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Il deficit commerciale americano: un interesse nazionale

Da marzo 2018, la presidenza Trump ha imposto una serie di dazi doganali per diminuire il proprio deficit commerciale. Una  virata verso il protezionismo nonostante, dal secondo dopo guerra, gli Stati Uniti siano stati sempre gli alfieri del libero scambio. Un’azione di politica commerciale che non ha fatto sconti nemmeno al NAFTA e all’Unione Europea. Tuttavia, se verso queste due aree la misura sembra volta ad ottenere una rinegoziazione sostanziale degli accordi di scambio, il vero obiettivo del nuovo impulso dell’amministrazione Trump è ridurre l’import dalla Cina: non solo per una ragione economica ma, soprattutto, per motivi di interesse nazionale[1].

Secondo i dati del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti[2], l’import da Pechino ammonta a 505 miliardi di dollari mentre l’export ne vale 129. Quindi, Washington ha un deficit commerciale di circa 376 miliardi di dollari. Secondo l’amministrazione Trump, la bilancia commerciale in deficit è responsabile della perdita di lavoro e di ricchezza negli Stati Uniti. Una convinzione che ha giustificato il riposizionamento della diplomazia americana in politica commerciale. Infatti, Washington ha  imposto dazi doganali non solo contro la Cina ma anche verso partner storici: la Corea del Sud, il Giappone, l’Unione Europea e il NAFTA[3]. Inizialmente, il nuovo corso della politica commerciale ha riguardato esclusivamente il blocco dei trattati negoziati e firmati da Obama: il Partenariato Trans-Pacifico con 14 Stati dell’area (TPP) e il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti con l’Unione Europea (TTIP). Successivamente, l’imposizione dei dazi ha interessato il settore dell’alluminio e dell’acciaio. Tale atto ha scatenato non solo le proteste dei partner commerciali ma ha innescato la “retaliation” dei vari Stati colpiti, ossia una contromisura di adeguato valore su beni importati dagli Stati Uniti. Tuttavia, le misure si sono estese anche ad altri settori dell’indotto[4].

Eppure, le politiche commerciali dell’amministrazione Trump non hanno portato ad una riduzione del deficit commerciale[5].  Infatti, per il 2017, i dati aggiornati del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti mostrano un aumento del deficit commerciale pari ad oltre 552 miliardi. Se il trend sarà confermato nei prossimi mesi, il deficit commerciale statunitense potrebbe raggiungere circa 580 miliardi[6]. In aggregato, si nota che ad essere in rosso è il deficit commerciale dei beni con circa 807 miliardi di dollari nel 2017. Lo stesso discorso non vale per i servizi, in cui gli Stati Uniti registrano un surplus. Infine, rapportando l’intera bilancia commerciale in percentuale al prodotto interno lordo statunitense, il deficit commerciale dovrebbe raggiungere il 2,5% del Pil.

Occorre precisare come tale parametro abbia poco a che fare con la politica commerciale di Washington. In effetti, il deficit commerciale di una nazione è determinato, anzitutto, dai flussi di investimenti in entrata e in uscita dal quel paese, dipendenti dalla propensione al risparmio e all’investimento dei soggetti economici. Assumendo che la bilancia commerciale funzioni alla stregua della bilancia dei pagamenti, si può intendere la seguente uguaglianza: risparmi – investimenti = esportazioni – importazioni. Quindi, la politica commerciale influenza solo indirettamente le variabili macroeconomiche di un paese.

Infine, la politica economica di Trump è una politica fiscale espansiva in deficit. Il deficit degli Stati Uniti  ha raggiunto il 4,4% tra agosto 2017 ed agosto 2018, il livello più alto dal 2013. Tale scelta sta contribuendo alla crescita del PIL e delle importazioni e, quindi, del deficit commerciale. Per cui, è prematuro sostenere che la disoccupazione sia determinata essenzialmente dal libero scambio. Certo, alcuni settori manifatturieri e del comparto delle materie prime risentono della concorrenza internazionale, ma, allo stesso tempo, l’imposizione del protezionismo produce danni in altri settori economici che dipendono dagli scambi con l’estero.

Alla luce dell’analisi, non può tacersi l’influenza della politica monetaria sulle politiche commerciali.

Il dollaro è la valuta globale di scambio. Tale realtà è una delle ragioni per cui il debito degli Stati Uniti cresce: la domanda globale mantiene costante la domanda di detenzione di dollari che, a sua volta, tiene costantemente bassi i tassi di interesse dei buoni del tesoro americani. A questo punto, si inserisce l’intreccio con Pechino: la Cina detiene circa 1,2 trilioni di dollari di debito americano. Quindi, il volere della Banca della Cina di mantenere basso il renminbi, spinge all’acquisto di buoni del tesoro americani. Inoltre, le svalutazioni competitive, avviate da Pechino dal 2015, rendono le merci cinesi più appetibili sul mercato internazionale. Di conseguenza, proprio dal febbraio 2015, il Fondo Monetario Internazionale ha accettato la divisa cinese come moneta di scambio internazionale dopo il dollaro, l’euro, la sterlina e lo yen.

Se a tale considerazione, si aggiungono le critiche statunitensi della politica di sussidi di stato di Pechino verso le aziende statali e la creazioni di enormi complessi industriali che competono sui mercati, si capisce perché negli ultimi anni le amministrazioni americane abbiano elevato la competizione cinese ad interesse strategico[7]. Obama aveva ricondotto la questione alla negoziazione di un trattato multilaterale, il TPP, per costringere la Cina a giocare con le proprie regole commerciali al di fuori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Invece, Trump ha optato per una politica di forza ricorrendo a dazi doganali per circa 50 miliardi effettivi.

In conclusione, la Cina potrebbe vendere le proprie partecipazioni del Tesoro degli Stati Uniti e lasciare il valore del dollaro USA in caduta libera. Tuttavia, non è nell’interesse della Cina farlo. Per cui, la guerra commerciale di Washington è una strategia a somma zero[8]. Non ha senso, infatti, che gli Stati Uniti puniscano i propri alleati e minino gli sforzi collettivi per pressare diplomaticamente Pechino. Una strategia più lungimirante dovrebbe includere misure difensive forti e sensibili per proteggere le tecnologie critiche degli Stati Uniti per affrontare pratiche commerciali scorrette e contro i regolamenti dell’OMC. Ma, sarebbe stato necessario tenere uniti gli alleati e migliorare la leadership multilaterale degli Stati Uniti invece di isolarsi[9].

[1] Wyne, Ali. “The Security Risks of a Trade War With China.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[2] United States Census Bureau, U.S. International Data, 2017. Disponibile qui https://www.census.gov/foreign-trade/balance/c5700.html

[3] Carnegie, Allison. “Trump’s Trade War Escalates.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[4] Irwin, Douglas A. “The False Promise of Protectionism.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[5] Irwin, Douglas A. “The Truth About Trade.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[6] Bureau of Economic Analysis – U.S. Departement of Commerce, International Trade in Goods and Servies. Disponibile qui https://www.bea.gov/data/intl-trade-investment/international-trade-goods-and-services

[7] Lavin, Frank. “Trading Up With China.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[8] Goodman, Matthew P., and Ely Ratner. “A Better Way to Challenge China on Trade.” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

[9] Rosen, Daniel. “Is a Trade War the Only Option?” Foreign Affairs. 8 Oct. 2018. Web. 8 Oct. 2018.

 

Marco Di Domenico

Dottore in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Appassionato di politica ed economia internazionale.

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