sabato, Aprile 20, 2024
Di Robusta Costituzione

Il diritto alla salute in tempo di emergenza: la gestione del Servizio Sanitario Nazionale tra Stato sociale e sussidiarietà

Il presente contributo, che riguarda il diritto alla salute e la sua tutela anche in situazioni emergenziali attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, conclude il focus dell’area di Diritto Costituzionale di Ius in Itinere sull’emergenza Covid-19, facendo seguito ai due precedenti: “Stato d’emergenza” e Costituzione, di Flaviana Cerquozzi, che apriva questo percorso con un’indagine sulla copertura costituzionale e i limiti dello stato d’emergenza, e La graduale limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali nella stagione del coronavirus, di Filomena Marianna Storelli , con cui si ragionava sul bilanciamento tra la salute e le altre libertà e diritti costituzionali.

 

La salute come diritto e il passaggio (dovuto) dal mutualismo al SSN

 

La maggior parte dei lettori di questo contributo, come d’altra parte chi scrive, sono certamente nati ricevendo in dote il diritto alla salute, che l’art. 32 della Costituzione repubblicana qualifica come diritto fondamentale. Senza volersi inoltrare oltre il necessario nel dibattito che vede contrapposte  norme programmatiche e precettive[1], mai sopito specialmente con riferimento ai diritti sociali, appare evidente dal tenore letterale di tale previsione che venga attribuito al legislatore il compito di predisporre gli strumenti in concreto necessari per tutelare la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e garantire cure gratuite agli indigenti[2].

Nel prosieguo di questa breve trattazione, che si concentra sulle misure sanitarie emergenziali adottate di fronte al massivo contagio dovuto al virus Covid-19, l’accento sarà posto principalmente sulla natura di diritto sociale del diritto alla salute – intendendo per esso il diritto ad una prestazione da parte dello Stato – ma non si deve considerare a sé stante o, addirittura, contrapposta a quest’ultima la contemporanea natura di interesse collettivo segnalato dall’art. 32, in quanto, come accade di solito per i diritti sociali in genere, sono due facce della stessa medaglia[3]: non vi è la tutela piena dell’uno senza la protezione dell’altro[4].

Bisogna considerare preliminarmente che, fino al secondo dopoguerra, la struttura del sistema sanitario si portava dietro l’antica impostazione mutualistica, pur aggiornata nei mezzi e con un già consistente intervento di sostegno specie economico da parte pubblica, tramite il quale si cercava già allora di assicurare cure ai bisognosi. Con l’entrata in vigore della Costituzione, cambia l’impostazione di principio, ma perché a tale mutamento consegua l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale servirà attendere il 1978 e la legge che si lega al nome di Tina Anselmi.

È allora che si mette in atto quello che il legislatore costituente ha voluto stabilire, differenziando per sempre il servizio sanitario pubblico, il solo in grado di garantire, per sua propria finalità e in attuazione della Costituzione, tutte le prestazioni atte a tutelare la salute dei consociati secondo necessità, dalla sanità caritatevole e rimessa prevalentemente alla buona volontà o all’imprenditoria privata preesistente che, se non ovviamente per i passi da gigante che la scienza ha compiuto lungo il Novecento, specie in tempi di emergenza sanitaria non si differenziava concettualmente poi tanto dalla sanità ottocentesca.

Oggi il SSN si qualifica grazie a tre caratteristiche fondamentali[5]: universalità, uguaglianza ed equità. Richiamando all’evidenza i principi fondamentali posti alla base della stessa struttura del Servizio Sanitario Nazionale, può essere utile introdurre le considerazioni seguenti con il richiamo al primo articolo della legge istitutiva del medesimo, rubricato per l’appunto “principi”:

la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini. Nel servizio sanitario nazionale è assicurato il collegamento ed il coordinamento con le attività e con gli interventi di tutti gli altri organi, centri, istituzioni e servizi, che svolgono nel settore sociale attività comunque incidenti sullo stato di salute degli individui e della collettività. Le associazioni di volontariato possono concorrere ai fini istituzionali del servizio sanitario nazionale nei modi e nelle forme stabiliti dalla presente legge”.

