L’evoluzione del contratto di licensing in Italia
L’evoluzione del contratto di licensing in Italia
a cura di Avv. Daniele Corvi
La prima forma di licensing, inteso come trasferimento di nomi o personaggi su prodotti diversi da quelli originari, nacque negli Stati Uniti, all’inizio del 1900, nei settori del giocattolo, dei fumetti e del cinema[1]. Il fenomeno si sviluppò negli anni trenta con l’esplosione del licensing relativo alle star cinematografiche, dei fumetti e della radio. Nella moda, il licensing ha inizio negli anni cinquanta[2] con le Maison francesi quali Pierre Cardin, Oleg Cassini, Givency e Charles Jourdan. Il licensing ha rappresentato il modello italiano di sviluppo delle estensioni di marca. In particolare, è stato efficace per la notorietà e la diffusione delle Maison, le cui competenze distintive gravitavano prevalentemente sull’alta moda/prêt-a-porter e, quindi, su una fascia di prodotto e di mercato limitata nei numeri e nelle potenzialità di sviluppo. La ragione del successo di tale formula in Italia è legata all’esistenza di una rete capillare di aziende industriali, localizzate nei distretti monoproduttivi del Paese, che rappresentavano i partner ideali delle griffe emergenti. Il sodalizio tra la creatività degli stilisti e le capacità manifatturiere e imprenditoriali delle aziende, sancito da accordi di licensing sempre più articolati e numerosi, ha costituito la premessa per la democratizzazione e la internazionalizzazione delle griffe italiane del fashion.
La formula è parsa vincente, relativamente facile da essere allargata sia ad altri attori della filiera della moda (proprietari di marche industriali e distributive), sia all’intero sistema moda a livello internazionale. Il suo principale vantaggio è, infatti, la possibilità di diluire gli investimenti, sempre più onerosi da realizzare sulla marca, tra una pluralità di attori, lasciando la proprietà esclusiva della marca al licenziante.
Per quanto riguarda l’aspetto produttivo, l’Italia è leader del fenomeno licenze nel mondo. Secondo stime recenti sono 512 i marchi di lusso nel mondo dati in licenza e l’Italia ne produce 326. In alcuni settori le cifre sono perfino eclatanti: 122 marchi mondiali dell’abbigliamento dati in licenza; dei 54 italiani, 52 sono realizzati in Italia e 3 in Francia; dei 37 di altri paesi, 27 sono prodotti in Italia e nessuno in Francia; nelle calzature l’Italia produce per tutte le sue marche, per più di un terzo di quelle francesi e per oltre la metà degli altri stranieri.
Il contratto di licenza rappresenta nell’ordinamento italiano un istituto atipico, con il quale un soggetto (licenziante), titolare di diritti di proprietà industriale, concede in via temporanea e dietro pagamento (royalty) a un altro soggetto (licenziatario) la facoltà di utilizzare quanto oggetto del contratto. In quanto contratto non disciplinato in maniera precisa, la licenza può assumere varie forme, in funzione dei contenuti, degli obiettivi delle parti e dei contesi settoriali. Si può affermare che ogni accordo di licenza è unico e che non esiste un metodo “giusto” a priori per crearne uno. Inoltre, il licensing va interpretato come uno strumento commerciale non come un obiettivo, per cui va inserito nella strategia di crescita sia del licenziante sia del licenziatario. Per questa ragione, il licensing deve essere gestito con grande attenzione attraverso dei contratti rigidi, il rispetto di standard qualità e il continuo controllo specialmente a livello distributivo. Soprattutto da parte del licenziante occorre capire l’impostazione della catena del valore di ogni business e avere un progetto specifico per ogni business in accordo con il licenziatario (Armani ha fatto di ogni licenza un business strategico per lo sviluppo della griffe). Il licenziante va supportato con una guida creativa chiara e un marketing integrato.
L’origine e lo sviluppo del licensing nel sistema moda italiano può essere letto in tre momenti storici, gli anni settanta, ottanta e novanta.
