venerdì, Marzo 29, 2024
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“Il collante che tiene insieme il web”: la Corte EDU si pronuncia sul ruolo degli hyperlink

Rispetto all’ambito del cyberspazio e del web, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dimostrato di avere una posizione aperta e favorevole, tutelando in maniera molto ampia i diritti fondamentali connessi al web, quali la tutela della privacy – protetta dall’articolo 8 CEDU[1] – e la protezione della libertà di espressione.

Tale approccio è stato confermato nella recentissima sentenza della Corte, pubblicata in data 4 dicembre 2018, sul caso Magyar Jeti ZRT c. Ungheria [2] concernente l’utilizzo degli hyperlink, ovverosia i collegamenti ipertestuali esterni utilizzati dagli utenti per riferirsi ad un materiale o contenuto multimediale presente su un diverso portale o sito, in relazione all’art. 10 della Convenzione. Secondo tale disposizione, è necessario che gli Stati tutelino il diritto di ogni individuo “di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”; qualora poi le autorità decidano di limitare questa libertà, è necessario che tali restrizioni siano “previste dalla legge” e siano “misure necessarie in una società democratica” alla tutela di alcuni interessi dominanti: pubblica sicurezza, ordine pubblico, morale e così via.

Per comprendere meglio i contorni della questione, è necessario partire dai fatti che hanno poi portato al ricorso di fronte alla Corte di Strasburgo.

Il ricorrente è un giornale ungherese condannato, in sede nazionale, per diffamazione nei confronti del partito Jobbik, un partito di estrema destra nazionalista e xenofobo, in particolare nei confronti della minoranza di origine rom. I membri del partito affermavano infatti che il giornale aveva leso la reputazione del movimento pubblicando, in un loro articolo, un link che rinviava ad un video di YouTube in cui un rappresentante locale della comunità accusava il partito – a torto – di aver partecipato ad un raid contro una scuola con numerosi studenti rom.

Le corti nazionali avevano condannato il giornale, affermando come gli autori dell’articolo avessero diffuso materiale a contenuto diffamatorio, intimandoli di cancellare il riferimento via hyperlink dall’articolo. In appello, la High Courts confermava la sentenza,  statuendo che un individuo può essere ritenuto colpevole di diffamazione non solo dichiarando il falso, ma anche pubblicando o diffondendo informazioni false generate o che appartengono ad altri individui. Secondo la Corte, inoltre, non è rilevante l’animus dell’agente, che può essere ritenuto imputabile indipendentemente dalla buona o dalla cattiva fede. Portata di fronte alla Corte costituzionale, la questione è stata nuovamente decisa in senso sfavorevole per i ricorrenti: i giudici hanno, infatti, confermato le conclusioni della Corte d’appello, riconfermato la sussistenza del reato di diffamazione anche nel caso in cui l’autore dell’articolo non prenda una posizione sul contenuto dell’hyperlink, ma si limiti a diffonderlo.

I ricorrenti si rivolgono dunque alla Corte EDU lamentando una violazione dell’articolo 10: nella loro opinione, essere stati riconosciuti responsabili per il contenuto presente su un sito terzo e non direttamente controllabile dai ricorrenti costituiva una violazione del principio della libera espressione.

Nel pronunciarsi, la Corte di Strasburgo si concentra in particolare sul ruolo e la natura degli hyperlink nella struttura di Internet. In questo senso, considerando primariamente il web come luogo in cui è possibile accedere a notizie ed informazioni in maniera libera e senza vincoli, i giudici evidenziano come gli hyperlink ricoprano un ruolo centrale, essendo, sostanzialmente, il “ponte” che permette agli utenti di raggiungere un potenzialmente infinito numero di informazioni. È dunque grazie agli hyperlink che tali notizie divengono accessibili agli utenti.

Alla luce di questo specifico ruolo a loro riservato, inserire un hyperlink è un atto sostanzialmente diverso dalla ordinaria pubblicazione di notizie: gli hyperlink sono essenzialmente orientati ad indirizzare gli utenti verso un contenuto esterno, informandoli della presenza di materiale correlato su un altro portale.

Inoltre, utilizzare un hyperlink non è equivalente a diffondere determinate informazioni nel pubblico: in primo luogo, l’autore dell’articolo non controlla direttamente il contenuto dell’hyperlink che, come detto, si trova su un sito di terze parti; in seconda misura, tale contenuto già esiste sul web ed è liberamente accessibile agli utenti.

Per valutare l’eventuale responsabilità di un individuo, in particolare un giornalista, circa il contenuto di un hyperlink, la Corte non può prescindere da una analisi delle circostanze del caso di specie; tale valutazione dev’essere ponderata, secondo i giudici, sulla base di cinque criteri: (i) se il giornalista approvi o in qualche modo condivida quanto affermato nell’hyperlink o se, al contrario, (ii) si sia semplicemente limitato a replicarne il contenuto o, ancora, (iii) lo abbia semplicemente postato l’hyperlink, senza valutazioni di sorta; inoltre, ci si deve chiedere se (iv) il giornalista conosceva o avrebbe dovuto ragionevolmente conoscere la portata diffamatoria del contenuto dell’hyperlink e se, in questo senso, (v) egli abbia agito in buona fede e responsabilmente, rispettando il proprio codice deontologico[3].

