lunedì, Ottobre 7, 2024
Criminal & Compliance

I reati culturalmente orientati: alla ricerca di un bilanciamento dei principi in gioco

A cura del Dott. Andrea Vischi 

Nell’ultimo decennio la penisola italiana è stata teatro di un progressivo incremento dei flussi migratori i quali hanno contribuito a rendere agevole la formazione di società multietniche, intrise di patrimoni culturali assai vasti e difformi tra loro e, talvolta, confliggenti con i valori più radicati della società occidentale.

A doversi fin da subito confrontare con simile scenario è stato l’ordinamento penale, chiamato, quale garante del principio di unitarietà del soggetto di diritto[1], a dare risposta al sempre più frequente fenomeno giuridico dei reati “culturalmente motivati”, intendendosi per tali quei comportamenti che, se per un verso integrano un illecito penale nel territorio di consumazione della fattispecie, per altro verso, all’interno del gruppo culturale di provenienza del soggetto agente,  sono accettati, approvati o addirittura incoraggiati[2].

Le principali riflessioni sul tema, che maggiormente hanno interessato la dottrina e che hanno rappresentato – rectius rappresentano- il core della casistica giurisprudenziale in materia, riguardano l’apertura dell’ordinamento nazionale all’istituto di common law della cultural defense[3], ovverosia della possibilità per l’imputato di invocare, quale scriminante di un delitto perfettamente integrato secondo lo ius nazionale, la propria appartenenza ad una diversa società culturale che, per quel medesimo fatto, non prevede il rimprovero penale.

Se una simile apertura è da un lato auspicabile al fine di consentire che l’accertamento delle fattispecie di reato culturalmente motivato aderisca ai dettami su cui si fonda il sistema penale italiano e che vedono nella sussistenza della colpevolezza una condizione indefettibile per affermare la responsabilità dell’imputato, dall’altro lato ci si chiede in che termini si possa valorizzare il fattore culturale al fine di derogare alla punibilità dell’agente.

In altre parole, ci si interroga sul modus in  cui possa essere veicolata la scriminante culturale in un ordinamento, quale il nostro, che fa della generalità e dell’astrattezza i canoni fondamentali della normazione penale e senza, pertanto, che venga violato il principio di eguaglianza innanzi alla legge mediante la previsione di  clausole di non punibilità ad hoc che giustifichino dei fatti, altrimenti penalmente rilevanti, sulla sola base dell’appartenenza del soggetto agente ad un determinato gruppo culturale.

Interrogativi, quest’ultimi, tutt’altro che smorzati dalla circostanza che il legislatore nazionale sia tradizionalmente reietto ad ammettere l’incidenza, in un ramo dell’ordinamento quale quello penale – storicamente custodito nell’applicazione del principio di stretta legalità-  di fattori esterni, diversi dalle fonti normative primarie, che regolino la struttura della fattispecie[4].

Tralasciando la trattazione di quegli istituti tramite cui si è cercato di risaltare il movente culturale nel processo penale che, tuttavia, non hanno trovato consenso in dottrina né riscontro in giurisprudenza, ci si concentrerà nel prosieguo su quello che, a parere di chi scrive, rappresenta il vettore maggiormente appetibile della scriminante culturale nell’ordinamento penale nazionale[5].

Invero, una possibile valvola di entrata delle matrici culturali nell’ordinamento criminale è costituita dall’applicazione del principio di ignoranza della legge penale, interpretato alla luce della storica sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto illegittimo l’art. 5 c.p. «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». Con tale pronuncia i giudici delle leggi hanno attenuato il noto principio “ignorantia legis non exscusat”, prescrivendo per l’efficacia dello stesso l’ulteriore elemento della possibilità di conoscenza della norma penale[6].

Simile interpretazione sembra porsi in perfetta simmetria con le ipotesi di reato culturalmente orientato, rendendo possibile un soppesato bilanciamento tra le esigenze di repressione dei fenomeni criminali e le garanzie di non porre a carico dell’agente fatti da lui commessi nella consapevolezza che non fossero illeciti. Bilanciamento ancor più calibrato dagli obblighi di informazione che l’interpretazione estensiva del summenzionato principio pone a carico di ogni consociato e che, pertanto, prescrivendo ai destinatari dei precetti penali il dovere strumentale di informazione e conoscenza della legge penale, impongono al giudice di valorizzare la scriminante culturale solo se l’agente, oltre a non essere a conoscenza della norma sanzionatoria, non abbia avuto in concreto il modo di informarsi per conoscerla[7].