 

La sanità come materia concorrente: scelte strategiche e finanziamento tra Stato e Regioni, vincoli di bilancio.

 

La riforma del Titolo V, operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, con la quale, tra l’altro, è stata operata una precisa ripartizione delle competenze per materia tra Stato centrale e Regioni, estendendo la previsione previgente ha inserito tra le materie concorrenti ex art. 117 co. 3 la “tutela della salute”, facendovi dunque rientrare la protezione dell’intero diritto alla salute ai sensi dell’art. 32.

La ripartizione viene operata in questo modo, nel cui substrato si evidenzia comunque la particolare esigenza di unitarietà in materia di salute e di sanità, interpretata spesso in ottica centralista[6]: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza e garantisce contestualmente le risorse per il loro finanziamento, le Regioni organizzano i rispettivi Servizi Sanitari Regionali e garantiscono l’erogazione come minimo delle prestazioni contemplate dai LEA.

Quasi tutti i commentatori, in effetti, hanno fatto notare come sia comunque comprensibile l’esigenza di misure uniformi su tutto il territorio nazionale, anche e soprattutto al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute effettivamente a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, che ha reso irricevibili anche agli occhi della Corte Costituzionale, in più occasioni, le contestazioni mosse da talune regioni all’azione legislativa centralizzata[7].

In primis, infatti, lo Stato detiene pur sempre lo strumento della chiamata in sussidiarietà[8], ai sensi dell’art. 120[9] della costituzione e precisamente nei casi di grave pericolo per l’incolumità pubblica – requisito che certamente ricorre nell’emergenza presente – e, secondariamente, la legittimazione del suo intervento è riposta nella necessità di assicurare la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, materia riservata dall’art. 117 co. 2.m[10] alla competenza esclusiva dello Stato e richiamata, oltretutto, espressamente dal sopracitato art. 120.

D’altra parte, c’è chi ha riscontrato che “servizi fondamentali ­ quale la sanità ­ sono stati sottratti alla capacità e all’autonomia delle comunità locali per essere ricondotti, paradossalmente anche per via “federale”, a una logica di tipo aziendalistico”[11]. Si tratta di una logica che tende a ridurre il significato del riparto di competenze, della sussidiarietà e dello stesso intervento dello Stato a logiche di efficienza, trascurando al contrario e comunque relegando ad un ruolo quasi marginale i principi che richiedono di guardare prima di tutto all’efficacia, per il cittadino e per la collettività, delle prestazioni sanitarie, all’adeguatezza qualitativa e quantitativa dei mezzi a disposizione e, soltanto al fine del raggiungimento di tali obiettivi, oppure ove essi siano già stati raggiunti, consente, giustamente, il contenimento della spesa.

Oggi dunque, dopo la Riforma del Titolo V, lo Stato definisce annualmente i Livelli essenziali di assistenza[12] all’interno delle tre macro-categorie individuate nel decreto che li disciplina: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera[13]. La definizione di questi ultimi costituisce certamente un limite negativo nei confronti delle Regioni, nel senso che esse non possono in alcun caso prevedere dei livelli di assistenza inferiore a quelli così stabiliti, ma almeno astrattamente consente loro un’implementazione[14] priva di limitazioni intrinseche, poiché si tratta dei livelli minimi – e non ottimali – della prestazione sanitaria.

Il sistema di monitoraggio e premiale predisposto dallo Stato in materia ha fatto sì che le Regioni si siano viste per lo più costrette a rinunciare alle strutture ospedaliere più piccole e dispendiose in relazione ai parametri di equilibrio del bilancio, dalle quali esse si possono discostare con estrema difficoltà[15]. La Regione, però, ha ampia discrezionalità nella ripartizione delle pur limitate risorse tra le strutture del SSR presenti sul territorio.

