sabato, Aprile 20, 2024
Criminal & Compliance

Il delitto di stalking tra tutela penale e amministrativa

1.     Premessa.

Il fenomeno, prima ancora che il reato, di atti persecutori – c.d. stalking – ha ormai raggiunto, anche alla luce dei numerosi interventi legislativi, livelli di attenzione elevati sia da parte della giustizia sia da parte della stampa. Nel cercare di porre in essere delle adeguate tutele nei confronti delle vittime, il legislatore ha previsto un meccanismo operante in ambito penale e uno in chiave amministrativa, attraverso il c.d. procedimento di ammonizione a riprova del fatto che la condotta di stalking non risulta più essere qualcosa di isolato e sporadico, ma una e vera e propria problematica anche di natura sociale.

2.     Sul delitto di atti persecutori.

Tale reato è stato introdotto nel nostro ordinamento con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 e convertito con modificazioni nella L. 23 aprile 2009, n. 38.

Per sua stessa struttura intrinseca il nostro codice penale, fin dagli albori nell’epoca fascista, ha sempre cercato di evitare di intromettersi nelle questioni attinenti alla vita familiare e di relazione. La pretesa punitiva dello Stato quindi si fermava e arretrava di fronte al fulcro familiare, in quanto il legislatore voleva evitare di andare a sanzionare penalmente delle condotte che attenevano strettamente alla vita familiare. Un chiaro e lampante esempio si rinviene all’art. 649 c.p. il quale prevede che, qualora uno dei reati contenuti nel Libro II, Titolo XIII del codice penale sia commesso in danno del coniuge, l’autore del reato può non essere punito[1] .

Tuttavia nella sua evoluzione il diritto penale, su impulso anche del legislatore europeo, ha deciso di superare tale limite, considerando non la famiglia nella sua globalità, bensì il singolo individuo che necessita di adeguata tutela e protezione. Proprio in tale ottica s’inseriscono le numerose riforme volte a tutelare, all’interno del nucleo familiare, il soggetto più debole e bisognoso di una maggiore protezione. Ci si riferisce ai fenomeni di c.d. violenza assistita o indiretta[2] comprensiva di quelle condotte che, pur non traducendosi in forme di violenza fisica direttamente rivolte, in particolare, a un soggetto vulnerabile, cagionino allo stesso sofferenze morali capaci di incidere in maniera negativa sulla sua integrità psico-fisica.

A fronte di fenomeni di questo tipo, la fattispecie chiamata a sorreggere il peso di una risposta penale indubbiamente non scontata è anzitutto quella dei maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.), che, del resto, ha visto progressivamente ampliare la propria sfera di operatività: si pensi alla rilevanza attribuita dalla giurisprudenza ai c.d. maltrattamenti omissivi e al concorso per omissione in condotte commissive maltrattanti o, ancora, alla sostanziale riscrittura legislativa del concetto di famiglia[3]. Come detto, l’evoluzione normativa ha di fatto esteso le maglie della tutela penale anche ai soggetti c.d. deboli. La L. 15 ottobre 2013, n.119 (di conversione del D.L. 14 agosto 2013, n. 93) ha introdotto all’art. 61, n. 11-quinquies c.p. una circostanza aggravante applicabile quando, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché in relazione al delitto di cui all’articolo 572 c.p., il fatto fosse commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza. La stessa legge abrogava l’allora secondo comma dell’art. 572 c.p., che prevedeva un aumento di pena per il fatto commesso in danno di persona minore degli anni quattordici. Ai fini di pervenire a un coerente coordinamento sistematico tra l’art. 61, n. 11-quinquies c.p. e la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, la giurisprudenza era pervenuta a distinguere due ipotesi, con evidenti ripercussioni sul piano processuale. Nel caso in cui le condotte vessatorie commesse nei confronti dell’altro genitore si traducessero in veri e propri maltrattamenti (in forma omissiva) del minore, la Corte di Cassazione, sviluppando un orientamento già emerso nella giurisprudenza di legittimità[4], concludeva per la diretta applicabilità dell’art. 572 c.p.: in questo caso il minore sarebbe stato considerato persona offesa del reato.[5] Al contrario, qualora il minore fosse stato presente agli atti di violenza, senza però che nei suoi confronti potesse considerarsi superata la soglia dei maltrattamenti, avrebbe trovato applicazione l’art. 61, n. 11-quinquies c.p. e il minore non avrebbe potuto considerarsi soggetto passivo del reato[6]. Dalla L. 119/13 è inoltre ricavabile la definizione di violenza domestica, che comprenderebbe cioè “Tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima“.

