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Identità di genere e diritto europeo di non discriminazione: quanto sono protette le persone trans?

Il concetto di identità di genere ha timidamente preso posto nel dibattito pubblico attraverso alcuni avvenimenti recenti sui social tanto quanto nelle aule parlamentari.

Invero, a inizio dicembre 2020, la stampa italiana ha dato notizia del coming out di Elliot Page, attore canadese e famoso soprattutto per aver interpretato la protagonista del film Juno. Tramite le sue pagine personali social, Elliot ha dichiarato di essere transgender e che i pronomi nei quali egli si riconosce sono “lui/loro” (he/they)[1].

Inoltre, il 4 novembre 2020, la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge (“ddl”) c.d. Zan, volto a prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità[2]. Per raggiungere tale scopo, il ddl propone, inter alia, di estendere il reato di propaganda ed istigazione a delinquere, contenuto nell’articolo 604-bis c.p., anche ai motivi basati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. I suddetti motivi verrebbero aggiunti anche al primo comma dell’articolo 604-ter c.p., il quale definisce le circostanze aggravanti che si possono manifestare rispetto alla pena prevista dall’articolo 604-bis. Il testo, in aggiunta, prevede di estendere la legge Mancino dall’ambito dell’odio razziale e religioso a quello dell’omobitransfobia e dell’abilismo. Il ddl, depositato alla Camera nel 2018, è stato adottato dalla Commissione Giustizia a luglio 2020 e deve tuttora essere discusso in Senato[3].

Infine, a maggio 2020, il Parlamento ungherese ha votato a favore di un disegno di legge che sostituisce la categoria mutabile del “sesso” sul registro civile con quella, per contro, immutabile del “sesso assegnato alla nascita”. Attraverso questo emendamento parlamentare, l’Ungheria ha reso de facto impossibile il riconoscimento legale del genere, ovvero il processo con cui le persone trans e intersessuali possono allineare i loro documenti alla loro identità di genere[4].

Sotto il profilo giuridico, tuttavia, l’argomento non è affatto nuovo. Anche se gli Stati membri dell’Unione europea (“UE”) non hanno sviluppato un approccio legale univoco nei confronti del diritto all’identità di genere, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“Corte” o “CGUE”) e la Corte europea dei diritti dell’eomo (“Corte EDU”) hanno avuto modo di esprimersi in merito, sviluppando una giurisprudenza uniforme, in contrasto ai criteri nazionali discordanti.

Definire l’identità di genere

L’identità di genere è, innanzitutto, da ascrivere nel più ampio concetto di identità sessuale, ossia un termine ombrello con il quale ci si riferisce alla dimensione individuale e sociale della sessualità di ciascun individuo[5]. Immaginando l’identità sessuale come una torta, potremmo dividere quest’ultima in quattro porzioni: il sesso biologico, l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale. Ogni componente, proprio come una fetta di torta, è individuale e non si sovrappone agli altri, ma concorre singolarmente all’identità sessuale. L’identità di genere viene definita dai Princìpi di Yogyakarta come “l’esperienza interna e individuale del genere, che può corrispondere o meno al sesso assegnato alla nascita, e che comprende il senso personale del corpo (che può comportare, se scelto liberamente, la modificazione dell’aspetto o della funzione corporea con mezzi medici, chirurgici o di altro tipo) e altre espressioni del genere, compresi l’abbigliamento, il linguaggio ed i modi di fare”[6]. Quando l’identità di genere non coincide con il sesso biologico – assegnato alla nascita dai medici – si parla di incongruenza di genere, ovvero quel malessere che l’individuo prova nel momento in cui non si riconosce con il sesso assegnato. Le persone trans sono coloro che vivono questa incongruenza rispetto al sesso assegnato alla nascita, riconoscendosi nel sesso opposto o in una identità non binaria.

Le esigenze delle persone trans possono essere diverse. Le persone transessuali sentono la necessità di conformare il loro sesso biologico con la loro identità di genere e scelgono, quindi, di sottoporsi ad interventi chirurgici. Le persone transgender, invece, non sentendo come necessaria una transizione anche fisica, chiedono che siano solo i documenti di riconoscimento ad essere modificati con il genere preferito.

