giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta Costituzione

Il diritto di resistenza: percorsi storici e costituzionali di un diritto che c’è ma non si vede

A cura di Gerardo Scotti

Sommario: 1. Premessa – 2. Dal diritto divino al diritto naturale – 3. Una breve disamina comparata delle varie esperienze costituzionali – 4. Resistenza e Rivoluzione: due concetti a confronto – 5.  Il diritto di resistenza nella Costituzione Italiana: il dibattito in seno all’Assemblea Costituente – 6. Riflessioni conclusive: resistenza, un diritto vivo

  1. PREMESSA

Se l’esattore delle tasse, o qualunque altro pubblico ufficiale, mi chiede, come qualcuno ha fatto, ‘ma cosa devo fare?’, la mia risposta è: ‘se vuoi veramente fare qualcosa, dai le dimissioni’. Quando il cittadino si rifiuta di obbedire, e l’ufficiale dà le dimissioni dal suo incarico, allora la rivoluzione è compiuta”.

Parole forti quelle di Hanry David Thoreau nel suo famoso trattato su La disobbedienza civile, ma che fanno ben comprendere quanto sentito sia stato e, probabilmente, ancora è, il c.d. diritto di resistenza.

Ma la nostra storia costituzionale contempla un diritto di resistenza? Viene elevato a diritto costituzionalmente tutelato quello di resistere ad una particolare disposizione imperativa vigente? E, ancora, che valore ha il binomio obbedienza-fedeltà all’interno di questa annosa questione giuridica?

Parlare oggi di diritto di resistenza significa soprattutto interrogarsi sui principi posti alla base del nostro ordinamento costituzionale: sovranità e persona. Tutela della collettività e salvaguardia della Repubblica e dei diritti inviolabili della persona. E, dunque, democrazia.

Resistere ad una norma o ad un ordine appellandosi alla necessità di rendere effettivo il principio di solidarietà, ad esempio, è espressione di un diritto di resistenza tacitamente ed implicitamente riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale ovvero costituisce una semplice violazione di una norma positiva?

È, quindi, il diritto di resistenza un antidoto ad un positivismo giuridico che spesso pretende di disciplinare oltremodo e senza limiti l’agire umano? Può fungere, il diritto di resistenza, a formula necessaria in un realismo giuridico che spesso non lascia diritti?

Il nuovo concetto di cittadinanza attiva richiede forse un diritto di resistenza utile spesso a rendere dinamico il diritto che non è verità e dogma assoluto, ma è materia plasmabile che, dunque, spesso trae dalle proprie rotture la forza e le idee per farsi nuovamente norma credibile.

E se, quindi, è vero che diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia[1], è allora necessario interrogarsi sulla possibilità di rintracciare nel dettato costituzionale un anticorpo sociale, prima che giuridico, che in tempi di emergenza del diritto e dei valori fondamentali della società civile, si pone come diritto necessario ed indispensabile. Tale diritto di resistenza, se qualificato come forma di “disobbedienza civile costituente” può risultare per certi versi più particolare – melius più incisivo – rispetto alla mera disobbedienza civile che, seppur qualificabile come una forma di resistenza al pubblico potere, rimane priva di un fondamento giuridico costituzionale se, appunto, rimane svincolata dalla necessità di porsi a tutela di principi costituzionali[2].

  1. DAL DIRITTO DIVINO AL DIRITTO NATURALE

Non è possibile risollecitare una discussione giuridica seria sul diritto di resistenza avendo un approccio meramente giuspositivistico. Al contrario, è necessario volgere lo sguardo anche al diritto naturale e all’evoluzione storica che la resistenza ha avuto nella sua esperienza plurisecolare.

Il concetto di resistenza, sotto tale prospettiva analitica, risulta strettamente collegato al concetto di obbedienza, intesa come forma di conformità dell’agire del consociato rispetto al potere costituito, a prescindere da una sua valutazione di giustizia.