In altre parole, l’interprete sarebbe chiamato ad assolvere l’imputato allorché in sede probatoria emerga che quest’ultimo non solo aderisca e pratichi con convinzione i dettami di un gruppo socio-culturale che tolleri o promuova il fatto penalmente illecito, ma anche che lo stesso non abbia avuto la possibilità di uniformarsi ad una condotta legittima in quanto fosse per lui oggettivamente impossibile conoscere la normativa nazionale e quindi comprendere il disvalore del fatto commesso. Al contrario, pertanto, sarebbe punibile chi, nonostante sia stato messo in condizione di conoscere i precetti penali, li abbia comunque trasgrediti, anche se per adempiere alle prescrizioni culturali del gruppo a cui appartiene[8].

Il che a vantaggio del buon funzionamento del sistema penale.

 In primo luogo, infatti, la predetta impostazione garantirebbe la più ampia tutela dell’ordine pubblico nazionale: mediante l’efficacia deterrente della pena infatti si impedirebbe agli immigrati di ignorare i precetti penali del paese ospitante, con la conseguenza che quest’ultimi esercitino le proprie usanze socio-culturali fintantoché le stesse non si pongano in contrasto con quelle del paese ospitante e non integrino nello stesso un illecito penale. Del resto, non potrebbe accettarsi che un soggetto appartenente ad altro gruppo sociale non faccia lo sforzo di intercalarsi nel tessuto socio-normativo dello Stato ospitante, nel senso di conoscere i valori di questo e le norme che lo regolano e di abbandonare, de relato, quelle usanze che costituiscono reato per la legge nazionale.

 In secondo luogo, si consentirebbe di valorizzare la colpevolezza quale elemento costitutivo del reato, non rimproverando penalmente chi abbia commesso il fatto nell’ignoranza scusabile che questo si ponesse contro i beni giuridici tutelati dall’ordinamento. La stessa Corte Costituzionale, nella citata sentenza del 1988, ha sottolineato la necessità che, al fine di evitare la violazione del principio del nullum crimen sine culpa di cui all’art. 27 Cost., siano rimproverati penalmente soltanto i fatti che «risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza espressi dalle norme penali».

Nonostante l’applicazione nei termini anzidetti dell’art. 5 c.p. rappresenti, a parere di chi scrive, un punto di incontro tra quei principi dell’ordinamento penale messi alla prova sotto forma di aut aut da tali tipologie di reato, tuttavia, nel più che mai lacunoso silenzio del legislatore, la giurisprudenza di legittimità -pronunciatasi soprattutto con riferimento alla figura delittuosa dei maltrattamenti in famiglia – ha adottato un orientamento di stampo “assimilazionista”, secondo cui è tollerato l’inserimento dello straniero nel tessuto nazionale al prezzo di una sua sostanziale rinuncia alle proprie radici etnico-culturali, discostandosi così dalla  suesposta e privilegiabile linea ermeneutica e adottando un atteggiamento di formale chiusura della rilevanza culturale nel sistema penale[9].

In particolare la Corte di Cassazione ha sancito in ripetute pronunce che in nessun modo possa essere scriminato un comportamento penalmente illecito posto in essere dall’imputato in ottemperanza ai credo socio-culturali di appartenenza ogni qual volta la condotta posta in essere si ponga «in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento italiano». La Corte regolatrice ha oltremodo precisato che il riconoscimento di un rilievo in ambito penale della diversità culturale trova uno «sbarramento invalicabile» nei principi costituzionali che tutelano i diritti inviolabili dell’uomo, dovendosi scongiurare l’accettazione di «consuetudini, prassi e costumi che si pongono come “antistorici” a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero»[10].

Se si volge lo sguardo ai casi concreti in cui il movente culturale viene in rilevo, ci si accorge trattasi di tutte fattispecie erette a tutela di diritti inviolabili dell’uomo[11], comprendendosi, dunque, che l’orientamento della cassazione sopra esposto finisca con il rendere nella prassi inapplicabile il movente culturale quale elemento impeditivo del sorgere della fattispecie penale.

Al contrario, la corte regolatrice ha quantomeno aperto alla valorizzazione del fattore culturale nell’ambito della personalizzazione della pena: l’interprete, dunque, allorché intenda dare peso al moto culturale che ha animato la condotta dell’imputato sarà chiamato a graduare la pena in concreto da comminare, non solo non discostandosi eccessivamente dal minimo edittale, ma anche, a modesto avviso di chi scrive, riconoscendo all’imputato le circostanze attenuanti generiche di cui all’art 62 bis c.p.

In conclusione, alla luce delle questioni di stampo giuridico che le fattispecie dei reati culturalmente orientati sollevano, si ritiene necessario che il legislatore faccia un passo in avanti con una presa di posizione normativa sul fenomeno in commento, invece di restare nell’ombra delle interpretazioni della giurisprudenza di legittimità, chiamata, troppo spesso, a doversi orientare in tematiche delicate in assenza di una bussola normativa.

In mancanza di simile intervento si profilerebbe il rischio di un ordinamento penale anacronistico che resti indifferente rispetto al particolarismo culturale che contraddistingue la società odierna.