La violenza di genere è invece definita dalla direttiva 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, come quella «diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica della vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. reati d’onore»[7]. Come è noto la L. 19 luglio 2019, n. 69 – Tutela delle vittime di violenza domestica o di genere – c.d. codice rosso, ha apportato delle consistenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale. La novella si compone di 21 articoli, che individuano un catalogo di reati attraverso i quali si esercita la violenza domestica e di genere e, in relazione a queste fattispecie, interviene sul codice di procedura penale al fine di velocizzare l’instaurazione del procedimento penale e, conseguentemente, accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime. Il provvedimento, inoltre, incide sulla stessa disciplina sostanziale, prevedendo ora l’inasprimento della cornice edittale di taluni reati, ora la rimodulazione di alcune circostanze aggravanti, ora infine l’introduzione di alcune nuove fattispecie incriminatrici. Si tratta di un elenco che è solo in parte coincidente con quello dei reati che generano la vulnerabilità presunta della vittima, indicati nell’elenco contenuto negli artt. 351, c. 1-ter e 392, c. 1-bis, c.p.p. (richiamato dall’art. 362, c. 1-bis, c.p.p.), cui è riservato uno statuto speciale di raccolta della testimonianza: il reato di diffusione di immagini sessuali, il reato di deformazione permanente del volto, e le lesioni aggravate non sono compresi nell’elenco dei reati cui è associata la vulnerabilità della vittima, sicché in relazione a tali fattispecie l’attivazione delle garanzie che il codice riserva ai dichiaranti in condizione di particolare vulnerabilità deve essere valutata caso per caso sulla base dei parametri previsti dall’art. 90-quater c.p.p.. L’obiettivo del testo di legge è quello di creare una corsia celere – di fatto preferenziale – riservata ai reati che segnalano non solo gravi crisi relazionali, ma che rivelano altresì un elevato pericolo di reiterazione delle devianze e un grave rischio per la persona: trattasi di situazioni in cui, in altri termini, eventuali ritardi nello svolgimento delle indagini rischierebbero di pregiudicare la tutela dell’integrità fisica o della vita dell’offeso. La violenza domestica o di genere viene ricondotta dal disegno di legge alle seguenti fattispecie: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609-bis, 609-ter e 609- octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609-quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612-bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.); lesioni personali aggravate e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 582 e 583-quinquies, aggravate ai sensi dell’art. 576, c. 1, n. 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell’art. 577, c. 1, n. 1 e c. 2.

Viene poi previsto che la Polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al Pubblico Ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta (art. 1). Viene inoltre stabilito che la P.G. debba procede senza ritardo al compimento degli atti di indagine delegati dal Pubblico Ministero e che debba porre, sempre senza ritardo, a disposizione dello stesso la documentazione delle attività svolte (art. 3). Con particolare riferimento al delitto di stalking di cui all’art. 612-bis c.p., soggetto attivo può essere chiunque, anche non avente legami di alcun tipo con la vittima, trattandosi un reato comune: è tuttavia, prevista un’aggravante nel caso in cui l’autore del reato sia legato alla comunità familiare della persona offesa[8]. Con riferimento al soggetto passivo, la norma tende a tutelare un ampio spettro di situazioni, comprendendo anche ipotesi in cui oggetto delle molestie dello stalker siano i prossimi congiunti della vittima, oppure persone legate alla stessa da una relazione affettiva. Si tratta di un reato abituale che richiede, ai fini della sua integrazione, la reiterazione delle condotte persecutorie idonee, alternativamente, a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura oppure ad ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La reiterazione delle condotte, insieme al grave e perdurante stato di ansia prodotto, è ciò che permette di differenziare questo delitto dalle minacce e dalle molestie. La giurisprudenza di legittimità ha altresì qualificato lo stalking come un reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta, che si caratterizza per la produzione di un evento di danno, consistente proprio nell’alterazione delle abitudini di vita, nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di una persona vicina[9] .

