venerdì, Aprile 19, 2024
Criminal & Compliance

Il caso Talluto. L’untore dell’HIV condannato a 24 anni: la vicenda giudiziaria dal 2014 ad oggi

Valentino Talluto, un giovane ormai noto come “l’untore di Roma” veniva condannato dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma alla pena di 24 anni di reclusione per aver volutamente contagiato con il virus dell’HIV più di 30 persone. La decisione che ha rideterminato la pena in senso sfavorevole all’imputato, è stata il frutto di un nuovo giudizio che la Corte di Cassazione aveva concluso circa un anno fa quando, dopo aver confermato la responsabilità dell’imputato, aveva restituito gli atti ad un’altra sezione della Corte di Assise di Appello in modo che riesaminasse quattro dei casi di contagio dai quali era stato assolto. La pena di condanna in Appello era di 22 anni di reclusione per aver cagionato lesioni gravissime alle vittime, con la circostanza del dolo eventuale.

La vicenda giudiziaria che ha concepito quest’ultima decisione ha composto un argomento assai discusso rispetto alla tematica dell’incontrollabile diffusione di tale malattia ed ha permesso di chiarire in diritto perché ed in base a quali elementi, un caso come questo non configuri il gravissimo reato di epidemia, bensì quello delle lesioni personali.

I punti salienti del processo

Tutto iniziò il 17 novembre 2014 quando una coraggiosa donna presentò la denuncia-querela che indicava Valentino Talluto quale colpevole di averle trasmesso il virus dell’HIV intenzionalmente, dopo essersi accorta che lui stesso le aveva inviato un certificato medico falso, attestante la sua negatività rispetto alla malattia. Da quel momento si iniziò ad indagare sulla vita di Talluto e ben presto si comprese che quella isolata denuncia era stata soltanto “la punta di un iceberg” che portò alla scoperta di altre ragazze che, dopo aver avuto rapporti sessuali non protetti con l’imputato, si erano scoperte ammalate. Quando, in breve tempo, l’imputato fu investito da una pioggia di denunce, fu evidente alle autorità giudiziarie che egli aveva non solo dolosamente contagiato decine di persone, ma anche mandato avanti tale proposito per anni, durante i quali contattava moltissime donne in chat, presentandosi come un uomo di inequivoca affidabilità, tacendo la propria condizione di sieropositività ed infettandole mediante rapporti sessuali non protetti.

In base a tali risultanze, nell’ottobre del 2017 arrivò la prima condanna e la Corte d’Assise di Roma irrogò a Talluto la pena di 24 anni di reclusione, in quanto colpevole del reato di lesioni gravissime, spuntando il capo d’imputazione per il reato di epidemia dolosa. In realtà, il Pg Simonetta Matone aveva chiesto la pena di 30 anni di reclusione, sostenendo che i fatti inquadravano chiaramente il reato di epidemia poichè l’imputato era stato assolutamente attento al suo obiettivo e le sue condotte avevano costituito “un vero e proprio attentato alla salute pubblica”, “un’epidemia scientemente provocata”[1]. Questa qualificazione giuridica, però, fu espunta.

Dopo un anno circa, nel dicembre del 2018, la Corte d’Assise d’Appello riesaminò il caso e pose, in particolare, due punti fermi: in primo luogo, assolse l’imputato con formula dubitativa “per non aver commesso il fatto” rispetto a quattro casi di donne che, stando all’accusa, invece, erano state contagiate da lui; in secondo luogo, ridusse la pena a 22 anni di reclusione per le lesioni gravissime commesse con dolo eventuale. Anche la Corte d’Assise d’Appello, peraltro, ritenne di non dover riconoscere la configurazione del reato di epidemia.

Da ultimo, la Corte di Cassazione nel 2019 confermò la condanna a 22 anni di carcere per Valentino Talluto in quanto responsabile del reato di lesioni gravissime e dispose a carico dell’imputato un nuovo giudizio d’Appello su istanza delle parti civili, per riesaminare quattro episodi di contagio che gli erano stati attribuiti soltanto in primo grado.

La Corte di Cassazione, con Sent. n. 48014 del 2019, tra i profili che ha affrontato per ognuno dei molteplici ed articolati punti in contestazione, ha inteso riservare un ampio spazio alla trattazione del tema della differenza tra le due ipotesi criminose delle lesioni gravissime e dell’epidemia, concludendo poi per l’attribuibilità della condotta di Talluto alla seconda soluzione.

