Il Banco di Napoli e la fusione col Gruppo Intesa Sanpaolo
Di grande attualità, nelle settimane che hanno preceduto la fine del 2018, è stata la fine di secoli di storia che hanno visto come protagonista il Banco di Napoli.
Ritenuto da più parti della storiografia moderna un esempio di sistema creditizio all’avanguardia e che per secoli ha contribuito a favorire quello sviluppo della società meridionale nelle sue alternative e molteplici forme di impresa, la bandiera del credito partenopeo vede ora concretizzarsi l’epilogo di un lungo percorso di crisi iniziato negli anni ’90.
L’alba della storia del Banco di Napoli può essere fatta risalire intorno alla metà del XV secolo d.C., nella fase embrionale del periodo rinascimentale, inserendosi dunque e condividendone, tutte le trasformazioni economiche, politiche e culturali dell’epoca.
Il filone storiografico tradizionale individua la data di nascita del Banco di Napoli intorno alla metà del XVI secolo, ma alcuni studi molto accreditati – svolti dal prof. Domenico De Marco, esperto di Storia Economica ed Accademico dei Lincei, e da Eduardo Nappi, che da anni studia e lavora presso l’Archivio Storico – hanno portato alla luce documenti riguardanti la cassa di deposito della Casa Santa dell’Annunziata che portano indietro nel tempo di quasi un secolo le lancette di questa data di nascita, fino al 1463.
Dai documenti ritrovati da questi due studiosi, ma anche da altri lavori realizzati nei secoli precedenti, si può affermare che alle origini dell’attività dei banchi pubblici napoletani ci furono le “casse di deposito” delle case sante, tra cui la più antica è quella suddetta.
Anche altre istituzioni pie, come il Conservatorio di Sant’Eligio e l’Ospedale degli Incurabili, facevano operazioni bancarie prima che divenissero veri e propri banchi[1].
Nel 1539, su iniziativa di Gaetano Da Thiene, vedeva la luce a Napoli il Sacro Monte della Pietà, istituto dal volto non nuovo in Italia dato che era diffuso negli Stati della Chiesa già dalla metà del ‘400. Nella sostanza si trattava di un’ associazione volta a fungere da assistenza ai bisognosi attraverso il prestito di denaro su pegno e ad un tasso molto basso.
Quattro anni dopo, nel 1543, il suo capitale era già aumentato a 4mila ducati, grazie alle donazioni e ai lasciti ricevuti. In proporzione, venivano allargate le maglie dei prestiti gratuiti sui pegni di modesta entità e anche quella dei prestiti su pegni di consistente entità, sui quali si praticava, per compenso spese, un interesse del 6,50%[2].
Dopo qualche decennio veniva fondato il Monte dei Poveri, nel palazzo di via Tribunali che ospita oggi la sede dell’Archivio storico della Fondazione “Istituto Banco di Napoli”.
Tra il 1584 e il 1661, questi Monti o Casse di deposito, situate presso le istituzioni pie e caritative della capitale del Regno di Napoli, vengono trasformate in Banchi pubblici: Banco di Pietà, Banco dei Poveri, Banco dell’Annunziata, Banco del Popolo, Banco dello Spirito Santo, Banco di Sant’Eligio, Banco di San Giacomo, Banco del Salvatore.
A questo punto della storia, dirompente diviene l’influenza di importanti fattori esterni. Al tramonto del secolo XV, la scoperta dell’ otro mundo e le conseguenti trasformazioni nella politica economica della Corona spagnola, determinavano una imponente inflazione ed una forte rarefazione della moneta metallica circolante.
Era evidente che l’economia continentale risentisse di un fattore imprevedibile e così scioccante per i flussi dei mercati dell’epoca. Fu così che i Monti e Banchi pubblici cominciarono ad articolare in modo diverso i loro interessi e dunque le relative attività.
La rapida e notevole espansione dei banchi pubblici fu dovuta alla difficile situazione finanziaria del Regno che aveva comportato il progressivo declino dei numerosi banchi privati operanti a Napoli e ad una forte carenza di circolazione monetaria.
Furono proprio quelli gli anni in cui si ricorse in maniera massiccia ad un particolare strumento cartaceo, già emesso dai Banchi, denominato fede di credito, destinato a diventare di lì a poco la base della circolazione monetaria nel Regno di Napoli[3].
Affinché potessero legalmente circolare era necessaria “la girata”, dopodiché erano concesse per qualunque somma, anche per pochi ducati, ma non potevano circolare con un semplice passaggio di mano.