Si può constatare come, certamente dal 2001 in avanti, il rapporto Stato-Regioni ed il contenzioso connesso si siano concentrati primariamente sugli aspetti economici e cioè, in particolare, sulla possibilità di spesa che residua alle singole Regioni, poste le ristrettezze della regolamentazione centralizzata, specialmente con riferimento ai vincoli di bilancio tanto più stringenti dopo l’introduzione in Costituzione dell’art. 81[16].

In conclusione, sia dal punto di vista regionale che statale il diritto alla salute si deve contemperare con le esigenze di bilancio nella misura in cui esse rappresentino la conditio sine qua non per la perdurante applicazione del diritto sociale perseguito. Va detto, però, che la sanità, come in generale i diritti sociali, non possono essere integralmente “subordinati” alle esigenze finanziarie, eventualità che anche la giurisprudenza ha sempre considerato “manifestamente irragionevole” ai sensi dell’art. 3 Cost., ma devono al contrario essere orientati al pareggio di bilancio compatibilmente con i principi cui il legislatore è chiamato a dare attuazione. Inoltre, non sarebbe del tutto corretto equiparare i principi fondamentali con il pareggio di bilancio ex art. 81 al punto di trarne la conseguenza che sia cosa ben fatta un bilanciamento di diritti puro e semplice, se non altro perché – anche a voler tacere del valore particolare di tali principi – ciò porrebbe sullo stesso piano senza distinzione alcuna valori costituzionali con una norma di disciplina.

A riprova del fatto che non si possa ragionevolmente far dipendere l’effettività del diritto alla salute dal bilancio annuale, al di là dei principi fondamentali, si potrebbe far riferimento d’altra parte alla stessa impostazione della contribuzione in Italia, progressiva[17], finalizzata proprio a garantire che salute, istruzione e diritti analoghi siano garantiti a tutti e gratuiti per i meno abbienti.

La Corte Costituzionale, da parte sua, ha preso posizione su questi temi precisando che un “nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali, è di tutta evidenza che la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia […]. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”[18]. In altre parole, i pubblici poteri hanno certamente il compito di assicurare ai rispettivi bilanci un indispensabile equilibrio, compito cui non resta ovviamente immune la politica sanitaria, ma la discrezionalità del legislatore si ferma dinanzi al “nucleo incomprimibile” del diritto alla salute, che nessun’altra esigenza può erodere.

Il limite del “nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana”, più volte richiamato dalla giurisprudenza[19], comporta che i diritti sociali possano essere compressi,  senza incorrere in una scelta irragionevole, soltanto qualora la loro compressione sia “eccezionale, transeunte, non arbitraria, consentanea allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitata”[20].

Tutto quanto detto finora è volto naturalmente al funzionamento ordinario del sistema sanitario, tenendo conto però che, specie con riguardo alla voce ospedaliera, la quale rappresenta quasi la metà della spesa per la sanità, l’emergenza rappresenta non un fattore eccezionale, ma parte integrante della funzione propria degli ospedali, se non un fattore addirittura quotidiano, rispetto al quale si esige adeguata prevenzione – e spesa – affinché un’emergenza dalle dimensioni eccezionali come quella epidemiologica in atto possa essere affrontata con la garanzia di un pieno rispetto del diritto alla salute e di tutti i fondamentali principi connessi, tra cui diritto alla vita, dignità umana, eguaglianza e solidarietà.

 

L’emergenza: il diritto alla salute si impone sui limiti di spesa, secondo i principi di solidarietà e uguaglianza

 

In una situazione di crisi, i parziali sacrifici che possono essere imposti ai diritti, alle libertà e agli interessi costituzionalmente protetti incontrano, come detto, il limite del “nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana”[21].

