sabato, Aprile 20, 2024
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Il Comitato delle Regioni nel processo decisionale europeo: un ruolo marginale?

Quando si tratta di partecipazione degli enti territoriali, è utile distinguere[1] tra il profilo attinente alle forme di cooperazione interregionale (c.d. integrazione orizzontale) ed il profilo inerente agli strumenti istituzionali e organizzativi della rappresentanza regionale a livello comunitario (c.d. integrazione verticale). Per quel che interessa in questa sede, bisogna guardare agli enti territoriali dalla seconda prospettiva, che esamina l’inserimento di tali autonomie nel contesto europeo.

Nell’ottica del decentramento politico-istituzionale (malgrado i limiti funzionali e strutturali)[2], viene istituito dal Trattato di Maastricht del 1992 il Comitato delle Regioni (da ora, CdR), un organo consultivo composto di rappresentanti delle collettività territoriali degli Stati membri, con l’intento di assicurare una effettiva partecipazione regionale e locale al processo decisionale europeo, salvaguardando il principio di sussidiarietà. Valorizzare il ruolo degli enti locali nelle dinamiche comunitarie e realizzare una multi-level governance erano alcuni degli obiettivi che si voleva perseguire.[3] Dunque, siccome buona parte della legislazione europea viene applicata a livello regionale, il CdR nasce per favorire l’intervento dei rappresentanti degli enti territoriali come portavoce delle esigenze locali: questa la ratio di fondo.

Tuttavia, il ruolo del CdR nell’assetto normativo e amministrativo europeo è stato sicuramente marginale prima del Trattato di Lisbona, il quale nel sancire per la prima volta il principio dell’autonomia regionale e locale negli Stati membri dell’UE, ne realizza sì un potenziamento ma permangono alcune incongruenze che saranno successivamente esaminate.

Dunque, per poter comprendere la posizione del CdR nei processi decisionali europei, bisogna considerare i seguenti elementi: composizione dell’organo e deficit di legittimazione, funzione consultiva e pareri, attività di prassi.

Quanto al primo elemento, va detto innanzitutto che il rapporto che si instaura in generale tra regioni ed istituzioni europee può essere diretto o anche indiretto, cioè mediato dal governo nazionale. In questo secondo caso, la situazione varia da Stato a Stato, a seconda del peso che assume l’interposizione del governo nazionale (si pensi a strumenti di concertazione tra Stato e regioni non costituzionalmente o normativamente previsti). Nel caso di rapporto diretto  la composizione dei delegati al CdR – il quale, si badi, non è istituzione europea – varia comunque in base al sistema statale nazionale; si pensi alla distinzione tra regioni con poteri legislativi e non: la disciplina sugli enti territoriali differisce sensibilmente tra i diversi Stati membri.[4]

Fin dal Trattato di Nizza (2001), e poi a Lisbona, si è cercato di collegare sempre di più la composizione del CdR alle realtà regionali e locali[5] e infatti, ai sensi dell’articolo 300, par. 3, TFUE il CdR è formato dai rappresentanti delle collettività regionali e locali titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o comunque politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea elettiva.

In tal modo, si è attribuita al CdR una maggiore legittimazione politica al suo interno; tuttavia, bisogna considerare due “fratture”[6] che dividono i membri del Comitato, una di tipo territoriale, l’altra di tipo politico. La prima è provocata dal fatto che il CdR è formato da rappresentanti di istituzioni diverse, regionali, provinciali e comunali. La seconda, invece, deriva dal fatto che i rappresentanti sono organizzati in gruppi politici, ma votano anche in base alla loro appartenenza geografica e/o nazionale. E questo frazionamento, tra l’altro, ne favorisce la scarsa incidenza nei processi decisionali. In ogni caso, a presidio della loro indipendenza, è previsto il divieto di mandato imperativo, dal momento che essi esercitano le loro funzioni solo nell’interesse generale dell’Unione e non degli Stati che li hanno nominati.