Questo strumento cartaceo poteva essere utilizzato da coloro che avevano versato i loro fondi presso un banco e potevano emettere anche più fedi di credito per pagare i fornitori, che lo accettavano in pagamento, determinando un movimento di fondi che potrebbe essere paragonato a quello dell’attuale conto corrente.
Grazie alla gran mole di testimonianze e cronache dell’epoca passate agli archivi, le fedi di credito hanno poi assunto il ruolo di prezioso documento storico, facendo dei banchi pubblici napoletani una pietra miliare nella storia delle istituzioni creditizie.
A questo periodo di fioritura demografica, civile ed economica, la crescita urbanistica, l’affermazione dell’arte e della cultura che ha attraversato gran parte del XVI secolo, ha fatto poi da contraltare un deciso declino delle fortune dei Vicerè spagnoli nel Regno di Napoli.
Causa anche fattori naturali come l’eruzione del Vesuvio nel 1631 e di tipo sanitario come la peste del 1656, il malessere sociale per la mancanza di derrate agricole e per la opprimente pressione fiscale applicata dalla Corona, sfociava nella rivolta popolare guidata da Tommaso d’Amalfi, meglio noto come Masaniello, a cavallo tra il 1647-48[4].
Era iniziato un periodo storico di decadenza che venne accompagnato dalla breve dominazione austriaca.
Nel 1735, con l’ascesa al trono di Carlo di Borbone, Napoli tornava ad essere la capitale di un regno indipendente.
Nel 1794, a causa dei dissesti finanziari che precedettero la guerra con la Francia in piena rivoluzione, avvenne l’unificazione dei sette banchi ancora in vita in un unico istituto di credito, il Banco Nazionale di Napoli.
Nel 1806 Giuseppe Bonaparte si lanciò in un’opera di razionalizzazione del sistema creditizio, attraverso l’unificazione dei banchi della Pietà, dei Poveri, di Sant’Eligio e dello Spirito Santo nel nuovo Banco dei Privati.
L’obiettivo di questa manovra era soprattutto la tutela degli interessi degli “apodissari”, i possessori delle fedi di credito. Inoltre, con la soppressione dei Banchi del popolo e del Salvatore (il Banco dell’Annunziata fallì durante la dominazione austriaca nel 1702), il Banco di San Giacomo divenne il Banco di Corte, con il preciso compito di svolgere il servizio di tesoreria per lo Stato.
Nel 1808 Gioacchino Murat costituì il nuovo Banco Nazionale delle Due Sicilie che nel 1809, dopo la fusione con il Banco di Corte (che a sua volta aveva assunto le operazioni del Banco dei Privati), modificò la propria denominazione in Banco delle Due Sicilie.
Dunque, fu proprio in questo frangente storico che si concretizzò l’effettiva estinzione, con fusione nella nuova entità, dei vecchi Banchi, che fino ad allora avevano formalmente mantenuto il loro tradizionale regime giuridico.
Il Banco delle Due Sicilie continuò l’attività dei banchi pubblici, svolgendo la funzione di ramo finanziario della Corte da un lato, e curando i rapporti con il mondo commerciale e industriale napoletano dall’altro[5].
In seguito alla restaurazione del 1815 Ferdinando I mantenne intatta la nuova struttura del Banco voluta dal suo predecessore. Venne istituita anche una nuova sezione, denominata Cassa di Sconto, adibita a curare lo sconto degli effetti cambiari della clientela privata.
Nel 1820 il ministro del Tesoro Luigi de’ Medici, esponente di spicco del ramo napoletano dei Medici di Firenze, dispose l’apertura di una seconda tesoreria pubblica nella sede del Banco di Spirito Santo. Anche questa istituzione è giunta al culmine della sua storia solo qualche anno fa.
All’indomani dei moti del ‘48 le filiali di Palermo e Messina si distaccarono dal Banco delle due Sicilie, prendendo la denominazione di Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro, che in seguito al processo di unificazione dell’Italia assunse la veste di Banco di Sicilia.
Nel 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, l’Istituto cambiò denominazione in Banco di Napoli e fu riconosciuto come ente pubblico, cui fu affidata la funzione di istituto di emissione.
Nel 1863 entrò in funzione la Cassa di Risparmio, istituita dal Banco di Napoli l’anno precedente e incorporata nel 1864 per proseguire le operazioni come servizio del Banco.
Negli stessi anni, un decreto regio diede il diritto di emettere carta moneta al Banco e ad altri cinque istituti di credito: Banca Nazionale del Regno d’Italia (nata dalla fusione tra la Banca di Genova e la Banca di Torino), Banca Nazionale di Toscana, Banca Toscana per le Industrie e il Commercio d’Italia, Banco di Sicilia, dopo il 1870 fu aggiunta la Banca Romana.