Nell’ottica dell’interesse collettivo a porre le basi quanto prima per un sistema sanitario sempre migliore, più adeguato ed efficiente, una grave crisi economica poteva forse persino giustificare un parziale e provvisorio sacrificio del diritto alla salute nella sua declinazione individuale, cioè una minima compressione della gratuità ed eccellenza qualitativa della prestazione sanitaria; anzi, sempre nell’ottica non tanto del rispetto di un vincolo formale in quanto tale, ma dell’accumulo di risorse necessarie ad una ripresa più forte e completa a vantaggio di tutti i consociati una siffatta previsione sarebbe stata giustificata proprio dall’interesse collettivo[22].

Nel contesto della gravissima crisi economica esplosa nel 2009, di cui l’Italia ha tanto risentito, si è verificato un vero e proprio abbattimento della spesa pubblica destinata alla tutela della salute. Dal 2012, però, quando cioè si è verificato questo taglio verticale della spesa per la sanità – che non solo è servita a contenere il deficit di alcune Regioni, ma tra le altre cose ha comportato anche una sostanziosa riduzione del personale medico e infermieristico –, l’investimento nel SSN non è più tornato a crescere a ritmi particolarmente sostenuti, come dimostra l’evoluzione di tale spesa rispetto al PIL[23].

Quello di fronte a cui ci troviamo oggi è il caso opposto: una crisi sanitaria. Se la crisi economica consentiva un, pur temporaneo e parziale, sacrificio di diritti fondamentali, cosa può essere sacrificato oggi, di fronte al pericolo e, anzi, al quotidiano sacrificio cui è esposta la salute dei cittadini?

Certamente, il pareggio di bilancio, sia in quanto esso non rappresenta, come già esposto, un valore assoluto tale da poter giustificare una significativa compressione di diritti in suo nome – purché, nel perdurante rispetto della ragionevolezza, la situazione eccezionale venga affrontata mediante spese mirate alla soluzione dell’emergenza – sia perché questa eventualità, d’altra parte, è contemplata dallo stesso art. 81 co. 2, il quale consente il ricorso all’indebitamento “al verificarsi di eventi eccezionali”, seppur subordinando tale imprescindibile previsione alla “previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti”.

Ebbene, l’art. 32 della Costituzione, come si diceva, rappresenta tanto un diritto soggettivo quanto un interesse della collettività, in ordine al quale lo Stato ha il dovere di agire nella situazione eccezionale certamente con mezzi eccezionali, ma anche in precedenza, al fine di predisporre tutto il necessario per fronteggiare, nei limiti di una previsione plausibile, eventi straordinari qualora si dovessero presentare.

Se le modalità concrete dell’azione, specie con riguardo alla spesa, sono rimesse alla discrezionalità del legislatore[24], però, non si può ritenere che il legislatore medesimo abbia alcuna possibilità di sottrarsi al relativo dovere valutando anche l’an del suo intervento. In realtà neanche il quantum[25] può essere realmente sindacato, poiché si potrebbe dire che egli è obbligato a fornire “quanto basta” per garantire appieno le garanzie costituzionali concernenti la vita e la salute di tutti i cittadini[26]. Meglio, la discrezionalità politica, naturalmente non comprimibile oltre un certo livello, si arresta per forza di fronte ai diritti fondamentali – attestandosi solamente nelle voci di spesa ulteriori rispetto a quel minimo vincolato di cui ha parlato con certa costanza anche la giurisprudenza – e si arresta completamente di fronte allo stato di emergenza. Conseguentemente, la vera discrezionalità nella gestione delle risorse risiede fondamentalmente nel quomodo del loro impiego, stante il fatto che devono comunque essere impiegate tutte le risorse necessarie.

Ne consegue che la scelta legislativa – statale o regionale – per il finanziamento e la promozione di strutture specialistiche, eventualmente anche private, di impianti d’innovazione con una predilezione per la ricerca e per l’eccellenza scientifica – eventualità che evidentemente sono utili al fine della tutela degli stessi e di altri valori costituzionali – nonché, infine, le scelte rimesse in capo alla singola Regione quanto alla ripartizione delle risorse tra le proprie strutture sul territorio, sono pienamente conformi a Costituzione.