[1] In tal senso Cfr. E. Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, in Diritto Penale, 2017, il quale evidenzia come l’ordinamento penale, chiamato a garantire “l’unità del soggetto di diritto”, sia messo in discussione dal fenomeno dei reati culturalmente orientati.

[2] La definizione pacifica in dottrina – ripresa da Van Broeck, “Cultural defense and culturally motivated crimes (Cultural Offences)”, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001- circa il reato culturalmente orientato è la seguente: «comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni».

[3] Il concetto di cultural defense – inteso secondo L. Monticelli, “Le «cultural defenses» (esimenti culturali) e «reati culturalmente orientati». Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale”, in Ind. pen., 2003, come «causa di esclusione o diminuzione della responsabilità penale invocabile in ambito processuale da immigrati, rifugiati, da popolazioni indigene, o comunque da appartenenti a minoranza con un background culturale diverso dai costumi e dagli usi generalmente seguiti e accettati dalla maggioranza della comunità» – ha avuto origine con il noto “caso Kimura”, avvenuto nel 1985 e che ha visto come protagonista una cittadina americana di origini giapponesi che, scoperta l’infedeltà del marito, decise di gettarsi in mare trascinando con sé i due figli minori con l’intento di adempiere al c.d. “boshi-shinju”. L’intervento dei soccorsi riuscì a porre in salvo solo la donna che fu accusata di first degree murder nei confronti dei figli. Il caso mobilitò l’intera comunità giapponese in America, che, percependo il gesto come una declinazione del proprio assetto culturale sulla base del quale i figli minori sono una mera estensione dei genitori, tanto da considerarli destinati ad una vita infelice e umiliante se condotta in assenza di un genitore suicida, avanzò una petizione alla Corte Suprema, finendo con l’ottenere la derubricazione dell’accusa in voluntary manslaughter. Per un approfondimento sul caso e le relative implicazioni cfr., tra i vari, E. Mezzetti, La legge penale rispetto alle persone, cit; C. De Maglie, “Culture e diritto penale. Premesse metodologiche”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008; F.Basile, Immigrazione e reati “culturalmente motivati”. Il diritto penale nelle società multiculturali europee, 2008.

[4] A proposito del carattere marcatamente nazionalistico del diritto penale vd. F. Basile, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, disponibile in http://www.politicacriminal.cl/Vol_06/n_12/Vol6N12A4.pdf; H. Del Mas Marty, “Verso un diritto penale comune europeo?”, in Riv. it. Dir. proc. pen., 1997.

[5] Per un inquadramento generale sulla totalità di questi possibili riferimenti normativi cfr. F. Basile, Il diritto penale nelle società multiculturali: i reati culturalmente motivati, cit.

[6] C. Cost. sent. n. 364 del 24 marzo 1988 che ha riformulato il testo dell’art. 5 c.p. in «L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di “ignoranza inevitabile”».

[7] Per un’ampia trattazione del principio ignorantia legis non exscusat cfr. E. Mezzetti, Principio di legalità, cit.

[8] Sulla scorta di tale impostazione, il Tribunale di Arezzo, con sentenza del 27 novembre 1997, ha condannato un cittadino di fede islamica, imputato di maltrattamenti ai danni della moglie, nonostante l’appartenenza dello stesso alla cultura islamica, nella quale i rapporti tra i componenti di una famiglia sono regolati secondo la religione propria di quella cultura in modo diametralmente opposto con i valori propri dello Stato Italiano, sottolineando in motivazione il dato che l’imputato, nei suoi studi a Parigi e nel lungo periodo di tempo vissuto in Italia, avesse recepito certamente i valori e le regole della società occidentale.

[9] Per un’ampia trattazione sui due orientamenti – l’uno assimilazionista, l’altro multiculturalista – che si contendono la scena in materia si rinvia ampiamente a C. De Maglie, I reati culturalmente motivati, Ideologie e modelli penali, 2010.

[10] Così, Cass. Pen. Sez. VI. sent. n. 46300 del 26 novembre 2008; nello stesso senso vd. Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 26153 del 26 aprile 2011; Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 12089 del 28 marzo 2012. Da ultimo, a negare la configurabilità di una scriminante culturale v. Cass. Pen. Sez. V sent. n. 30538 del 13 maggio 2021.

[11] La maggior parte dei reati culturalmente orientati ha trovato riferimento rispetto alle fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di riduzione in schiavitù, di lesioni personali derivanti dalle mutilazioni genitali femminili etc., reati posti a tutela di diritti quali la pari dignità sociale o l’eguaglianza senza distinzione di genere. Per una panoramica generale delle diverse fattispecie interessate cfr. G. Canzio, “Multiculturalismo e Giurisdizione Penale”, in Criminalia, Annuario di scienze penalistiche, 2018.

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