La differenza era nel carattere giuridico di questi istituti: solo il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia erano pubblici, gli altri erano privati.
L’attività del Banco di Napoli era incentrata soprattutto sul finanziamento dell’industria e dell’agricoltura napoletane, sul credito fondiario (dal 1866) e sul credito agrario (dal 1902).
Ingente fu anche il contributo offerto alle opere di risanamento edilizio di Napoli e di numerose città meridionali; sovvenzionò la costruzione di molte linee ferroviarie italiane e continuò l’opera assistenziale a beneficio di ospedali, asili, scuole, orfanotrofi.
Agli albori del XX sec. il governo affidò all’Istituto il servizio di tutela e di trasmissione del risparmio degli emigrati italiani all’estero, grazie al quale il Banco iniziò ad intrattenere rapporti con l’universo bancario internazionale.
Bisogna sottolineare che fino a quel momento se gli emigrati intendevano spedire soldi in Italia erano gravati da esose commissioni, che falciavano i loro risparmi.
E fu grazie a questa importante evoluzione che la mole di affari crebbe rapidamente e l’organizzazione e i servizi offerti furono potenziati, in particolare a New York, dove dal 1906 fu stabilito un ispettorato, tramutato poi in agenzia qualche anno dopo.
Nel 1913, in seguito alla guerra di Libia, vennero inaugurate le filiali di Bengasi e Tripoli, che diedero sbocco ad un nuovo orizzonte di attività per il Banco anche nel continente africano[6].
In seguito allo scandalo che colpì la Banca Romana vedeva la luce la Banca d’Italia. Essa nacque dalla fusione delle prime tre banche sopracitate, per cui gli istituti di emissione, all’indomani del fallimento della Banca Romana, divennero tre: Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
A partire dal 1926 la facoltà di emettere carta moneta fu riconosciuta solo alla Banca d’Italia. Tuttavia si deve sottolineare che in quel momento storico il Banco di Napoli, Istituto di Credito di Diritto Pubblico, poteva vantare ingenti risorse presso i suoi forzieri: erano presenti riserve di oro pari a circa un miliardo di lire di allora. Una somma rilevante, di gran lunga più cospicua rispetto alle riserve di tutte le altre ex banche di emissione considerate nel loro insieme.
Al Banco di Napoli venne data anche l’autorizzazione a operare con il Credito Agrario, oltre che Fondiario è proprio in ragione di ciò vennero fondate apposite Sezioni Speciali dove venivano esercitate queste operazioni di credito specializzate.
Un ulteriore importante passaggio di questa articolata storia avvenne nel 1938: nacque l’ISVEIMER. A stretto giro con il Banco, rappresentò a tutti gli effetti il vettore finanziario attraverso il quale lo stato perseguì la politica dello sviluppo industriale del mezzogiorno.
Dopo il secondo conflitto bellico mondiale il Banco, l’Isveimer e la Cassa del Mezzogiorno assunsero le vesti di volano economico e industriale del meridione d’Italia.
Nel 1983 il prof. Ferdinando Ventriglia giunse alla direzione del Banco di Napoli, un figura ritenuta di grande affidabilità in quanto già dirigente del Banco, poi direttore generale del Tesoro e amministratore delegato del Banco di Roma.
Quello degli anni ’80 è passato agli archivi come periodo di grande sviluppo, anche se talune contraddizioni degli indicatori economici, anche in conseguenza dell’adozione dei coefficienti di Basilea, mostrarono un risvolto della medaglia negativo[7].
Tra il 1993 e 1994 la situazione degenerò, alcuni eventi concatenati determinarono il commissariamento del Banco di Napoli da parte della Banca d’Italia: la scomparsa del Prof. Ventriglia, le pesanti perdite che afflissero le casse del bilancio in seguito alla chiusura dei rubinetti del credito da parte della Cassa per il Mezzogiorno e la gestione clientelare del Banco che si riteneva essere stata ormai messa a nudo[8].
Alla fine del 1994 il Banco era la settima banca italiana con 810 sportelli e 13 controllate che operavano in tutto il mondo, ma erano giunti oramai i tempi della fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che per le modalità in cui era stato sancito, stava mettendo in crisi tantissime imprese.
In questo clima maturò la debacle dell’istituto che aveva come maggiore azionista una fondazione pubblica, ossia la Fondazione Banco di Napoli, allora presieduta da una personalità di rilievo come Gustavo Minervini che, in seguito alle perdite di bilancio del Banco (2,2 miliardi di euro tra 1994 e 1995), fu costretta a mettersi da parte lasciando la patata bollente nelle mani del Tesoro che mise in atto un piano di salvataggio molto complesso.