Negli anni settanta l’industria aveva considerato la moda e il mondo dello stilismo una realtà effimera; quando però la crisi del settore rese inevitabile la necessità di un cambiamento, si capì che la ricerca di un punto d’accordo era indispensabile. Da parte loro, gli stilisti avevano preso coscienza della essenzialità del loro apporto nel segmento del prêt-à-porter e recidendo il legame di dipendenza dall’industria, avevano attivato dei rapporti di consulenza su un piano di sostanziale parità. Inizialmente la grande industria continuò a produrre le proprie linee aumentando il contenuto “moda” e commercializzandole con la marca aziendale, al fine di soddisfare i segmenti medi della domanda. L’imprenditore della grande impresa, infatti, considerava la collaborazione con gli stilisti nell’ottica di un supporto creativo per le proprie linee aziendale. In Italia, una definizione più completa del rapporto industria-stilismo si delineò solo alla fine degli anni settanta, in quanto fu l’esperienza a permettere di sperimentare una nuova collaborazione. Lo stilista chiarì il proprio ruolo di gestione diretta della fase progettuale, dell’immagine e del rapporto con i clienti (con i quali veniva a contatto direttamente nelle sfilate), facendo della sua attività un’impresa di servizi. L’accordo di licenza per la produzione dei capi fu quindi, per molti creatori anonimi, l’evento qualificante del passaggio da sarto a stilista.
In realtà fu la Francia, per prima, a dare il via all’attività di licensing come naturale conseguenza di un ricco panorama di talenti (Christian Dior, Guy La Roche, Louis Feraud, Jean Louis Scherrer, Pierre Cardin e Yves Saint Laurent) anche dal punto di vista imprenditoriale. Il primo caso di contratto di licenza di abbigliamento venne firmato, nel 1959, da Pierre Cardin per la produzione di una collezione donna. Già nel 1948, Christian Dior aveva stipulato con l’imprenditore statunitense Kayser Roth una licenza per la produzione di calze. Precedentemente, Chanel aveva ceduto il proprio nome al mitico profumo Chanel N.5. Cardin aveva formalizzato un contratto di licenza con la società francese Vaskene S.A., produttrice di abbigliamento donna, con l’intento di occuparsi direttamente della commercializzazione del suo nome. Tale prodotto, inizialmente destinato a una élite, costituisce il primo caso di un prodotto industriale la cui marca era rappresentata dal nome dello stilista.
In Italia, questa evoluzione si verificò con un ritardo più che decennale rispetto alla Francia. E in questo senso gli anni 1973-74, furono decisivi: la crisi del settore, legata, più in generale alla crisi petrolifera, obbligò molte medie e grandi imprese dell’abbigliamento a passare da un orientamento alla produzione a un orientamento verso il mercato. Nel 1978, il Gruppo Finanziario Tessile (GFT realtà produttiva torinese che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’abbigliamento italiano) propose a Giorgio Armani, da pochi anni staccatosi da Cerruti, un rapporto di consulenza volto a portare nella cultura aziendale della confezione industriale un nuovo know-how tecnico e stilistico. Armani, sotto la spinta dell’amico e socio Sergio Galeotti, rifiutò un semplice rapporto di consulenza e richiese un rapporto di consulenza e richiese un rapporto di licenza per la produzione di una linea che avesse il suo nome, con una divisione dei compiti assai precisa tra le parti.
Il caso di Giorgio Armani, con le sue particolarità, fu il modello sul quale, alla fine degli anni settanta, in Italia si costruì la relazione tra stilista, industria e immagine. Da un lato l’azienda, in cui la figura chiave era quella dell’uomo-prodotto in grado di assicurare una continuità nel prodotto e nell’industrializzazione; dall’altro lato lo stilista, con un ruolo puramente creativo ed emancipato rispetto all’azienda industriale, sulla base di un rapporto paritario e con una divisione dei ruoli. Se inizialmente l’aspirazione di chi disegnava abiti era stata quella di avere alle spalle una fabbrica, come nel caso di Ken Scott, dei Missoni e di Krizia, dopo gli anni settanta, grazie alle licenze, la figura dello stilista si è trasformata per diventare un’attività precisa e distinta da quella dell’imprenditore/industriale[3].