Ebbene, in tal senso, il problema dell’obbedienza o meno all’Autorità ed al potere costituito si pone con il Cristianesimo, per il quale l’obbedienza a Dio viene prima di quella alle leggi dello Stato (Obedire oportet Deo, magis quam hominibus- Bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini-Atti 5,9-). In base a questo principio, i cristiani dei primi due secoli disobbediscono alle leggi romane che essi considerano contrarie ai comandamenti divini, in primo luogo la legge che impone di prestare il servizio militare, in quanto contraria al comandamento di “non uccidere”, affrontandone serenamente le pene, compreso il martirio, per rimanere fedeli alla propria religione ed alla propria coscienza (i cristiani sono infatti i primi obiettori di coscienza al servizio militare)[3].  Tale situazione muterà quando, nel 313, l’imperatore romano Costantino riconoscerà ufficialmente il Cristianesimo come Religione.

Una prima idea di diritto di resistenza o di disobbedienza alla norma positiva, ispirato prevalentemente ad un diritto naturale, era emersa tuttavia già nel V secolo a.C. in Grecia e trova invero espressione nella nota tragedia sofoclea dell’Antigone, tema cavalcato soprattutto dai sostenitori di un diritto superiore e anteriore alle leggi umane.
La tragedia ruota intorno alla sepoltura di Polinice, operata dalla sorella Antigone, dentro le mura di Tebe nonostante un decreto del Re, Creonte, negasse a Polinice (suo avversario politico) degna sepoltura, prevedendo, in caso di violazione, la pena di morte per il seppellitore.

Nonostante il divieto, Antigone seppellisce segretamente Polinice e, scoperta e portata innanzi a Creonte, affermerà di essere a conoscenza del divieto ma che “a proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili tra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dei. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero, né di dove[4]. In nome, dunque, di tale diritto naturale, Antigone attua un primo atto di disobbedienza.

Prima dell’avvento del Cristianesimo, comunque, anche il diritto romano, prendendo spunto dall’esperienza filosofica greca, ricercò l’origine del diritto non già nel mero diritto positivo. In particolare, Cicerone, nel De Legibus, ritenuta la prima opera di filosofia del diritto della storia del pensiero,[5] afferma che “è cosa stoltissima considerare giusto tutto ciò che sia stabilito nei costumi o nelle leggi dei popoli”, perché “unico è il diritto che tiene unita la società umana, ed unica la legge che ne è fondamento, legge che consiste nella retta norma del comandare e del vietare[6]. E, pertanto, il pensiero di Cicerone porta a concludere nel senso che se la fonte del diritto fosse esclusivamente la norma, la legge positiva, si giustificherebbero tutte le vessazioni approvate dal decreto o dal voto della massa, senza poter distinguere la legge buona da quella cattiva.

Il diritto di resistenza assume una declinazione comunque ancora ancorata al diritto naturale anche in epoca Medievale. La resistenza presenta sempre la natura di una garanzia di un ordine già dato, da restaurare, di uno strumento di conservazione di una legittimità consolidata nel tempo e indisponibile al tentativo di ius condere del monarca[7].

Per S. Tommaso d’Aquino l’auctoritas deriva al monarca da Dio tramite il popolo che, nel caso di violazioni sistematiche del diritto naturale, è legittimato a ribellarsi al sovrano. Il diritto di resistenza, dunque, si sviluppa per tutta l’epoca medioevale ammettendo anche la liceità del tirannicidio.

Tuttavia, è solo con la Magna Charta Libertatum del 1215, concessa da Giovanni “senza terra” ai Baroni, che il diritto di resistenza si concretizza come istituto giuridico. In particolare, all’art. 61, rubricato “clausola di sicurezza”, veniva imposto a Giovanni di concedere ad un Comitato di venticinque baroni il diritto, in caso di sua violazione del patto, “di sequestrarlo e ridurlo alla miseria in tutti i modi, cioè con la requisizione dei suoi castelli, delle terre e di ogni altro possedimento in qualsiasi altro modo possibile”.
Questa disposizione, che rifletteva una facoltà ovunque attribuita ai signori locali nei confronti del capo della confederazione, fu soppressa a partire dall’ultima versione della Magna Charta del 1225.