La via della privatizzazione del Banco sembrava l’unica soluzione da esperire e al fine di percorrerla fu scelto di seguire una strada precisa: bisognava trasferire le sofferenze e gli incagli dell’istituto su di un nuovo soggetto giuridico, con lo scopo di recuperare i crediti.
Questa nuova entità aveva l’onere di accogliere quasi 9 miliardi di sofferenze, incagli, crediti ristrutturati o a rischio, pagandoli 6,4 miliardi di euro al netto delle svalutazioni per perdite previste (la valutazione media fu intorno al 70% del valore nominale, tripla rispetto ai valori di mercato attuali).
Per acquistare il pacchetto di quelli che ora si definirebbero “npl” (crediti non performing, difficili) fu necessario un prestito dallo stesso Banco di Napoli a un tasso oneroso (all’inizio era sopra il 9%)[9]. La strategia di questo intervento da parte dell’istituto di vigilanza nazionale si concretizzò nella creazione di una S.G.A. (Società per la Gestione delle Attività), una bad bank in cui vennero dirottati i crediti incagliati e di dubbia esigibilità presenti nelle casse del Banco di Napoli.
Questo intervento venne ritenuto da una parte dell’opinione pubblica di vitale importanza per la sopravvivenza dell’istituto, giacché, era necessario riportare i conti presenti nei libri di nuovo in linea con i parametri di Basilea.
L’azienda bancaria denominata Banco di Napoli S.p.A., che da Istituto di Diritto Pubblico si trasformò in Società per Azioni, e la Fondazione Banco di Napoli che aveva lo scopo istituzionale di curare l’attività culturale e benefica svolta in precedenza dell’Istituto, furono le due entità in cui si ripartì, agli albori degli anni ’90, quello che fino ad allora era stato l’asse portante dell’attività creditizia nel mezzogiorno.
Furono la Banca Nazionale del Lavoro e l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni ad acquisire, nel 1997, la maggioranza delle azioni del Banco di Napoli S.P.A. All’inizio del nuovo millennio, la Holding Banco di Napoli proprietaria del Banco di Napoli S.p.A. fu a sua volta acquisita dal Sanpaolo IMI S.p.A. (già erede dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino).
Il 31 dicembre del 2002 fu fatta la fusione per incorporazione del Banco di Napoli nel Sanpaolo IMI.
Nel 2007 si ebbe l’ulteriore fusione tra Sanpaolo IMI e Banca Intesa con la formazione del maggior gruppo bancario italiano. Nel settembre dello stesso anno l’ex rete Banco di Napoli, limitatamente alle regioni Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, fu scorporata dalla Banca Intesa Sanpaolo costituendo di nuovo il Banco di Napoli S.p.A., facente parte del citato gruppo bancario.
Il tracollo e la conseguente vendita del Banco di Napoli ebbe effetti a dir poco destabilizzanti per il Mezzogiorno, anche se una parte dell’opinione pubblica ha definito questo frangente storico come male necessario per scongiurare un esito peggiore.
Nacque dunque la S.G.A., quella società per la gestione delle attività con sede a Napoli, la quale rilevò dal Banco circa 6.4 miliardi di euro di crediti inesigibili o incagliati, che rappresentavano un buco nero, il motivo stesso del fallimento di una delle più antiche istituzioni creditizie d’Italia, con alle spalle una storia di 500 anni.
Da quello che risulta dai bilanci, la bad bank è riuscita a recuperare oltre il 90 per cento di quei crediti. In altre parole, il crack del Banco ha restituito, fino ad oggi, quasi 6 miliardi di euro.
Se solo si vuole tener conto che la più ottimistica previsione di recupero, all’epoca del salvataggio del Banco, non andava oltre il 50% dei “crediti spazzatura”, sembra legittimo che una parte degli addetti ai lavori affollassero le colonne dei quotidiani partenopei per rivendicare la verità su quanto allora stesse accadendo[10].
L’attuale presidente della Svimez, l’economista Adriano Giannola[11]puntava l’accento sul fatto che, “i risultati raggiunti dalla S.G.A. dovevano indurre ad una seria riflessione circa la qualità dell’attivo patrimoniale del Banco e su come fu gestita l’intera vendita privando l’economia del Sud di un punto di riferimento”.
Il 26 novembre del 2018: il Banco di Napoli viene incorporato definitivamente dal Gruppo Intesa San Paolo, attraverso lo strumento giuridico della fusione per incorporazione, dando il naturale sbocco ad una operazione iniziata circa dieci anni fa.