Rispetto al caso di specie, la Corte evidenzia come l’articolo in questione abbia semplicemente menzionato l’intervista realizzata al leader della comunità rom locale, intervista tra l’altro disponibile e accessibile su YouTube. Nell’articolo, l’autore non svolgeva alcuna valutazione di merito, ma si limitava semplicemente a linkare il video, senza nemmeno citare il partito che si dichiara parte lesa o replicare il contenuto dell’intervista. Alla luce di ciò, i giudici rilevano come, nel caso di specie, punire un giornalista per aver meramente replicato un contenuto esterno mina la libertà della stampa e pregiudica il suo ruolo determinante all’interno della società, in particolare per quanto riguarda la diffusione di notizie relative ad eventi di pubblico interesse. I giudici certamente non escludono che, in determinati casi – ad esempio quando il giornalista abbia agito in cattiva fede, un individuo possa essere ritenuto responsabile dell’hyperlink; ciò detto, però, nel caso sottoposto alla Corte, non sembrano esserci motivi per considerare come illegittima la condotta del giornalista rispetto ai suoi obblighi professionali. Allo stesso modo, il taglio dell’articolo e il suo contenuto evidenziano come l’intento dell’autore non fosse quello di diffamare o diffondere informazioni tendenziose, ma semplicemente di garantire un’informazione completa e corretta agli utenti.

Infine, la Corte cerca anche di valutare se il giornalista conoscesse o avrebbe dovuto conoscere la natura diffamatoria dell’intervista; sul punto, i giudici precisano che tali valutazioni devono essere svolte alla luce delle circostanze del momento e non devono limitarsi a quanto affermato dalle corti nazionali[4]. In questo senso, se, da una parte, il giornalista poteva sicuramente valutare come diffamatoria la dichiarazione dell’intervistato, dall’altra si può legittimamente valutare come tali dichiarazioni rimanessero nell’ambito del dibattito politico. Certamente, però, il fatto che il rappresentante della comunità rom abbia accusato il partito Jobbik senza alcun riscontro fattuale è motivo di preoccupazione ed evidenzia la natura controversa e diffamatoria della dichiarazione per se.

Al netto di ciò, la Corte evidenzia che riconoscere come responsabili dei giornalisti per il contenuto di un hyperlink, benché ammesso in talune situazioni, abbia un generale effetto pregiudizievole sulla libertà di stampa sul web, sia in maniera diretta che indiretta, portando gli autori a non inserire collegamenti esterni, limitando gli utenti dall’accesso libero a notizie ed informazioni. In particolare, la Corte, nel riconoscere una violazione dell’articolo 10, afferma come l’interpretazione delle corti nazionali e la condanna dei giornalisti non avessero motivi fondati nel riconoscere responsabilità oggettiva degli autori del pezzo.

Alla luce di questa valutazione che la Corte rileva come le autorità abbiano interpretato in maniera erronea il ruolo degli hyperlink, violando, con i loro provvedimenti, la libertà di espressione dei ricorrenti[5].

Nella sua opinione, il giudice Pinto de Albuquerque, membro del collegio, condivide il ragionamento della Corte come appena esposto, approfondendo alcuni aspetti circa la natura degli hyperlink che meritano certamente di essere evidenziati.

In primo luogo, con un link ad un sito esterno, un sito non condivide o diffonde un messaggio specifico, ma si limita semplicemente a dare la prova dell’esistenza di quanto affermato. Riprendendo anche le conclusioni di altre corti nazionali, vi è ormai consenso sul fatto che ricorrere a citazioni via hyperlink non rappresenti una “presa di posizione” nei confronti di un fatto o di una notizia[6].

Queste conclusioni sono confermate anche dalla letteratura scientifica, che ha ormai pienamente accettato una visione di Internet e del web come luogo aperto su scala universale, in cui le informazioni costituiscono un flusso inarrestabile, che non conosce quei limiti o vincoli che sono invece propri dell’informazione “fisica”[7]. È in quest’ottica che il giudice portoghese considera gli hyperlink come “the glue that hold the Web together[8], che collega le singole pagine e gli utenti, in modo da rendere il flusso d’informazione che dicevamo prima completo ed omogeneo. Senza hyperlink, senza collegamenti esterni e senza riferimenti, molti di questi utenti sarebbero limitati nella loro “naturale” capacità di visitare un gran numero di pagine in breve tempo, condividendone informazioni e contenuti.

Questi principi trovano maggior riconoscimento in ambito giornalistico, dove la condivisione di materiale direttamente “dalla fonte” permette ai giornalisti e agli editori di creare contenuti più aperti, fruibili, senza intermediazione tra lettore e notizia.

 

[1] Come avvenuto nella recente sentenza Corte EDU, Barbulescu c. Romania, ricorso n. 61496/08, sentenza 5 settembre 2017, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-177082

[2] Corte EDU, Magyar Zeti ZRT c. Ungheria, ricorso n. 11257/16, sentenza 4 dicembre 2018, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-187930

[3] Ibid., §77.

[4] Ibid., §78 – 81.

[5] Ibid., §§82 – 84.

[6] Corte Suprema del Canada, Crookes c. Newton, 2011, in cui si afferma come “referencing via hyperlink by itself is content-neutral – it express no opinion”, disponibile qui: https://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/7963/index.do

[7] Tim Berners-Lee, Long Live the Web, Scientific American, Vol. 303, No. 6 (December 2010), pp. 80-85, disponibile qui: https://www.jstor.org/stable/26002308?seq=1#page_scan_tab_contents

[8] Opinione concorrente del giudice Pinto de Albuquerque in Corte EDU, Magyar Zeti ZRT c. Ungheria, cit., §4.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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