Passaggi altrettanto importanti per costruire il substrato storico giuridico in cui collocare una strutturata riflessione sul c.d. diritto di resistenza sono sicuramente quelli che, ripercorrendo il noto asse autorità-libertà, riguardano la visione filosofico-giuridica del concetto di obbligo politico e di “Stato” per Hobbes e Locke.

Per Hobbes, l’uomo vive di appetiti e passioni in uno stato di natura, in cui ciascuno esercita tutta la potenza di cui dispone per salvaguardare la propria integrità fisica. Ciascun individuo ha un diritto naturale all’autoconservazione che viene esercitato al fine della sopravvivenza, producendo inevitabili conflitti (bellum omnium contra omnes). A tal punto, Hobbes teorizza che gli uomini, al fine di cercare la pace, devono rinunciare ad una parte del proprio diritto naturale mediante un contratto sociale che trasferisca tutti i diritti di natura, tranne quello della vita, ad una persona o assemblea che li gestirà per tutti gli uomini, con leggi da far rispettare con forza. Il patto da cui nasce la Società Civile (pactum societatis) è un patto di soggezione (pactum subiectionis). La fuoriuscita dallo stato di natura porta dunque all’origine dello Stato Assoluto, al Leviatano che assume in sé tutti gli individui, sudditi. Tale soggezione impedisce al suddito di non rispettare il patto, gli preclude qualsiasi forma di resistenza (fatta salva quella per tutelare la propria vita).
Primo vero teorico dello Stato-persona e della configurazione dei diritti del singolo come diritti derivati dal sovrano, Hobbes fa valere il primato dello Stato su qualsiasi altra fonte del diritto e della giustizia. Egli concepisce l’unità politica come il riflesso di un’“unione ipostatica” (nel senso – derivato dalla teologia – di unione necessaria e sostanziale), la cui esistenza è trascendente rispetto ai molti che la compongono e rappresenta la ragion d’essere dei singoli elementi che la compongono[8].

A differenza di Hobbes, John Locke ritiene che lo stato di natura non comporti necessariamente un conflitto permanente ma ben si presterebbe, invece, a forme di convivenza sociale. Al fine di tutelare le sue conquiste e le sue proprietà, l’uomo avverte l’esigenza di un’organizzazione che gli assicuri la pace con gli altri. Tuttavia, rispetto alla teoria hobbesiana, per Locke l’uomo non cede al corpo politico tutti i suoi diritti, ma solo quello di farsi giustizia da solo. Lo Stato perciò non negherà i diritti naturali (libertà, vita, uguaglianza, proprietà).

La società civile, sorta attraverso un pactum unionis tra gli individui, può decidere mediante un ulteriore trust di istituire il potere politico, che sarà condizionato nella propria azione dal rispetto del mandato conferito dal popolo[9]. In questo contesto il diritto di resistenza che spetta agli uomini si espliciterebbe, pertanto, nella destituzione del titolare del potere legislativo che avesse violato le condizioni del trust.

  1. UNA BREVE DISAMINA COMPARATA DELLE VARIE ESPERIENZE COSTITUZIONALI       

Coltivare una riflessione sul diritto di resistenza significa sviluppare una particolare sensibilità giuridica – riconducibile, come si vedrà, alla stessa Carta costituzionale – che consente di distinguere potere e diritto, legalità e legittimità. E ciò avviene, come finora visto, in una duplice chiave interpretativa: resistenza fondata su un’idea di diritto naturale nella sua accezione tendenzialmente connessa ad un diritto divino ovvero collegata a forme di contrattualismo costituzionale che determinano l’ancoraggio del potere costituito al concetto di sovranità popolare (a partire da Locke con la forte contrapposizione di Kant, per il quale, pur teorizzando uno stato di diritto, non vi poteva essere nessun potere superiore).