Sotto il profilo giuridico, la condizione delle persone trans è caratterizzata da una serie di problematiche. In primo luogo, in UE, le procedure per il riconoscimento legale del genere possono essere di tipo giudiziale o amministrativo; le prime creano un ulteriore livello di formalità, che molte persone trovano sia intimidatorio, sia di difficile accesso[7]. Inoltre, per accedere al riconoscimento legale del genere possono essere necessari requisiti medici, come in Finlandia e Repubblica Ceca ove occorre, tra l’altro, sottoporsi a operazioni chirurgiche, trattamenti ormonali e sterilizzazione per ottenere il cambio di genere sui documenti ufficiali.

Solo in sette Stati membri le persone trans in età adulta possono formalmente essere riconosciute nel loro genere preferito senza l’obbligo di soddisfare requisiti medici, di stato civile o di età.

Un altro problema riguarda i livelli di discriminazione ai quali le persone trans sono esposte in vari settori, tra cui la sfera professionale e l’istruzione. La comunità trans ha anche maggiori probabilità di subire violenza, con un tasso di incidenza annuale di violenza o molestie doppio rispetto a quello di lesbiche, gay e bisessuali[8].

Quale posto ha l’identità di genere nel diritto europeo della non discriminazione?

Nonostante le fonti di diritto primario dell’Unione Europea non stabiliscano esplicitamente il diritto all’identità di genere, quest’ultimo è stato riconosciuto sia dal diritto secondario UE, sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, attraverso due approcci differenti.

Per quanto concerne il diritto secondario UE, esso copre solo parzialmente il diritto all’identità di genere attraverso il divieto delle discriminazioni basate sul sesso. La Corte si è infatti pronunciata nel c.d. landmark case P. c. S. e Cornwall County Council, datato il 30 aprile 1996, in merito all’interpretazione di una Direttiva relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e alle condizioni di lavoro[9]. La ricorrente, P, era stata licenziata dopo aver effettuato chirurgicamente la transizione da uomo a donna e si rivolgeva, di conseguenza, all’Industrial Tribunal di Truro, lamentando di essere stata discriminata in base al sesso. Il Tribunale ha così sottoposto alla CGUE due questioni pregiudiziali. In primo luogo, il Tribunale chiedeva di chiarire se, considerata la direttiva in questione, il licenziamento di una persona transessuale a causa di un motivo legato alla riassegnazione di genere costituisse violazione della Direttiva. In secondo luogo, veniva posto in questione se l’articolo 3 della Direttiva proibisse di discriminare un dipendente a causa della sua condizione di transessuale.

Nella sentenza, la CGUE interpreta l’articolo 5 della Direttiva in modo da espandere il suo ambito d’applicazione non solo alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso, ma anche alle discriminazioni che hanno origine nel cambio di sesso.

Dal momento che dal 1996 ad oggi non sono avvenute evoluzioni della giurisprudenza della CGEU, il diritto dell’UE, dunque, limita il divieto di discriminazione in base al sesso solo nei confronti di chi intende sottoporsi o si è sottoposto ad un’operazione di riassegnazione del sesso, estromettendo, di conseguenza, le persone trans che invece non decidono di sottoporsi a tali trattamenti chirurgici.

Questa interpretazione fornita dalla CGUE assume particolare rilevanza soprattutto per ciò che concerne quegli strumenti – come la Direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego[10] – che contengono una lista limitata di motivi per cui la discriminazione può considerarsi illecita.

Seppur non vincolanti per gli Stati membri, alcune risoluzioni del Parlamento Europeo hanno dichiarato esplicitamente l’importanza dell’identità di genere all’interno dell’Unione Europea. La prima risoluzione su questo tema è stata adottata nel 2011: essa ha inoltre riconosciuto esplicitamente che le violazioni dei diritti umani connesse all’identità di genere hanno una frequenza preoccupante, all’interno e all’esterno dei confini dell’Unione[11].

Un’altra fondamentale risoluzione è quella del 4 febbraio 2014, in cui il Parlamento, condannando qualsiasi forma di discriminazione legata all’identità di genere ed auspicando che i diritti della comunità LGBTI venissero sempre più garantiti, ha esortato la Commissione, gli Stati membri e le agenzie europee ad adottare una politica pluriennale per la tutela dei diritti fondamentali delle persone LGBTI[12].