Quanto al secondo elemento, bisogna partire dalla distinzione tra due canali principali attraverso cui il Comitato accede “all’arena decisionale” europea: canali istituzionali e canali di politica pubblica[7]. I primi, normalmente previsti dagli stessi Trattati o dalla legislazione nazionale, servono alle regioni per promuovere interessi territoriali complessivi. I secondi, possono aversi solo rispetto all’ambito di una specifica politica pubblica, ove si ritenga che il punto di vista delle regioni possa apportare vantaggi circa il miglioramento – in termini di efficacia ed efficienza – della decisione da prendere. In particolare, il TFUE prevede che il Consiglio o la Commissione consultino il Comitato delle Regioni nei casi previsti dal Trattato e in tutti gli altri casi in cui una di tali due istituzioni – o anche il Parlamento europeo – lo ritenga opportuno (in particolare nei casi concernenti la cooperazione transfrontaliera): nell’una e nell’altra ipotesi, nonché di propria iniziativa ove le proposte UE interferiscano[8] col principio di sussidiarietà, il CdR formula e presenta il proprio parere.   Ecco che da questa disposizione – fin dall’istituzione, come si legge in letteratura[9] – traspare l’impressione di “un’avvolgente presenza” del CdR su ogni aspetto di interesse territoriale: si pensi anche che oggi il Parlamento non ha più la mera facoltà ma l’obbligo di consultazione, per cui tutte le istituzioni europee coinvolte nei processi decisionali devono consultarlo. Bisogna badare[10] che si tratta comunque di pareri obbligatori non vincolanti, che quindi non hanno la capacità di condizionare l’efficacia degli atti del Consiglio e della Commissione: da un lato, in quanto obbligatori, però, l’atto adottato dalle istituzioni europee senza il previo parere del CdR è illegittimo e suscettibile di annullamento; dall’altro, come le istituzioni richiedenti non sono tenute ad uniformarsi ai pareri del Comitato, così quest’ultimo non è gravato da alcun obbligo di rendere i pareri richiesti, né nell’ipotesi di consultazione obbligatoria, né in quella di consultazione facoltativa[11]. Ancora, il CdR viene informato nel caso in cui la Commissione o il Consiglio consultino il Comitato economico e sociale (CES)[12]: a quel punto, il CdR, ove ritenga che siano in gioco interessi regionali specifici, può formulare un parere.

In ogni caso, mentre prima del Trattato di Lisbona il CdR veniva consultato dalle due istituzioni delle procedure legislative obbligatoriamente solo in cinque ambiti (quelli che costituivano tradizionalmente il “nucleo duro” delle competenze regionali), oggi i settori sono stati ampliati a dieci: si pensi, tra gli altri, alla politica sociale, all’ambiente, alla sanità pubblica, ai trasporti. Oltre ai processi decisionali in senso stretto, il CdR interviene già nella fase pre-legislativa, nelle c.d. valutazioni preventive d’impatto (inerenti all’impatto sociale, economico e regionale delle iniziative legislative europee), esercitando un’azione d’impulso e di intermediazione tra la Commissione e gli attori locali che vi siano coinvolti.

Oltre a quanto detto, il CdR esercita anche funzioni “ulteriori”: giurisdizionale e di cooperazione con le istituzioni europee. Al riguardo, va precisato che il Trattato di Lisbona ha attribuito al CdR il diritto di adire la CGUE, oltre che per tutelare le proprie prerogative (cioè in caso di mancato rispetto dell’obbligo di consultazione del Comitato), anche per domandare l’annullamento di atti normativi dell’UE emanati in violazione delle competenze regionali e locali: così, prevedendovi un apposito strumento di tutela giurisdizionale, il CdR diventa ricorrente istituzionale (sia pur non privilegiato) e passa dall’avere un ruolo soltanto consultivo ad un ruolo «di primo piano»[13] nelle dinamiche europee, malgrado il Trattato di Lisbona non l’abbia riconosciuto come istituzione europea[14]. Questa funzione di “custode” del rispetto del principio di sussidiarietà viene svolta non solo ex post nella fase giudiziaria, ma – a partire dal 2009 – anche in itinere, durante l’intero processo decisionale, attraverso la compilazione di una vera e propria griglia di valutazione della sussidiarietà e della proporzionalità.[15] Si pensi al Subsidiarity monitoring network che, istituito dal Trattato di Lisbona, consente al Comitato di promuovere e coordinare lo scambio delle informazioni, svolgendo un’azione di controllo della sussidiarietà sia nella fase pre-legislativa sia nella fase legislativa in senso stretto.

Pertanto, volendo fare un bilancio complessivo, in base a quanto detto, pur riscontrandosi un ruolo crescente del CdR per lo più a partire dal Trattato di Lisbona, lo stesso resta comunque debole sotto alcuni profili. In sintesi, si è avuto innanzitutto un potenziamento della sua figura, da mero organo consultivo a «semi-istituzione»[16], conferendogli maggiore legittimazione politica; in secondo luogo, sono stati estesi i casi di pareri obbligatori; in terzo luogo, gli si è attribuito un ruolo-chiave nel controllo della sussidiarietà prima, durante e dopo il procedimento legislativo.

D’altra parte, come messo in luce da un’attenta dottrina[17], ci sono in realtà delle incongruenze degne di nota tra i compiti stessi del CdR di valorizzare le istanze provenienti dalle realtà territoriali ed il suo attuale assetto per quanto attiene alla sua natura giuridica, alla sua attività ed alla nomina dei componenti.