Volgendo lo sguardo oltre i confini, si registra certamente una maggiore consapevolezza che intorno al diritto/dovere di resistenza ruotassero alcuni problemi centrali per la configurazione dello Stato moderno. Tale diritto, infatti, sembra avere una lunga tradizione europea (compare già nel pensiero di Ugo Grozio, fino a Locke) e trova un suo primo riconoscimento anche all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 5 luglio 1776. In particolare “Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati tutti uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti (…) che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi (…) Allorchè una lunga serie di abusi e di torti (…) tradisce il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”.
La disposizione testé richiamata fa inevitabile riferimento ad una interpretazione del diritto di resistenza ancora sostanzialmente appoggiata ad una visione giusnaturalistica[10] tesa a proteggere uno status da eventuali violazioni.

Uno dei primi palcoscenici europei sui quali viene affrontata la tematica oggetto di discussione è la Francia rivoluzionaria del 1789.
In particolare, l’art. 2 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 recita: “Lo scopo di ogni società è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà e la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. Tale norma viene meglio interpretata attraverso una lettura combinata con l’art. 33 della Costituzione giacobina del 1793 (però mai entrata in vigore) secondo cui “La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo” nonché con l’art. 35 secondo cui “Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo il più sacro dei diritti ed il più indispensabile dei doveri”.

Ma il processo di costituzionalizzazione del diritto di resistenza inizia ad affievolirsi con l’avvento delle correnti liberali, che tentano di imbrigliare l’esercizio del diritto di resistenza all’interno di cornici legali. In Francia, ad esempio, solo Robespierre rimane a sostenere che “non può esistere che un solo Tribuno del popolo: il popolo stesso[11].

In Italia, le prime analisi strutturate del diritto di resistenza, seppur limitate, si hanno a partire dal ‘700 con il cattolico Nicola Spedalieri, che nel Dei diritti dell’uomo riprende il concetto di resistenza teorizzato durante la Rivoluzione francese seppur giustificandolo secondo la tesi di S. Tommaso[12], e con Mario Pagano, nel 1799.

Quest’ultimo, nella Costituzione della Repubblica partenopea, qualificò il diritto di resistenza sviluppandone un triplice significato. In pratica il diritto di resistenza sarebbe consistito nel:

  • diritto dell’uomo contro chi impedisce l’esercizio delle facoltà individuali;
  • diritto individuale del cittadino contro la tirannide;
  • diritto del popolo come baluardo di tutti i diritti contro gli abusi perpetrati dal potere costituito.

La Costituzione partenopea di Pagano addirittura ebbe la lungimiranza di prevedere una Corte apposita, l’Eforato, avente il compito di garantire l’effettività di una vita democratica liberale.

Saranno, tuttavia, le vicende storiche legate alla barbarie della Seconda Guerra Mondiale a far tornare in auge il problema del riconoscimento giuridico del diritto-dovere di resistenza all’interno degli ordinamenti, in particolare quelli europei. A seguito del riconoscimento della libertà penale personale di coloro che avevano commesso “crimini di guerra” o “crimini contro l’umanità” in esecuzione di ordini emanati da autorità gerarchicamente superiori, riconoscimento consacrato nello Statuto del Tribunale di Norimberga nell’agosto 1945, il diritto di resistenza viene consacrato in varie Costituzioni europee, come “diritto d’eccezione”, sussidiario a difendere l’ordinamento.