Per quanto concerne la giurisprudenza della Corte EDU, la sentenza Identoba e altri c. Georgia del 2005 stabilisce che il divieto di discriminazione contenuto nell’articolo 14 della Convenzione comprende anche questioni relative all’identità di genere, le quali possono essere incluse nella dicitura “ogni altra condizione” contenuta nell’articolo.

I ricorrenti del caso – una ONG georgiana e altre quattordici persone – erano stati privati del diritto di partecipare ad una marcia autorizzata in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia nel 2012, a causa di un gruppo di oppositori che faceva da catena umana e li circondava, impendendo loro di proseguire. Nonostante gli oppositori manifestassero atteggiamenti violenti, la polizia che scortava i manifestanti non era intervenuta per fermare tali aggressioni.

In questo caso, la Corte ha stabilito la violazione da parte della Georgia dell’articolo 11 della Convenzione EDU, in quanto non era riuscito ad assicurare il diritto dei ricorrenti a manifestare pacificamente.

Ai fini del diritto all’identità di genere appare altresì rilevante l’interpretazione che la Corte EDU ha offerto in merito all’articolo 8 della Convenzione – il quale sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare – stabilendo che una violazione del suddetto articolo avviene anche quando lo Stato non garantisce la modifica del certificato di nascita con il genere percepito. Di conseguenza, gli Stati hanno il dovere di riconoscere legalmente il cambio di sesso delle persone transessuali[13].

In ultimo, un’altra fondamentale sentenza della Corte EDU – emessa nel caso del 2017 A.P., Garçon e Nicot c. Francia[14] – ha stabilito che, ai sensi dell’articolo 8 CEDU, è illegittimo porre l’infertilità come requisito essenziale per ottenere il cambio di genere.

La sentenza, seguendo la dottrina del c.d. margine d’apprezzamento[15], ha comunque sostenuto che la diagnosi psichiatrica di transessualità possa figurare, potenzialmente, tra i requisiti per poter richiedere un cambio legale del genere. La Corte EDU, infatti, considerando che la vasta maggioranza degli Stati membri richiede questo tipo di condizione necessaria, ha concesso agli Stati un’ampia discrezione nel decidere se stabilire o meno un tale requisito ed ha così dimostrato che la Corte EDU non sia ancora pronta a riconoscere il diritto al genere legale in base al principio di autodeterminazione[16]. Inoltre, nella sentenza, la Corte EDU non ha tenuto in considerazione la risoluzione del 2015 in cui l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa esortava a rimuovere qualsivoglia requisito medico e di diagnosi ai fini del riconoscimento legale del genere[17].

La prima strategia dell’Unione Europea per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ

Sei anni dopo la risoluzione del Parlamento che auspicava una politica pluriennale sulle questioni LGBTI – sigla che indica la comunità di persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender e Intersessuali – il 12 novembre 2020, la Commissione europea ha adottato la prima strategia dell’UE per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ, aggiungendo, in primis, la “Q” di Queer nella sigla. Per ciò che concerne l’analisi della situazione attuale, purtroppo in sei anni nulla o poco è cambiato. Come si legge dal documento della Commissione, la comunità LGBTIQ è ancora oggetto di discriminazioni durante l’intero corso di vita e in diversi ambiti, primo tra tutti quello lavorativo. Inoltre, per le persone trans è ulteriormente difficile entrare nel mondo del lavoro, poiché spesso esse si trovano di fronte a barriere aggiuntive rispetto a quelle poste dinnanzi alla comunità LGBTIQ in generale, tra le quali possono figurare la discriminazione in base all’identità di genere e le sfide legate ai documenti che non corrispondono all’identità di genere. Le persone trans, infatti, possono essere oggetto di discriminazione diretta e indiretta durante il processo di selezione e, anche una volta che quest’ultimo è concluso, essi possono avere difficoltà nel mostrare la propria carta d’identità se, in questa, l’indicatore del genere non corrisponde alla loro identità di genere [18]. Ad esempio, in un lavoro del 2020 della Commissione, si legge la testimonianza di una donna trans svedese la quale, nonostante una consistente esperienza professionale, aveva mandato senza successo più di 250 candidature in un anno e mezzo di disoccupazione, in netto contrasto con l’esperienza (costantemente positiva) registrata mentre viveva secondo il genere assegnato alla nascita [19].