Quanto al perdurante e grave stato di ansia e di paura, è stato sottolineato in giurisprudenza come non sia richiesto l’accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che le molestie dello stalker siano idonee a provocare un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio dell’individuo. Elemento soggettivo del reato è il dolo generico, essendo sufficiente la volontà di porre in essere i comportamenti descritti nella norma e la consapevolezza dell’idoneità degli stessi a cagionare uno degli eventi enunciati nella medesima, mentre non è necessaria la prefigurazione del risultato finale. Lo stalking di regola è punibile a querela della persona offesa dal reato, proponibile nel termine di sei mesi dalla consumazione del reato, coincidente con l’evento di danno. Unicamente nelle ipotesi in cui il fatto sia commesso a danno di un minore o di una persona con disabilità (oppure sia connesso con altro delitto per il quale è prevista la procedibilità d’ufficio) si può procedere di ufficio. Esiste, tuttavia, un’alternativa alla querela, ed è la procedura di ammonimento, con la quale si invita lo stalker a desistere dalla sua attività persecutoria e molesta. La persona offesa che non abbia già presentato querela può, infatti, esporre i fatti al Questore, il quale, ove ritenga fondata l’istanza, emette il provvedimento che ha natura amministrativa. Infine in tema di remissione della querela questa può essere soltanto processuale e non è consentita, e la querela è perciò irrevocabile, quando il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, c.2, c.p., cioè nei casi di minaccia aggravata dalle modalità di cui all’art. 339 c.p..

3.     Sul procedimento di ammonimento.

In precedenza è stato analizzato il reato di cui all’art. 612-bis c.p. sotto il profilo prettamente penalistico; pare tuttavia opportuno evidenziare anche l’aspetto da natura amministrativa, con particolare riferimento al procedimento di ammonimento.

L’ammonimento questorile è stato inserito nel nostro ordinamento dal D.L. 23 febbraio 2008, n. 11, il cui art. 8, c. 1, stabilisce che: “[…] fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’articolo 612 bis c.p., introdotto dall’articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all’Autorità di Pubblica Sicurezza avanzando richiesta al Questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al Questore. Il Questore, assunte se necessarie informazioni dagli organi investigativi, e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale”.

Si tratta a ben vedere di una misura di prevenzione, avente natura amministrativa, mediante la quale il legislatore ha inteso punire gli autori di condotte vessatorie prima che l’aggravamento delle circostanze possa portare all’attivazione del procedimento penale per il delitto di stalking, di cui all’articolo 612-bis c.p.. Da tale inquadramento ne consegue che, per l’adozione del decreto di ammonimento non è richiesta la piena prova circa la sussistenza del delitto di atti persecutori, ben potendo il primo essere adottato sulla base di un quadro istruttorio dal quale sia possibile desumere, anche solo su un piano indiziario, la pericolosità sociale del soggetto.

Con riguardo all’iter procedurale, il procedimento in esame è ad iniziativa di parte, in quanto è la persona offesa che si rivolge all’Autorità di Pubblica Sicurezza, esponendo i fatti e avanzando richiesta di ammonimento nei confronti del soggetto autore della condotta. Una volta ricevuta l’istanza, il Questore pone in essere un’attività istruttoria, al fine di accertare la fondatezza dei fatti e valutare la pericolosità sociale del soggetto de quo. Laddove l’istanza sia ritenuta fondata, verrà quindi adottato il decreto orale di ammonimento, mediante il quale il Questore impone al soggetto interessato di tenere una determinata condotta, attiva od omissiva, conforme alla legge[10].

Di particolare interesse risulta una questione sottesa a tale atto di natura amministrativa, cioè la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’articolo 7 Legge 241/90 e prevista per i procedimenti amministrativi, che deve essere bilanciato con il carattere di urgenza previsto D.L. 11/08.

Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha dato origine a due orientamenti tra loro differenti e contrastanti.