Non può, però, per nessuna ragione essere ammesso che manovre di investimento o distribuzione delle risorse finanziarie, dall’implementazione della ricerca alla creazione di centri d’eccellenza, vada a scapito della solidarietà e dell’uguaglianza presupposte alla garanzia del diritto alla salute, e cioè prima di tutto alla certezza che vi siano stanze, posti letto, medici, infermieri e medicinali adeguati per tutti coloro che ne dovessero aver bisogno, poiché è proprio nelle situazioni di emergenza che lo Stato deve dimostrarsi in grado di non lasciare indietro i soggetti più deboli.

Si deve, infatti, valutare il diritto alla salute alla luce dei principi di solidarietà e di uguaglianza eretti a principi fondamentali della Repubblica[27], o meglio esso può essere visto come una delle prime e più elementari emanazioni di questi: l’uomo – e non solo il cittadino – ha infatti diritto ad essere curato e a ricevere tutta l’assistenza necessaria in condizioni di uguaglianza rispetto agli altri, senza distinzioni di reddito, condizione sociale, etnia, occupazione lavorativa, orientamento religioso e quant’altro. Il diritto in questione ha infatti un valore universalistico, ed è interesse della collettività vederlo parimenti riconosciuto e tutelato in capo a tutti i soggetti interessati.

Ecco perché questi principi, al di là di ogni vincolo di bilancio, fanno da argine al caso limite, contemplato dalle regole deontologiche del settore sanitario,  per cui si renda necessario stabilire “i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità”, cioè in altre parole operare una scelta, in base a criteri tendenzialmente probabilistici in considerazione dell’aspettativa di sopravvivenza e di efficacia della cura, tra chi può essere curato e chi no e, dunque, tra chi nutre la speranza di salvarsi e chi al contrario, poiché più debole di altri, abbia da temere che le risorse in campo non bastino per lui[28].

Ecco che il principio solidaristico e il principio di uguaglianza, declinati nelle forme del diritto alla salute, dispongono proprio che non si debba mai arrivare a questo punto estremo di rottura dell’ordinamento costituzionale: impongono, in altre parole, di predisporre tutte le attrezzature che sembrano, almeno a priori, adeguate non solo a proteggere “la maggioranza” del popolo o “coloro che ragionevolmente hanno più probabilità di essere curati con successo”, ma proprio i più deboli. Questo è il compito della Repubblica, in tutte le sue articolazioni, altrimenti per il resto basta la sola scienza medica.

La Repubblica o è quella che la Costituzione ha disegnato nei principi fondamentali, con l’interezza della sua carica umanitaria e soprattutto sociale, fondata sulla più umana e collettiva delle dimensioni – il lavoro – e finalizzata all’elevazione dell’uomo e all’uguaglianza, e allora sì che la salute è un diritto tutelato in capo al singolo e alla collettività, allora sì che vi è la certezza che tale diritto sia assicurato ai non abbienti, come previsto dall’art. 32, ma anche ai più anziani, ai più deboli. Oppure, se così non dovesse essere, quella Repubblica dalla forte caratterizzazione sociale, che troviamo descritta così elegantemente nella Costituzione, resterebbe sulla carta.

[1] La corte Costituzionale (C. Cost. 5 giugno 1956, n. 1) fin dal principio ha ritenuto che sia le norme c.d. programmatiche, sia le norme precettive tout court, siano ugualmente fonte di regole direttamente applicabili. Sul punto anche: L. Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, «Costituzionalismo.it», n. 3/2015. Inoltre, con specifico riferimento all’art. 32 Cost., sposa la tesi della prescrittività diretta e immediata: V. Tamburrini, I doveri costituzionali di solidarietà in campo sociale: profili generali e risvolti applicativi con particolare riferimento alla tutela della salute, Lanus, n. 18, 2018.