Quanto alla natura giuridica, si è già avuto modo di dire che, anche nel Trattato di Lisbona, il CdR rimane un organo di mera consulenza: non rientrando tra le istituzioni europee, subisce necessariamente un depotenziamento delle proprie funzioni, sia consultive sia di cooperazione.[18] Cioè, il Comitato si trova costretto ad agire solo con un’attività di “pressione” politica sulle istituzioni europee, senza essere in grado di proporre un indirizzo politico autonomo nelle materie che investono gli interessi territoriali. Anche se il Protocollo di cooperazione firmato nel 2012 tra CdR e Commissione europea, apre la strada ad un suo ruolo più incisivo di indirizzo politico nelle future politiche europee, anche nella fase di preparazione della proposta legislativa.

Quanto all’attività propria del Comitato (l’attività consultiva), è vero sì che è stata estesa ad un numero molto più ampio di materie, ma resta pur sempre non vincolante, anche quando obbligatoria. Peraltro, qualora le istituzioni richiedenti intendano disattendere il parere, non grava su di esse nemmeno l’obbligo di una succinta motivazione.

Malgrado la scarsa incisività dei pareri, dalle relazioni annuali che il CdR presenta sulla propria attività (basate sulle informazioni fornite dalle istituzioni interessate e da ciascuna Commissione), emerge che i pareri di cui le istituzioni europee hanno tenuto conto non sono pochi, anzi: ciò dimostra come il Comitato, a prescindere dal suo mancato riconoscimento come istituzione europea, abbia saputo – in un certo qual modo – ritagliarsi un certo ruolo politico.[19]

Ancora, per quanto riguarda la nomina dei membri del Comitato da parte degli Stati membri, non sempre i componenti risultano essere in linea con “un’autentica valorizzazione” delle istanze regionali o locali, dal momento che in talune esperienze paiono più espressione dei governi centrali che di quelli regionali o locali (di cui dovrebbero essere effettivamente portavoce).

Pertanto, il CdR funge sì da cerniera tra Unione europea e livelli territoriali statali e substatali, ma la strada per un’effettiva cooperazione tra i vari livelli di governo rimane ancora lunga[20].

[1] Cfr. G. Allegri, Il ruolo del Comitato delle Regioni d’Europa nelle istituzioni comunitarie in trasformazione, in Osservatorio sul federalismo, 4 dicembre 2002.

[2] C. Napolitano, La coesione territoriale e il Comitato delle Regioni dell’Unione europea, in Federalismi.it, 25 gennaio 2017, citando A. D’Atena, 2008.

[3] Cfr. G. Allegri, op.cit.

[4] F.A. Cancilla, Il Comitato delle Regioni della Comunità europea: competenze e prospettive di evoluzione, in Nuove Autonomie, n. 3/2003; M. Brunazzo, Le Regioni italiane e l’Unione europea, Roma, 2005.

[5] Sul punto, C. Aliberti, Il ruolo del Comitato delle Regioni nell’assetto istituzionale dell’Unione europea, in Rivista di Diritto delle autonomie territoriali, fasc. 1/2018; nonché F.A. Cancilla, op.cit.

[6] In questi termini, M. Brunazzo, op.cit, 2005.

[7] Ibidem.

[8] In questi termini, C. Napolitano, op.cit.

[9] B. Calabrese, Il Comitato delle Regioni della Comunità europea e la partecipazione delle Regioni al processo decisionale comunitario, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 1997, si veda pag. 488.

[10] Cfr. G. Allegri, op.cit., pag. 7, 2002; si legge in F.A. Cancilla, che il parere può collocarsi generalmente nel c.d. soft law.

[11] C. Aliberti, op.cit., 2018.

[12] Le materie per cui è richiesto il parere obbligatorio del CDR sono numericamente inferiori rispetto a quelle in cui è necessario il parere del CES, ma ciò in parte è mitigato dalla previsione che, nel caso di consultazione obbligatoria di quest’ultimo, il CDR sia informato così da poter dare il proprio parere se ritiene che siano in gioco interessi regionali specifici, così V. Zambrano.

[13] C. Napolitano, op.cit.

[14] Sul punto anche E. Domorenok, Il ruolo del cdr nel processo di integrazione europea, Roma, 2010.

[15] C. Napolitano, op.cit.

[16] Ibidem.

[17] C. Aliberti, op.cit., 2018.

[18] Ibidem.

[19] C. Aliberti, op.cit., 2018.

[20] C. Napolitano, op.cit.

Carlo Pezzullo

È dottorando di ricerca in Diritto amministrativo nell'Università di Napoli Federico II, Dipartimento di Scienze sociali. È stato borsista dell’Associazione Nazionale dei funzionari dell’Amministrazione civile dell’Interno (Anfaci), in collaborazione con il Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche ‘Vittorio Bachelet’ della Luiss Guido Carli di Roma. Presso la School of Government del medesimo ateneo ha conseguito il Master di II livello in Amministrazione e governo del territorio.

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