Ciò fu particolarmente vero in Germania dove in varie Costituzioni dei Lander venne formalizzato un diritto di resistenza. Miratamente:

  • la Costituzione del Lander dell’Assia del 1.12.1946, all’art.147 affermava: “La resistenza contro l’esercizio contrario alla Costituzione del potere costituito è diritto e dovere di ciascuno”;
  • la Costituzione del Lander di Brema del 21.10.1947, all’art. 19 affermava:” Se i diritti dell’uomo stabiliti dalla Costituzione sono violati dal potere pubblico in contrasto con la Costituzione, la resistenza di ciascuno è diritto e dovere”;
  • Costituzione del Lander di Brandeburgo del 31.1.1947, all’art. 6 disponeva: “Contro le leggi in contrasto con la morale e l’umanità sussiste un diritto di resistenza”;

La stessa Costituzione della Repubblica Federale Tedesca ,all’art.20, 4° comma, affermò:” Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio”.

Come si avrà modo di rilevare, invece, in Italia mancò la positivizzazione del diritto di resistenza. Ai costituenti italiani, l’eco del dibattito europeo arrivò in maniera più debole, prevalendo – nonostante le condizioni fertili (l’Italia era un Paese che usciva dal ventennio fascista, con l’estrema necessità di munirsi di garanzie atte ad evitare un ritorno della dittatura) – la tesi che preferì non dare concretezza normativa ad un principio che, comunque salvo sporadiche attenzioni, non era considerato proprio della cultura giuridica italiana.

  1. RESISTENZA E RIVOLUZIONE: DUE CONCETTI A CONFRONTO

Prima di affrontare il dibattito costituzionale inerente alla possibile affermazione positiva di un diritto di resistenza, sembra doveroso distinguere all’interno delle note dicotomie potere costituente/potere costituito, legalità/legittimità, i concetti di resistenza e rivoluzione.

La rivoluzione non aspira a una qualificazione all’interno delle categorie giuridiche dell’ordinamento valido ed effettivi che essa mira a rovesciare, mentre la resistenza si pone l’obiettivo di conservare un ordinamento che appare minacciato o si rivolge contro una violazione di tale ordinamento già verificatasi – per reintegrarlo nella struttura delineata dai suoi principi fondamentali -, ma dopo che sia stato esperito invano ogni ulteriore rimedio predisposto dallo stesso ordinamento[13].
Generalmente la forza rivoluzionaria è intrisa di potere costituente che punta a divenire potere costituito. Al riguardo, Vittorio Emanuele Orlando ha giustamente affermato che “ogni rivoluzione comporta inizialmente uno stato di fatto ed anzi di violenza, poiché in via antigiuridica (tale deve dirsi in rapporto allo stato preesistente) assale e distrugge il diritto vigente e ne sostituisce un altro. Vi è dunque un momento logico di Nondiritto, in quanto, mentre il vecchio diritto viene meno, il nuovo non si è ancora instaurato; e al momento logico corrisponde, poi, un effettivo periodo cronologico di profondo turbamento e sconvolgimento, per cui la vita del diritto è come sospesa[14].

Come si leggerà, la principale preoccupazione dei Costituenti italiani – da cui deriverà la mancata consacrazione formale del diritto di resistenza – sarà proprio quella legata al temuto rischio di inserire nel testo della Carta un concreto germe rivoluzionario.

  1. IL DIRITTO DI RESISTENZA NELLA COSTITUZIONE ITALIANA: IL DIBATTITO IN SENO ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Per conoscere il “volto della Repubblica” italiana occorre necessariamente puntare lo sguardo ai dodici principi fondamentali contenuti nella Costituzione. Tra questi, quello che più rileva rispetto alla tematica oggetto della presente trattazione è sicuramente il principio di sovranità popolare, logicamente connesso alla tematica della separazione dei poteri e funzionale a conferire il carattere “democratico” alla Repubblica.