Il primo[11], analizzando il dato letterale dell’art. 8, c. 1, D.L. 11/08, ha inquadrato il provvedimento de quo nell’alveo dei provvedimenti cautelari, caratterizzati da un’urgenza in re ipsa, con la conseguenza che, proprio in ragione della natura cautelare, il provvedimento di ammonimento non è soggetto al rispetto delle garanzie procedimentali, essendo legittimo ancorché non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento Tale orientamento risulta anche avallato dalla giurisprudenza[12] più recente, secondo la quale “proprio in ragione della natura cautelare e della conseguente insita urgenza della misura – il provvedimento di ammonimento non [deve] essere necessariamente preceduto dall’avviso di avvio del procedimento e ciò in particolare quando dall’istruttoria compiuta dall’amministrazione siano emersi precisi indizi di una condotta aggressiva e disdicevole da parte del suo destinatario” .

Al contrario invece un secondo orientamento[13] ha ritenuto applicabile all’ammonimento questorile la comunicazione di avvio del procedimento, norma di portata generale, prevista per tutti i procedimenti amministrativi, salvo che sussistano “ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”.  La sussistenza di eventuali ragioni di urgenza, tale da impedire l’invio della comunicazione predetta, non può affatto presumersi iuris et de iure dalla natura cautelare dell’ammonimento, ma al contrario, deve sussistere in concreto e trovare puntuale riscontro nella motivazione del provvedimento stesso.

È pertanto necessario, secondo tale opzione ermeneutica, che siano sempre congruamente documentate le specifiche e concrete esigenze di celerità che, nel caso di specie, hanno impedito la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 L. 241/90, pena l’illegittimità dello stesso.

Tale orientamento ha di recente trovato conferma da parte del Consiglio di Stato[14], il quale ha affermato che “Con più specifico riguardo alle disposizioni di cui agli artt. 7 e 10-bis della l. n. 241 del 1990, la giurisprudenza di questo Consiglio è dunque orientata nel senso che ove non sussistano specifiche ragioni di urgenza da indicare nell’atto, l’Amministrazione deve dare comunicazione dell’avvio del procedimento al soggetto destinatario dell’ammonimento e ciò in quanto, pur presentando il procedimento de quo dei tratti di specialità, in assenza di espressa deroga, devono trovare applicazione le garanzie di partecipazione procedimentale e deve essere concessa la possibilità all’interessato di palesare il proprio punto di vista”.

Si evince quindi che il secondo orientamento, che di fatto consente anche al soggetto destinatario di un provvedimento di ammonimento di essere edotto nelle immediatezze circa l’avvio dell’iter processuale e quindi di poter fornire all’amministrazione procedente le adeguate deduzioni, risulta essere quello maggiormente seguito specialmente dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.

4.     Procedimento di ammonimento e diritto di difesa

Recentemente il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi sul rapporta tra il procedimento di ammonimento ed il diritto dell’interessato a conoscere l’avvio di tale procedimento.

La decisione[15] trae origine dal ricorso presentato dalla Questura partenopea e dal Ministero dell’Interno contro la sentenza del T.A.R. Campania – Napoli il quale ha accolto le doglianze del ricorrente destinatario di un provvedimento di ammonizione da parte della Questura di Napoli.

Il procedimento ha preso le mosse da una segnalazione della persona offesa e, a seguito della comunicazione di avvio del procedimento al soggetto interessato, si è sviluppato attraverso la presentazione di memoria difensiva, l’audizione del medesimo, l’acquisizione di sommarie informazioni da parte di terze persone ed un preavviso di diniego, nel quale la Questura ha dato atto dell’insussistenza dei presupposti di attualità necessari all’adozione del richiesto ammonimento. L’iter amministrativo ha poi ripreso impulso per effetto di una seconda segnalazione nella quale venivano denunciati ulteriori atti persecutori, e che la stessa denunciante poneva all’origine del grave stato ansioso diagnosticatole in occasione di un accesso al Pronto soccorso.

La conclusione è stata l’adozione del provvedimento di ammonimento, emesso inaudita altera parte, ovvero senza previa audizione dell’interessato sui successivi accadimenti oggetto della seconda segnalazione

Proprio da questa omissione hanno tratto spunto le doglianze avanzate in sede giudiziale dal ricorrente per difetto di istruttoria e di motivazione, violazione delle garanzie del contraddittorio procedimentale e, dunque, mancata applicazione dell’art. 8, c. 2, D.L. n. 11/09.