La Commissione sembra intenzionata a guidare l’UE verso un’Union of Equality. Nella sua strategia, essa ha riconosciuto la fondamentale importanza del diritto UE nella protezione della comunità LGBTIQ contro la discriminazione e ha riconosciuto i limiti dell’Employment Equality Directive[20] il cui ambito, inter alia, è ancora limitato alla sfera occupazionale dell’individuo.

Inoltre, nel tentativo di coordinare gli approcci divergenti che gli Stati membri hanno adottato per ciò che concerne la protezione legale delle persone LGBTIQ, la Commissione ha dichiarato di voler offrire supporto – di natura non meglio specificata – agli Stati, in modo che essi possano intensificare gli scambi di buone pratiche in materia di protezione giuridica contro la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulle caratteristiche sessuali in più aree.
Purtroppo, tuttavia, non sembra esserci intenzione di includere nelle direttive sulla parità di trattamento le persone trans che non intendono sottoporsi alla transizione chirurgica del sesso[21].   

Conclusioni

Senza dubbio, il diritto europeo è scarno e ancora inadeguato per far fronte alle necessità della comunità trans. Nonostante i primi passi siano stati mossi, si prospetta “a long way to go”[22] verso l’uguaglianza effettiva delle persone trans.

Gli Stati membri, liberi di adottare – o di non farlo – i più diversi approcci nei confronti del diritto all’identità di genere, conferiscono al panorama europeo un aspetto frammentato. Il diritto UE, non sapendo dare una risposta uniforme e decisa in merito alla questione, esaspera l’incertezza in merito alla questione. Certo, la Commissione ha dichiarato di voler promuovere scambi di buone pratiche tra gli Stati membri, ma fino a che punto questo metodo può essere incisivo ed efficace nel perseguimento di un’Unione Europea più inclusiva?
Da una parte, la CGUE sembra escludere dall’ambito di applicazione delle direttive sulla parità di genere le persone trans che non intendono sottoporsi al cambio di sesso. Dall’altra, la Corte EDU ammette, un po’ approssimativamente, l’identità di genere come base di discriminazione vietata ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione EDU ma, adagiandosi sulla dottrina del margine di apprezzamento, omette di depatologizzare il processo di riconoscimento del genere.

Come accennato, sono soprattutto le risoluzioni del Parlamento europeo e dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a gettare le basi per la definizione di un diritto all’identità di genere nel contesto europeo. Da un punto di vista strettamente giuridico, però, questi strumenti non vincolano gli Stati membri; ciononostante tali risoluzioni hanno un importante impatto sulla politica europea e si spera che possano essere una delle spinte verso un’autentica Union of Equality.

Alla luce di quanto detto, assicurare il diritto all’identità di genere significherebbe, pertanto, proteggere la comunità trans da violenze fisiche e psicologiche ed assicurare ad essa una normale integrazione nella società di oggi, rimuovendo gli ostacoli burocratici e sopperendo alle lacune giuridiche. Questo vuole dire, inter alia, che alle persone trans dovrebbe essere garantito un processo di riconoscimento del genere preferito che sia il più snello possibile e che sia esente da requisiti medici di qualsivoglia natura.

 

[1] Il post sulla pagina personale Facebook di Elliot Page, attraverso il quale l’attore ha manifestato il suo coming out, disponibile qui: https://www.facebook.com/TheElliotPage/photos/a.10150095976012449/10158082658817449/

[2] Senato della Repubblica, Disegno di legge (Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità), n. 2005. XVIII Legislatura, 4 novembre 2020, disponibile qui: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1179390/index.html

[3] L’iter del ddl Zan, sul sito web della Camera dei deputati, disponibile qui: https://www.camera.it/leg18/126?tab=1&leg=18&idDocumento=569&sede=&tipo=

[4] ILGA Europe, “Hungary rolls back legal protections, puts trans and intersex people at risk”, 19 maggio 2020, disponibile qui: https://www.ilga-europe.org/resources/news/latest-news/hungary-rolls-back-legal-protections-puts-trans-and-intersex-people-risk

[5] Hogan sostiene che il concetto di identità sessuale non sia univoco, ma comprenda una gamma di argomenti tra cui figurano, ad esempio, il sesso biologico, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Per approfondimenti, P.C. Hogan, “Sexual Identities: A Cognitive Literary Study”, Oxford University Press, 2018.