Nell’art. 1 della Costituzione si enuncia, appunto, il ben noto principio di sovranità popolare. La sovranità “appartiene” al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Il concetto di “appartenenza” è riassuntivo di una pluralità di concetti. Come si evince dai lavori dell’Assemblea Costituente, l’appartenenza implica il possesso (il popolo è sovrano per diritto naturale originario); la proprietà (il popolo si riconosce in senso giuridico titolare della sovranità e ne autodefinisce i modi e le forme di esercizio, ciò che è specificato nelle parole « che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»); l’irrinunciabilità (il popolo non può rinunciare in tutto o in parte ad essere sovrano, a favore di una parte di se stesso o di un uomo).
Il proponente la parola «appartiene» (nel progetto si discusse «emana»), on. Fanfani, spiegò che la parola “è sufficiente a indicare a un tempo la fonte, il fondamento e il delegante della sovranità, cioè il popolo[15].

Effettuata questa premessa sulla sovranità popolare, occorre rappresentare che il 13 dicembre 1946, nella I Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, fu approvato l’art. 2 del progetto di Costituzione che, al comma 1, recitava: “”La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi“. Nel secondo comma, proposto da Dossetti, si legge che “tutti i poteri emanano dal popolo che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti“.

A questo secondo comma si collegava l’articolo 3 proposto ancora da Dossetti: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino“. Compare così, per la prima volta, il diritto-dovere di resistenza, individuale e collettiva.

È indubbio che l’esperienza e la formazione culturale, politica e sociale di Dossetti abbia contribuito fortemente nella formulazione della proposta citata. Invero, Giuseppe Dossetti, deputato appartenente alla Democrazia Cristiana, è stato un giurista canonista. È da evidenziare, inoltre, che di tutti i professori costituenti (Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira, Moro), Dossetti è l’unico ad aver partecipato attivamente alle bande partigiane.

La discussione costituente fu lunga ed articolata (durò sostanzialmente un anno). La tematica oggetto di trattazione vide la partecipazione attiva di varie personalità di spicco. Ad esempio, Aldo Moro intervenne per chiarire il collegamento tra gli articoli 2 e 3 del Progetto di Costituzione e rappresentò che nell’art. 3 “si precisa come al singolo, o alla collettività, spetti la resistenza contro lo Stato, se esso, avvalendosi della sua veste di sovranità, tenta di menomare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi. Solo dopo aver dichiarato che la sovranità dello Stato è nell’ambito dell’ordinamento giuridico [art. 2], si ha la possibilità di sancire nella Costituzione il diritto di resistenza, contro gli atti di arbitrio dello Stato[16].

Tale rappresentazione individuale e collettiva del diritto di resistenza trovò differenti riscontri in seno al dibattito costituente. Mentre l’onorevole Marchese valutò favorevolmente la proposta, suggerendo magari la formula usata dall’art. 21 della Costituzione francese[17], il democristiano Caristia si dichiarò contrario in quanto sostenne che “il diritto alla resistenza non possa essere inserito in una Carta costituzionale, sia perché, se considerato individualmente, oltre la difficoltà di poterne definire la natura, ogni cittadino ha altri modi per far valere le sue ragioni; sia perché, da un punto di vista collettivo, corrisponde ad un movimento chiamato rivoluzione, che quando fosse riuscito ad affermarsi, non avrebbe alcun bisogno di appellarsi ad un articolo della Costituzione”.
Interessante è anche lo spunto offerto dalla discussione in merito alla qualificazione del diritto di resistenza come “dovere”.  Contrario a tale aggettivizzazione fu, infatti, il Presidente Tupini, per il quale “tale affermazione avrebbe solo allora un significato concreto quando fosse stabilita una sanzione in caso di trasgressione”. Favorevoli, invece, Cevolotto (“è anche un dovere, specialmente nei riguardi di alcune categorie di cittadini, come per esempio i pubblici ufficiali che devono avere il dovere di opporsi a un ordine del superiore che sia contrario alle norme della Costituzione”) e lo stesso Moro. Quest’ultimo, in particolare, avallò la formula di Dossetti, interpretando il concetto di “dovere di resistenza” per dare una giustificazione etico-giuridica al diritto alla rivoluzione. “Insieme a questa giustificazione – affermò Moro – si è posto però un limite, perché in tanto la rivoluzione è legittima in quanto nasca da uno stato di indebita compressione dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione”. A quanto è stato dichiarato dai Relatori sull’espressione: «dovere», Moro aggiunse “che essa può essere intesa anche come un dovere morale, che è bene sia affermato dalla Costituzione, nel senso che la passività, di fronte all’arbitrio dello Stato, costituisce inosservanza di un dovere morale fondamentale”. Pertanto, la norma avrebbe avuto “un preciso e netto significato giuridico, in quanto pone un criterio direttivo al legislatore penale, affinché non consideri come reati degli atti commessi con apparenza delittuosa; ma che hanno invece il nobile scopo di garantire la libertà umana”.