Dal 1978, dopo il primo contratto di licenza con il GFT (primo contratto in assoluto firmato da uno stilista italiano), la Giorgio Armani ha utilizzato contratti di licenza come sistema privilegiato per lo sviluppo del business. Da parte sua, il Gruppo Finanziario Tessile è stato l’azienda italiana che ha gestito in licenza la produzione e/o distribuzione del maggior numero di griffe, arrivando a 60 licenze nel corso degli anni ottanta. Qualche anno dopo, molte griffe di abbigliamento si sono sviluppate come imprese di servizi, in cui l’unico sistema di produzione era costituito dalle licenza[4]. Anche Moschino ha sempre prodotto tutto su licenza, con interazioni molto forti con l’azienda partner che poi ha acquisito la griffe, Aeffe. Il sistema delle licenze è risultato vincente pure per Dolce & Gabbana, nata nel 1986.
Negli anni ottanta, il passo successivo delle griffe rispetto allo sviluppo sul core business abbigliamento è stato quello della diversificazione produttiva attraverso processi di estensione della marca. L’industrializzazione della creatività attraverso strategie di diversificazione rappresenta la naturale evoluzione di una griffe: nelle case di moda, si parla spesso di “progetto globale di stile” per indicare quanto possa essere vasto il campo di azione dell’impulso creativo.
Da questa considerazione emerge l’enorme potenziale del licensing applicato al comparto moda: la variabile creatività genera innumerevoli possibilità di sviluppo della marca e ciò richiede la presenza di un partner industriale e commerciale che creda nel progetto. Durante gli anni ottanta è avvenuto il passaggio dal licensing come soluzione produttiva per lo stilista di abbigliamento, a quello finalizzato al profitto: questo ne ha determinato un uso, in certi casi esasperato, più vicino al concetto di brand stretching che a quello di brand extension.
Gli anni novanta hanno razionalizzato il fenomeno delle licenze nella moda, in quanto è emersa la necessità di gestire lo strumento con grande attenzione essendo collegato all’identità e all’immagine globale di una marca sul mercato. In tale processo di ridefinizione sono stati coinvolti, dalla fine degli anni ottanta, sia i licenzianti sia i licenziatari. Nel 1988, Armani sentì l’esigenza di rivedere molti rapporti con le aziende licenziatarie e, nel 1989, stipulò un accordo societario con la Simint, sua licenziataria per la linea jeans, segnando in questo modo il suo passaggio da stilista a imprenditore. Pur mantenendo il legame con il mondo della produzione attraverso i rapporti di licenza, Armani decise di fare il salto dalla posizione di licenziante a quella di azienda partecipante finanziariamente all’attività del licenziatario. Rilevando quote della Simint, Armani ha stipulato direttamente contratti, sia a livello di produzione sia di distribuzione, sostitutivi delle licenze. Anche le successive partecipazioni azionarie in Antinea, azienda licenziataria di Emporio Armani donna, in Intai, azienda serica e in Luxottica, leader nel settore occhiali, avvenute tra il 1989 e il 1993, sono la conferma di una strategia orientata alla partnership. Valentino, sulla base di un progetto di rilancio globale, ha abbandonato una politica interamente basata sul licensing anche a seguito dei problemi di immagine avuti soprattutto sui mercati internazionali. Pure Dolce & Gabbana, scegliendo la strada della gestione interna, accanto alla strategia di riportare all’interno le licenze, hanno fatto nascere un progetto di terza linea (1999) con la griffe Dolce & Gabbana, totalmente gestito in proprio. Dal punto di vista dei licenziatari, nei primi anni novanta, il GFT ha iniziato un processo di ristrutturazione attraverso un graduale sfoltimento delle linee ritenute marginali e mantenendo le griffe più importanti (Armani, Valentino, Ungaro, Montana ecc.). Al GFT si deve buona parte della storia inerente le licenze di abbigliamento in Italia: colpito dalla crisi del settore, il gruppo si è trovato impegnato in una faticosa ridefinizione dei rapporti con le griffe. La storia del Gruppo GFT è intessuta di fusioni e di rifondazioni, di acquisizioni e di scorpori. Un modello che procede per incastri, per estensioni attraverso l’incorporazione di attività e aziende, che allarga e contrae lo spazio organizzativo a seconda delle opportunità e delle contingenze di mercato”.
