale, Sezione II, sentenza n. 11959/2020
Di parere opposto la stessa Sezione II Penale del 2020[6], la quale ha ritenuto che i file – i quali altro non sono che agglomerati logici di bit – sono riconducibili alla categoria dei beni mobili e, pertanto, suscettibili di appropriazione indebita.
La sentenza in questione segue un percorso logico ben più articolato rispetto al caso precedentemente esaminato, che si proverà qui ad esporre, per quanto di interesse.
Anzitutto, la vicenda oggetto della pronuncia riguarda il caso di un soggetto che, dopo essersi dimesso dalla società in cui lavorava, aveva restituito il notebook aziendale a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro con l’hard disk formattato, senza traccia dei dati informatici originariamente ivi presenti. Alcuni di tali dati erano poi stati rinvenuti su computer che si trovavano nella disponibilità dell’imputato e da questi utilizzati.
La questione sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi, pertanto, concerne la possibilità di qualificare i dati informatici – più in particolare, i singoli file – come beni materiali ai sensi della legge penale, in relazione alla possibilità di costituire oggetto di appropriazione indebita.
La Corte, dopo aver ripercorso i precedenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità sul tema, apre le porte ad una nuova interpretazione, rivisitando – ed è questo, ad avviso di chi scrive, il punto cruciale del provvedimento – il concetto stesso di “fisicità” di un bene giuridico, per farvi ricomprendere anche gli insiemi di bit.
I giudici si soffermano, in primo luogo, sulla nozione di “cosa mobile” nella materia penale, caratterizzata dalla necessità che la cosa sia suscettibile di fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e di potersi spostare da un luogo ad un altro (o in quanto avente l’attitudine a muoversi, di per sé, oppure per la possibilità di essere trasportata da un luogo ad un altro). È sulla base di tale presupposto giuridico che è stata quasi sempre esclusa, in precedenza, la materialità dei bit.
Pur riconoscendo l’esistenza di tali ragioni di ordine testuale e di sistema, i giudici affermano, tuttavia, che ai fini della valutazione occorre considerare la natura dei file quali insiemi di dati numerici, tra loro collegati, che nella loro rappresentazione grafica, visiva e sonora assumono carattere materiale e che, inoltre, sono suscettibili di trasferimento tra dispositivi che li contengono e nell’ambiente informatico rappresentato dalla rete Internet.
Ad avviso della Corte, ed è questo un passaggio importantissimo del provvedimento, talune categorie giuridiche dovrebbero essere riconsiderate e re-interpretate alla luce delle attuali tecnologie informatiche, al fine di rendere effettiva la tutela cui mirano le norme giuridiche che le richiamano.
Ed allora, tenta di farlo.
I giudici partono dai caratteri minimi che delimitano la nozione penalistica di “cosa mobile”: la fisicità del bene; la suscettibilità di apprensione e possesso.
Orbene, essi accolgono un’accezione molto stretta di fisicità, intendendo per essa l’attitudine ad occupare uno spazio e ad essere oggetto di spostamento da un luogo ad un altro.
Un file è un insieme di dati, archiviati o elaborati. In particolare, le apparecchiature informatiche elaborano i dati inseriti nei file mediante il sistema binario, cioè attribuiscono ai dati il corrispondente valore mediante l’utilizzo delle cifre binarie, i bit.
I bit hanno l’attitudine ad occupare uno spazio: tale spazio è costituito dai byte, celle di 8 bit in cui questi ultimi vengono collocati quando si codifica un singolo carattere alfanumerico in un calcolatore, come sopra descritto.
E allora, i bit sono entità dotate di una propria fisicità: occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la cui dimensione dipende dalla quantità di dati che in essa possono essere contenuti.
E a loro volta i file, quali agglomerati logici di bit, possiedono una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che li compongono.
Ai fini della riconduzione alla nozione penalistica di “cosa mobile”, pertanto, rilevante ai fini dell’applicazione della norma astratta alla fattispecie concreta, il primo requisito, quello della fisicità, sembrerebbe, ad un’analisi più attenta, soddisfatto.
Resterebbe da risolvere il secondo problema: quello legato alla suscettibilità di materiale apprensione.
I giudici, a tal riguardo, ritengono quanto segue: la capacità dei file di essere trasferiti da un supporto ad un altro conservando le proprie caratteristiche strutturali, nonché la possibilità che i dati viaggino attraverso la rete Internet e che siano custoditi in ambienti virtuali, confermerebbe anche il presupposto della possibilità del dato informatico di formare oggetto di sottrazione ed appropriazione.
È sulla scorta di tutte tali osservazioni che la Suprema Corte, infine, arriva a riconoscere la sussistenza del reato di appropriazione indebita e a contestare all’imputato la condotta illecita, affermando il seguente principio di diritto: “i dati informatici sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer formattato”.
Il percorso argomentativo della sentenza è piuttosto articolato ma quel che, ad avviso di chi scrive, rileva è il tentativo – apprezzabile e ardito – di aver voluto adattare una categoria classica al nuovo contesto tecnologico, re-interpretando i concetti di fisicità e di suscettibilità di materiale apprensione, per plasmarli alla mutata realtà in cui oggi operiamo ed in cui si esplicano gli effetti delle nostre condotte.
[1] Cfr. A. Gammarota, La prova digitale tra incertezza normativa e incertezze giurisprudenziali, Tesi di Dottorato Alma Mater Studiorum, 2016, p. 52.
[2] Cfr. Gammarota A., ibidem, p. 47. Sul punto si veda anche S.M.H. Collin, Dictionary of Computing, Teddington, 1988: “bit = (a) smallest unit in binary number notation, which can have the value 0 or 1 (b) smallest unit of data that a system can handle (…)”; A.S. Tanenbaum, T. Austin, Structured Computer Organization, VI ed., Pearson.
[3] Cfr. Gammarota A., ibidem, p. 57.
[4] Gammarota A., ibidem, p. 60. Sul punto si veda anche, F. Carnelutti, Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, in Studi di diritto civile, Roma, Atheneum, 1916
[5] Cassazione penale, Sez. II, 21/10/2004 (dep. 13/01/2005), n. 308. Massima a cura di Avvocato.it, disponibile qui: https://www.avvocato.it/massimario-25406/
[6] Cassazione penale, Sez. II, 07/11/2019 (dep. 10/04/2020), n. 11959. Sul punto si veda anche, C. Pagella, La Cassazione sulla riconducibilità dei file al concetto di “cosa mobile” oggetto di appropriazione indebita: un caso di analogia in malam partem?, 4 marzo 2021, Sistema Penale, disponibile qui: https://www.sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-11959-2020-appropriazione-indebita-file-cosa-mobile; M. Fumo,“Res telematica”. La problematica corporeità del file ed il reato di appropriazione indebita, 15 luglio 2020, MediaLaws, disponibile qui: https://www.medialaws.eu/rivista/res-telematica-la-problematica-corporeita-del-file-ed-il-reato-di-appropriazione-indebita/