[6] I Principi di Yogyakarta (YP) sono una serie di princìpi per la protezione dei diritti umani relativamente all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Essi sono stati adottati a Yogyakarta nel 2006 da un gruppo di esperti sui diritti umani. Il 10 novembre 2017 un gruppo di esperti ha pubblicato ulteriori principi – I Principi di Yogyakarta più 10 (YP+10) – che si aggiungono al documento originale e che riflettono gli sviluppi del diritto e della pratica internazionale dei diritti umani dopo i Principi del 2006. Il nuovo documento contiene anche 111 “obblighi statali aggiuntivi”, relativi a settori quali la tortura, l’asilo, la privacy, la salute e la protezione dei difensori dei diritti umani. Il testo completo dei Principi di Yogyakarta e dei Principi di Yogyakarta più 10 è disponibile qui: www.yogyakartaprinciples.org

[7] Brink (van den) M., Dunne P., “Trans and intersex equality rights in Europe – a comparative analysis”, novembre 2018, disponibile qui: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/trans_and_intersex_equality_rights.pdf

[8] Ibidem.

[9] Corte di Giustizia UE, sentenza C-13/94, 30 aprile 1996, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:61994CJ0013&from=EN. La Direttiva cui si fa riferimento nel caso è la Direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A31976L0207

[10] Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione), disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32006L0054

[11] Risoluzione del Parlamento europeo del 28 settembre 2011 sui diritti umani, l’orientamento sessuale e l’identità di genere nel quadro delle Nazioni Unite, disponibile qui: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-7-2011-0427_IT.html

[12] Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014 sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere, disponibile qui: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-7-2014-0062_IT.html

[13] Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Human Rights and Gender Identity, 29 luglio 2009, disponibile qui: https://rm.coe.int/16806da753

[14] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorsi n. 79885/12, 52471/13 e 52596/13, 6 aprile 2017, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-172913

[15] Per “margine d’apprezzamento” si intende un metodo di interpretazione della Corte EDU nell’applicare le norme della Convenzione EDU, secondo il quale viene concesso agli Stati membri un certo livello di discrezionalità nell’implementazione della Convenzione. Tale dottrina si basa sulla constatazione che le autorità nazionali, avendo una più profonda conoscenza della realtà politico-sociale specifica del proprio Stato, si trovino, in certi casi, in una posizione più favorevole rispetto alla Corte EDU. Esso non compare esplicitamente nella Convenzione, ma è stato menzionato per la prima volta nel caso Irlanda c. Regno Unito del 18 gennaio 1978. Per approfondimenti, Macdonald R. St. J., “The Margin of Appreciation in the Jurisprudence of the European Court of Human Rights” in Collected Courses of the Academy of European Law, 1992.

[16] Brink (van den) M., Dunne P., op. cit., 2018.

[17] Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Risoluzione 2048 (2015), adottata il 22 aprile 2015 http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-en.asp?fileid=21736

[18] Nella strategia, per quanto riguarda questo passaggio, si fa riferimento al lavoro della Commissione Europea Legal gender recognition in the EU: The journeys of trans people towards full equality, giugno 2020, disponibile qui: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/legal_gender_recognition_in_the_eu_the_journeys_of_trans_people_towards_full_equality_sept_en.pdf

[19] Ibidem, p. 74.

[20] Con “Employment Equality Directive” ci si riferisce alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32000L0078&from=EN

[21] Per maggiori informazioni, la strategia dell’Unione Europea per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ è disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020DC0698&from=ES

[22] Si fa riferimento all’indagine condotta dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) dal titolo “A long way to go for LGBTI equality”, pubblicata il 12 maggio 2020 e disponibile qui: https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2020-lgbti-equality-1_en.pdf

Martina Molinari

Martina Molinari, classe 1996, laureata in Scienze Internazionali, dello Sviluppo e della Cooperazione, ha conseguito la laurea magistrale European Legal Studies presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino con tesi in diritto comparato (“Intersexuality and the Law: Current European Approaches”). Appassionata di diritti umani ed Unione Europea, collabora con StraLi, associazione torinese per la Strategic Litigation e frequenta il master di primo livello in Studi e Politiche di Genere presso L’Università Roma Tre. Collaboratrice dell’area di diritto internazionale, con particolare interesse per i diritti umani fondamentali ed il diritto alla non discriminazione all’interno dell’Unione Europea.

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