Con il tempo il sistema moda è diventata una vera e propria industria del lusso e la tipologia contrattuale di licensing è diventata sempre più articolata e complessa anche in Italia. Naturalmente la tipologia di licenziante più adatta dipende dalla fase del percorso di sviluppo della marca:
1- se la marca è nella fase prodotto, il licenziante cerca uno scouter/tutor per lo sviluppo delle categorie merceologiche core (griffe prive di struttura produttiva);
2- se la marca è nella fase garanzia il licenziante cerca uno specialista/produttore di singola merceologia in grado di realizzare estensioni di linea;
3- se la marca è nella fase mondo il licenziante ricerca degli specialisti di business in grado di supportarlo nel processo di brand extension su business non correlati.
Rispetto agli altri settori, nel sistema moda il processo di condivisione del know-how, che sta alla base dei rapporti di licensing, è intrinsecamente più complesso[5]. In primo luogo le conoscenze di stile, di prodotto, di processo e commerciali, nelle imprese della moda sono in buona parte di tipo “tacito”: si tratta, cioè, di conoscenze di tipo immateriale, poco codificate e prevalentemente legate a singole persone più che a processi e a meccanismi organizzativi[6]. In secondo luogo queste conoscenze, riferibili a una stessa marca, a un prodotto, a una tecnologia, a un canale distributivo, sono soggette sistematicamente a una grande variabilità, per la necessità che le imprese hanno di uniformarsi alla logica di evoluzione stagionale della moda. Di conseguenza le conoscenze, che dovrebbero rappresentare l’oggetto del licensing, non sono facilmente definibili e circoscrivibili, per questa ragione lo scambio tra le due controparti non può avvenire in un’unica soluzione all’inizio del rapporto, ma è il risultato di un processo di trasferimento graduale e dinamico.
[1] Walt Disney concesse la prima licenza nel 1928 per un’agenda scolastica con l’immagine di Topolino. B. GIANNELLI, S. SAVIOLO, Il licensing nel sistema moda, Milano, 2001, p. 25.
[2] La prima stilista a utilizzare accordi di licenza è stata negli anni venti Coco Chanel.
[3] Crf. D. CORVI, La concorrenza nel fashion system, Napoli, 2017, p. 34.
[4] “Siamo una società di servizi, siamo dei creatori ed è molto difficile per noi entrare nella distribuzione e produzione”, affermava Giancarlo Giammetti, socio di Valentino nel 1991. B. GIANNELLI, S. SAVIOLO, Op. cit.,p. 10.
[5] Crf. P. PERLINGIERI, Profili applicativi della ragionevolezza del diritto civile, Napoli, 2015, p. 32.
[6] V.M. DE SANCTIS, La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, Milano, 2009, p. 300; G. ALPA, M. ANDENAS, Fondamenti del diritto privato europeo, in Tratt. dir. priv., Milano, 2005.
Per ulteriori approfondimenti si leggano:
ERTOLA, Il diritto d’autore tutela anche il fumetto?, Ius in Itinere, link al https://www.iusinitinere.it/il-diritto-dautore-tutela-anche-il-fumetto-28590
CARBONARA, Il culto dell’apparire nel fashion system, Ius in itinere, link al https://www.iusinitinere.it/il-culto-dellapparire-nel-fashion-system-29646
F.FAVA, “L’indipendenza dei creativi nella moda”, in www.fabriziofava.com