[2] Tanto, infatti, prevede l’art. 32 Cost.: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

[3] M. Olivetti, Appunti per una mappa concettuale sul diritto alla salute nel sistema costituzionale italiano, Metodologia Didattica e Innovazione Clinica – Nuova Serie, 2004, n. 3, pagg. 60-67.

[4] Si veda infra, con riferimento all’interesse collettivo pro e contro le esigenze finanziarie connesse al diritto alla salute.

[5] Al momento in cui viene pubblicato questo articolo, una breve e pratica sintesi dei principi cui si ispira l’esistenza e l’azione del SSN è pubblicata sul sito web del Ministero della Salute al seguente indirizzo: http://www.salute.gov.it/portale/lea/dettaglioContenutiLea.jsp?lingua=italiano&id=5073&area=Lea&menu=vuoto (Ministero della Salute, I princìpi del Servizio sanitario nazionale (SSN), 30 gennaio 2019).

[6] Nell’emergenza coronavirus, oltretutto, il centralismo si trasforma nella totale sostituzione del governo al parlamento, il quale utilizza non soltanto com’è naturale lo strumento del decreto-legge – ricorrendone, in tal caso, senza dubbio tutti i presupposti di necessità e urgenza, che ormai da decenni sono ampiamente e sistematicamente scavalcati da governi di ogni partito, e pure se si potrebbe dubitare dell’opportunità di tale strumento con riferimento alle misure economiche per la successiva ripresa – ma anche tramite un susseguirsi di DPCM (G. Comazzetto, Lo stato di eccezione nell’ordinamento italiano. Riflessioni a partire dalle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da covid-19, BioDiritto, 20/03/2020).

[7] D. Paris, Il ruolo delle Regioni nell’organizzazione dei servizi sanitari e sociali a sei anni dalla riforma del Titolo V: ripartizione delle competenze e attuazione della sussidiarietà, Amministrazione in cammino, 2007.

[8] C.Cost., 25 settembre 2003, n. 303.

[9] Art. 120 co. 2: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.

[10] Si tratta di materia c.d. “trasversale”, che consente cioè alla stato centrale di intervenire legislativamente in tutte le materie anche di competenza esclusiva delle Regioni, quando ne ricorrano i presupposti.

[11] F. Pizzolato, Democrazia come autogoverno: la questione dell’autonomia locale, Costituzionalismo.it, n. 1/2015.

[12] Il DPCM 12 gennaio 2017, che introduce anche l’aggiornamento annuale dei L.E.A., sostituisce integralmente il DPCM 29 novembre 2001.

[13] Aa. Vv., Il monitoraggio della spesa sanitaria, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Rapporto n. 6, 07/2019

[14] Consiglio di Stato, sez. III, 23 giugno 2016, n. 3297. Tale pronuncia afferma alcuni importanti principi in materia: in particolare, riguardo al caso di specie, in cui la Regione Lombardia differenziava ingiustificatamente il trattamento economico della fecondazione omologa o eterologa, si riporta quanto segue: “b) la circostanza che determinate prestazioni sanitarie non siano state inserite nei livelli essenziali di assistenza, pur rappresentando un limite fissato alle Regioni (art. 117, comma secondo, lett. m, Cost.) e connesso alla salute intesa quale diritto finanziariamente condizionato, non può costituire ragione sufficiente, in sé sola, a negare del tutto prestazioni essenziali per la salute degli assistiti, né può incidere sul nucleo irriducibile ed essenziale del diritto alla salute, poiché l’ingiustificato diverso trattamento delle coppie affette da una patologia, in base alla capacità economica delle stesse, «assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale» (Corte Cost., 10 giugno 2014, n. 162); c) la Regione ha il potere di fissare limiti e condizioni all’esercizio di questo diritto, nell’esercizio di una ampia discrezionalità, e anche quello di riconoscere prestazioni sanitarie aggiuntive rispetto ai L.E.A., ma la distinzione tra situazioni identiche o analoghe, senza una ragione giuridicamente rilevante, integra un’inammissibile disparità di trattamento nell’erogazione delle prestazioni sanitarie e, quindi, una discriminazione che, oltre a negare il diritto alla salute (art. 32 Cost.), viola il principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, comma secondo, Cost. e il principio di imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost.”.