In via generale, il codice penale prevede due delitti in materia di contagio: l’art. 438 c.p., che disciplina l’epidemia dolosa, l’art. 452 c.p., che regola l’epidemia colposa. In riferimento al caso de quo, la fattispecie rilevante è la prima; questa si realizza quando taluno volontariamente “cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”, i quali intendendosi “microorganismi capaci di produrre patologie infettive”[2] ed il codice punisce tale condotta con l’ergastolo[3]. Il delitto è un reato comune, in quanto può essere commesso da “chiunque”, a forma vincolata, dovendo l’agente cagionare l’epidemia con modalità ben precise, ossia come anticipato “mediante la diffusione di germi patogeni”, mentre non è univoca l’analisi dottrinale sulla natura del reato di danno o di pericolo. Potrebbe sembrare un reato di danno rispetto al danno provocato alla salute della collettività, in quanto la diffusione presuppone il pericolo di un’ulteriore potenzialità di espansione del contagio. Tuttavia, secondo molti, l’epidemia è un reato di pericolo concreto che sussiste laddove vi sia il rischio di una diffusione incontrollata del contagio, ossia si avverta una tangibile minaccia per la salute pubblica (senza che rilevi il numero di soggetti infettati, ma solo la potenzialità di diffusione indeterminata della malattia).[4] La giurisprudenza[5] sul punto ha stabilito, di recente, che l’epidemia è caratterizzata al contempo da un evento di danno e da un evento di pericolo, essendo il primo la manifestazione della malattia a causa di germi patogeni, il secondo la successiva diffusione della malattia ad altre persone.[6]

Orbene, la Suprema Corte, proprio sulla base della formulazione letterale corredata dalle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali appena fornite sul reato di epidemia di cui all’art. 438 c.p., ha ritenuto di dover escluderne la configurabilità per le condotte poste in essere dall’imputato Talluto nel caso che le è stato sottoposto.

L’esclusione del reato di epidemia

La Cassazione ha sottolineato che il reato di epidemia non è configurabile per tali motivazioni:

Ciò che mancherebbe, nel caso di specie, è proprio “l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come hanno precisato le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente illimitata (Sez. Un., Sent. n. 576 del 11-01-2008)[7]. Talluto infettò un grosso numero di persone che però non era così ingente da causare un’epidemia e gli atti avvennero in un tempo molto ampio di quasi nove anni. Pertanto, l’ampiezza del lasso temporale in cui avvennero i contagi ed il fatto che non tutte le donne che ebbero rapporti sessuali non protetti con lui non fossero state infettate, depongono nel senso che la fattispecie dell’epidemia risulta carente rispetto agli elementi costitutivi.

Cionondimeno, secondo la Corte, tali rilievi “militano nel senso della carenza, nella vicenda in esame, della connotazione fondamentale del fenomeno epidemico, che giova a qualificare la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto per l’incolumità pubblica, ossia la facile trasmissibilità della malattia ad una cerchia ancora più ampia di persone“.[8]

All’esito di tutte queste argomentazioni, dunque, l’imputato Valentino Talluto è stato ritenuto colpevole del reato di lesioni personali gravissime per aver contagiato con il virus dell’HIV decine di sue ex partner e gli è stata irrogata, per questo, una pena quantificata in 22 anni di reclusione.

Invero, se le lesioni personali (che si hanno quando un soggetto cagiona a taluno una lesione personale dalla quale deriva una malattia del corpo o della mente ex art. 582 c.p.) sono gravissime (ex art. 583 c.p.), quando dal fatto deriva una malattia certamente o probabilmente insanabile, in ossequio a quanto stabilito dai giudici di primo grado, la condotta di Talluto si inquadra proprio in tale reato.

Peraltro, vi è anche un rilievo da considerare a priori assolutamente non trascurabile: mentre la fattispecie dell’epidemia si pone nell’ottica di tutelare la salute pubblica come benessere psico-fisico della collettività, la ratio delle lesioni personali gravissime si colloca nell’esigenza di tutelare l’incolumità personale, individuale, del singolo, effettivamente pregiudicata.

Il discorso sulla qualificazione giuridica della vicenda si può ritenere, dunque, nuovamente confermato e finalmente, dopo anni di dubbi, l’Appello-bis è riuscito a chiudere il cerchio di questa lunga e dolorosa vicenda, aggravando nuovamente ed in via definitiva la posizione dell’imputato, disponendo la riforma della pena che, nei 24 anni di reclusione irrogati oggi, stabilisce la sua penale responsabilità anche per gli ultimi 4 casi che sembravano potersi “salvare”.

 

 

[1] “Roma, sieropositivo contagiò decine di partner: Talluto condannato a 22 anni in appello”, www.Repubblica.it, Riv. Roma, 11 dicembre 2018

[2] MICHELI M., “Perché chi viola la quarantena non può essere accusato di “procurata epidemia”, tratto da www.palmer-legal.com

[3] Originariamente per tale reato era stabilita la pena di morte quando morivano almeno due persone. Questa è stata oggi abrogata.

[4] MANGIA M., “Riflessioni sulla configurabilità del reato di “epidemia” nei casi di contagio da COVID-19”, 21 aprile 2020, tratto da www.4clegal.com

[5] Cass. Pen., Sez. IV, 12 dicembre 2017, n. 91233

[6] Idem

[7] idem

[8] idem

Immagine tratta da www.unsplash.com

Avv. Alessia Di Prisco

Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli. Iscritta all'Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano. Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo "Il dolo eventuale", con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello. In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici. Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere. Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell'organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.

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