Difatti il giudice di prime cure ha ritenuto ingiustificata la mancata audizione dell’interessato difettando l’urgenza del provvedere in quanto non risultante dalla motivazione dell’atto gravato e dalla tipologia degli ulteriori fatti segnalati all’autorità, nonché  dalla regola di non annullabilità di cui all’art. 21-octies, c. 2, L. 241/90, non applicabile al caso, stanti i numerosi elementi forniti dall’interessato che avrebbero consentito una diversa lettura delle condotte a lui contestate.

L’amministrazione ricorrente, mediante i motivi di gravame, ritiene che la prima fase del procedimento non è sfociata nell’adozione dell’ammonimento semplicemente perché le condotte, certamente gravi e comprovate, non potevano in quel momento ritenersi attuali. Inoltre il prosieguo del procedimento è stato successivamente condizionato non da una diversa valutazione dei fatti, nella loro gravità e consistenza, ma dalla ripresa delle condotte persecutorie e che sul piano della dinamica dell’azione amministrativa, la scansione dell’iter procedimentale non ne ha compromesso l’unitarietà, né può dirsi che l’ammonimento si sia fondato solo sugli eventi sopravvenuti.

Non sussisterebbe, quindi, alcuna violazione del contraddittorio in quanto la parte, oltre ad essere stata attinta dalla comunicazione di avvio del procedimento, è stata posta in condizione, come effettivamente ha fatto, di esercitare le sue prerogative difensive con il deposito delle memorie; mentre la scelta di non sentirla nuovamente è stata dettata dal timore che ulteriori indugi avrebbero potuto aggravare un contesto già esasperato.

Il Consiglio di Stato ritiene che, nel caso di specie, anche in considerazione della consistenza e tipologia dei fatti segnalati, la finalità preventiva potesse essere perseguita, senza nulla cedere sul piano della sua efficacia, in forme e modalità compatibili con l’attuazione piena delle garanzie di partecipazione e di difesa della parte sospettata di essere autrice delle condotte moleste.

Difatti è la stessa amministrazione a riconoscere il contributo determinante che le allegazioni difensive dell’interessato avevano assunto nella prima fase del procedimento allorché la Questura, ritenendole evidentemente attendibili e affidanti, le aveva assunte a base di una valutazione di inattualità del pericolo denunciato.

Sul punto il collegio giudicante afferma che: “Difetta di coerenza un incedere procedimentale che consente l’interlocuzione con la parte sino ad un certo punto e solo su una quota dei dati istruttori, assumendo questo apporto come rilevante ed anzi decisivo nella lettura dell’assetto probatorio sino a quel momento determinatosi; e che, in un secondo momento e senza motivata ragione – pur nel contesto di un quadro istruttorio innovato da elementi inediti, ma di contenuto omogeneo ai precedenti e, quindi, al pari dei primi meritevoli di valutazione e riscontro – ritenga quel medesimo contributo trascurabile e non più reiterabile”.

Non appare meritevole di condivisione neppure l’ulteriore assunto di principio per cui – stante l’unitarietà del procedimento – la parte, avendo beneficiato delle garanzie partecipative offertele dall’originaria comunicazione di avvio del procedimento e dalla possibilità di presentare in allora le proprie argomentazioni, potendo di ciò dirsi definitivamente appagata, null’altro avrebbe potuto pretendere nel corso del successivo sviluppo procedimentale.

Sul punto emerge infatti che: “L’argomento fonda su una considerazione formalistica e schematica degli obblighi partecipativi, oramai superata da un indirizzo interpretativo di tipo “funzionalistico e pragmatico” che, nel giudicare del rispetto delle facoltà riconosciute alle parti e a queste garantite o negate nella singola vicenda procedimentale, si ispira ad un criterio di “concretezza” e, quindi, guarda alla dinamica e alla ricaduta “effettiva” (in termini di esplicazione o di limitazione reale del diritto al contraddittorio) che la modalità applicativa della norma ha offerto al soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione”.

Infine con riferimento alle esigenze di celerità ostative all’avvio di contraddittorio, nessuna menzione figura al riguardo nel decreto di ammonimento e neppure si coglie, dalla lettura dell’atto, un diverso gradiente qualitativo dei nuovi fatti allegati dalla denunciante, che avrebbe potuto e dovuto sollecitare l’amministrazione ad una celerità non compatibile con la ponderazione dei fatti audita et altera parte.