Nella sostanza muta la ragione sociale, i 2 milioni e 200 mila correntisti cambiano Iban e si vedranno proiettati in un mega colosso con sede a Torino.
L’insegna resterà per altri 20 anni solo all’ingresso dei 533 sportelli, dopodiché anche quella sarà superata. Ad andare incontro ai cambiamenti anche la distribuzione geografica degli sportelli.
La metamorfosi nell’organizzazione è percepibile: prima che avvenisse la fusione, erano 731 gli uffici aperti al pubblico, 2 le filiali all’estero (Londra e Bruxelles), un ufficio di rappresentanza (Bruxelles), 9.500 i dipendenti.
Conti alla mano sono 533 gli sportelli odierni e poco meno di 5500 dipendenti.
Anche per il sindacato il passaggio a IntesaSanpaolo significa la perdita di autonomia. Spiega così le sue ragioni il segretario generale FISAC, Susy Esposito:
“quando si sposta il cervello direzionale di un’azienda così importante al Sud resta un lavoro a basso valore aggiunto, significa dire a tutto il mondo che questa parte del Paese non potrà mai avere una classe dirigente del domani, perché non si fa lavoro di qualità e non si costruisce”. Secondo la Esposito sarebbe questo il terreno di scontro più difficile da dirimere tra i contendenti, e dunque, quella che poi emerge come “la vera scommessa del governo e degli enti locali”. Infine, chiosa con l’auspicio che “almeno la scuola di formazione di tutto il personale Intesa Sanpaolo avesse sede a Napoli”[12].
[1] Fondazione Banco di Napoli, Storia del Banco di Napoli.
Disponibile qui: http://www.fondazionebanconapoli.it/storia-del-banco-di-napoli2/
[2] Luigi De Rosa, L’Archivio del Banco di Napoli e l’attività dei Banchi pubblici napoletani.
Disponibile qui:
[3] C.N.C.B.N., La storia del Banco di Napoli.
Disponibile qui:
[4] Marco Scarfiglieri, Storia di Napoli: i Viceré e la grande crisi, 4 dicembre 2016.
Disponibile qui:
[5] Domenico Demarco, Storia del Banco di Napoli, volume II, Il Banco delle due Sicilie (1808-1863), Napoli, Banco di Napoli, 1958.
[6] Mappatura storica Intesa San Paolo, Banco di Napoli.
Disponibile qui:
[7] Elisabetta Montanaro, Le regole di Basilea e modelli di vigilanza: quale convergenza?, 2013.
Disponibile qui: https://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/download/11361/pdf
[8] AltaTerradiLavoro, Storia del Banco di Napoli, 25 dic 2017.
Disponibile qui: https://www.altaterradilavoro.com/storia-del-banco-di-napoli-story-of-the-banco-di-napoli/
[9] LaRepubblica.it, Il ritorno della SGA: la bad bang Della Banco di Napoli e le speranze del Tesoro, 28 giugno 2017.
Disponibile qui: https://www.repubblica.it/economia/2017/06/28/news/sga_bad_bank_banco_di_napoli-169360347/
[10] ImolaOggi, Ecco la scomoda verità sul fallimento del Banco di Napoli, 24 novembre 2018.
Disponibile qui: https://www.imolaoggi.it/2018/11/24/ecco-la-scomoda-verita-sul-fallimento-del-banco-di-napoli/
[11] Giannola è stato anche membro dell’ultimo consiglio d’amministrazione della Fondazione prima della cessione insieme con altri economisti e giuristi come Augusto Graziani, Federico Martorano e Vittorio De Nigris.
[12] Tiziana Cozzi, Cala il sipario sul Banco di Napoli, 26 novembre 2018.
Disponibile qui: https://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/11/26/news/cala_il_sipario_sul_banco_di_napoli-212635304/
Fonte immagine: https://www.destinazionematera.info/evento.php?pid=2451
Luigi Pone, nato a Napoli il 6/10/1985.
Laurea specialistica in Scienze della pubblica amministrazione, con voti 110 e lode.
Tesi di Laurea in Giustizia Costituzionale italiana e comparata.
Titolo Tesi: “La Corte Costituzionale garante della legge elettorale; riforma della Carta e implicazioni sul sistema di giustizia costituzionale.
Area di interesse: politica economica.
Interessi: politica e attualità, evoluzione del diritto costituzionale e del sistema di diritto amministrativo in chiave nazionale ed europea.
Lavoro attuale: consulente commerciale presso azienda di noleggio apparecchiature informatiche.
Obiettivi futuri: lavorare nella pubblica amministrazione nazionale o locale.