[15] Aa. Vv., Lo stato della sanità in Italia, Ufficio parlamentare di bilancio, Focus tematico n. 6, 12/2019.

[16] Art. 81 Cost. co. 1 e 2: Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

[17] Art. 53 Cost: tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.

[18] C. Cos. 19 ottobre 2016, n. 275. Nel caso di specie si trattava di diritti diversi, quali il diritto allo studio e all’educazione, rispetto ai quali il diritto alla salute non è certo di minore importanza.

[19] Per esempio, C. Cost. 16 luglio 2013, n. 222.

[20] Con riferimento in particolare ai diritti sociali e loro possibilità di compressione in tempo di crisi, C. Marchese, Diritti sociali e vincoli di bilancio, Servizio studi Corte Costituzionale, 03/2015. Cita, al proposito, le sentt. nn. 245/1997; 299/1999; 223/2012; 310/2012; 304/2013.

[21] C. Cost. 16 luglio 2013, n. 222 cit.

[22] Così anche: C. Marchese, opera cit.

[23] Aa. Vv., Il monitoraggio della spesa sanitaria, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Rapporto n. 6, 07/2019; Aa. Vv., Lo stato della sanità in Italia, Ufficio parlamentare di bilancio, Focus tematico n. 6, 12/2019.

[24] M. Luciani, opera cit., pag. 14: “quando si dice che vi sono diritti che soffrono del condizionamento delle esigenze di bilancio si fa un’affermazione in astratto condivisibile, ma in concreto opinabile. Le risorse di bilancio disponibili, in effetti, non sono veramente un dato, bensì una variabile indipendente. Per essere più precisi: il totale delle risorse economiche disponibili per un concreto sistema sociale è rappresentato, ovviamente, da una quantità definita e non illimitata, ma non è affatto un dato la distribuzione di quel totale. Nondimeno, nei sistemi costituzionali avanzati (dei Paesi economicamente progrediti), queste risorse sono così elevate che il problema sta assai meno nel loro totale che non – appunto – nella loro distribuzione tra i vari impieghi. La questione, allora, non è se vi siano o meno le risorse per soddisfare adeguatamente il diritto alla salute, ma se vi sia o meno la volontà politica di destinare a questo impiego le somme necessarie, distogliendole da altre utilizzazioni”.

[25] Per Luciani (opera cit.) si dovrebbe considerare insindacabile la discrezionalità anche relativa al quantum, salvo per quanto riguarda i minimi. L. Carlassare, opera cit., fa notare però – criticando l’approccio, proprio anche di certa giurisprudenza, che guarda ai diritti sociali come a “diritti finanziariamente condizionati” – che in realtà è pur sempre l’azione del legislatore, nella sua discrezionalità, a determinare l’allocazione delle pur non infinite risorse, stabilendo di conseguenza quanto resti da destinare alla tutela di questo o quell’altro diritto.

[26] Nel caso del diritto alla salute, oltretutto, è ormai assodato che esso debba essere garantito anche ai non cittadini che per qualunque motivo si trovino sul territorio, anche se ciò non corrisponde a una totale equiparazione, anche dal punto di vista del trattamento economico, del servizio fornito dal SSN.

[27] Ne parla M. Luciani, opera cit., spiegando quali fossero le previsioni costituzionali in gioco già prima della riforma del Titolo V. Inoltre, con specifico riferimento alla qualificazione del diritto alla salute alla luce del principio solidaristico, si veda: V. Tamburrini, opera cit.

[28] C. di Costanzo, V. Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, Biodiritto, 15/03/2020; L. Palazzani, La pandemia e il dilemma per l’etica quando le risorse sono limitate: chi curare?, Biodiritto, 22/03/2020.

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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