Il Consiglio di Stato quindi ha respinto il ricorso presentato e compensato le spese di lite.

5.     Brevi conclusioni.

La pronuncia del Consiglio di Stato oggetto del presente commento si pone all’interno del solco giurisprudenziale già tracciato da numerose pronunce, alcune citate in precedenza, che tendono a garantire al soggetto destinatario di un procedimento di ammonimento il diritto di partecipare all’iter processuale e di difendersi presentando le proprie argomentazioni.

Se da un lato quindi il procedimento amministrativo vuole fornire una prima tutela al soggetto potenzialmente vittima di atti persecutori mediante un atto caratterizzato da urgenza e tempestività, dall’altro è opportuno evidenziare che il diritto di difesa del soggetto interessato non può subire ingiuste e lesive compressioni o limitazioni tali da non poter fornire, all’amministrazione procedente, tutte le necessarie e dovute deduzioni poste a sua difesa.

In definitiva quindi la celerità che caratterizza il procedimento di ammonimento del Questore non può, tranne in gravi e giustificati casi di urgenza, compromettere il diritto di difesa del destinatario di tale atto.

Bilanciamento complesso in ragione degli interessi contrapposti e meritevoli di tutela, ma necessario in uno Stato di diritto.

Consiglio di Stato sez. III, 21:12:2021, (ud. 16:12:2021, dep. 21:12:2021), n.8468

[1] I commi 1 e 2 del medesimo articolo prevedono tuttavia dei casi in cui tale disposizione non opera e l’autore è perseguibile.
[2] D. FALCINELLI, La “violenza assistita” nel linguaggio del diritto penale. Il delitto di maltrattamenti in famiglia aggravato dall’art. 61 n. 11 quinquies c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1, 2017, pp. 173 ss.
[3] A. MASSARO, G. BAFFA, A. LAURITO, Violenza assistita e maltrattamenti in famiglia le modifiche introdotte dal c.d. codice rosso, in Giur. Pen., n. 3, 2020, p.5.
[4] Cass. Pen., sez. VI, 10.12.14, n. 4332; Cass. Pen., sez. VI, 23.02.18, n. 18833; Cass. Pen., sez. V, 29.03.18, n. 32368
[5] F. MARTIN, Il rapporto tra il delitto di stalking e l’omicidio commesso in danno della vittima, Giurisprudenza Penale, n. 11, 2021.
[6] Intervenendo su questo assetto normativo, la legge n. 69 del 2019 (c.d. codice rosso) ha modificato tanto la formulazione dell’aggravante prevista all’art. 61, n. 11- quinquies c.p. quanto quella dell’art. 572 c.p.. Più nel dettaglio, dall’art. 61, n. 11- quinquies c.p. è stato “espunto” il riferimento all’art. 572 c.p., facendo transitare l’aggravante direttamente nel testo dello stesso articolo.
[7] D. RUSSO, Emergenza “Codice Rosso”. A proposito della della l. legge 19 luglio 2019, n. 69 
in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Sist. Pen., n.1, 2020, pp. 1-4.
[8] F. MARTIN, Isolamento da covid-19 e codice rosso: prospettive e problematiche applicative durante la quarantena, in Cammino Diritto, n. 5, 2020, p. 10.
[9] L. DE ROSA, Stalking: l’inizio di un incubo, in Ius in Itinere, 26.01.17.                                                                                                                                                                                                                                                                                              [10] M. CAPPELLARI, Stalking: ammonimento questorile e comunicazione dell’avvio del procedimento, in Filodiritto, 18.05.2020.
[11] T.A.R. Milano, sez. I, 20.04.17, n. 918.
[12] T.A.R. Lombardia, sez. III, 23.10.18, n. 2371; T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 16.04.18, n. 2496.
[13] Cons. Stat., sez. III, 21.10.11, n.5676; Cons. Stat., sez. III, 09.07.18, n.4187.
[14] Cons. Stat., sez. III, 29.03.19, n.  2108.
[15] Cons. Stat., sez. III, 21.12.21, n.8468.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

Lascia un commento