La discussione del 13 dicembre 1946 annoverò, in chiusura, l’intervento di Togliatti il quale, pur votando a favore, attribuì “poca importanza alla giustificazione legale di una rivoluzione perché, a suo avviso, ciò che legittima una rivoluzione è la vittoria”.

Occorre considerare che nel passaggio dalla Sottocommissione all’Assemblea, non si ebbe più alcuna correlazione tra art. 2 e art. 3, né tantomeno il favore dei democristiani. Invero, il testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione recitava all’art. 50 “Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate. Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Tale norma fu accompagnata dalla relazione in cui si affermò che “Al principio di fedeltà ed obbedienza alla pubblica autorità fa riscontro quello di resistenza, quando l’autorità viola le libertà fondamentali. Venne da alcuni espresso il dubbio se in una costituzione che presuppone e si basa sulla legalità possa trovar posto il diritto o piuttosto il fatto della rivolta. Ha anche qui influito il ricordo di recenti vicende; ed è prevalsa l’idea che la resistenza all’oppressione, rivendicata da teorie e carte antichissime, è un diritto e un dovere, del quale non può tacersi, anche e proprio in un ordinamento che fa capo alla sovranità popolare”.

A chi paventò il rischio che una siffatta disposizione potesse divenire oggetto di abuso da parte del cittadino, Tupini dichiarò che “Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza”.

Come si evince dalle parole di Tupini, dunque, il diritto di resistenza venne comunque considerato come un diritto efficace entro l’ordinamento giuridico, addirittura assoggettabile al potere giurisdizionale.

Il progetto di Costituzione approvato dalla Commissione dei 75 che va in Assemblea sposta il diritto di resistenza al secondo comma dell’articolo 50: “Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Questo secondo comma – come è noto – non passa: nella nostra Costituzione non è, perciò, riconosciuto il diritto di resistenza.

Non passa per opposizione delle destre e di grande parte dei democristiani, per i quali significava riconoscere il diritto di rivoluzione e quindi aprire la via a una strumentalizzazione comunista di questo articolo. Vi furono pure alcuni, come Sullo, che volevano evitare che i separatisti si appropriassero del diritto di resistenza (oggi questo avrebbe una qualche attualità). Altri sostennero che questo diritto dovesse essere collegato alla parte relativa alla Corte Costituzionale, perché intrecciato con la questione delle garanzie[18].

  1. RIFLESSIONI CONCLUSIVE: RESISTENZA, UN DIRITTO VIVO

L’ormai noto art. 50 del Progetto di Costituzione che recita “Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino” rappresenta, in ogni caso, un percorso incompiuto ma certamente innovativo del tracciato costituente.

L’idea di Dossetti, pur sostenuta da Moro, da Giolitti, e comunque riconosciuta da molti altri esponenti illustri della Costituente, tra cui Mortati, non trova concretizzazione positiva nella Carta, che accoglie, invece, esclusivamente il dovere di fedeltà di cui all’attuale art. 54.

Eppure, dalla discussione summenzionata non possono rimanere non colti alcuni spunti decisivi per conferire al diritto di resistenza una generica attualità. Attualità resa ancor più viva anche in ragione dei mutamenti sociali in corso e dalla crisi della democrazia rappresentativa.

È, invero, lo stesso Costantino Mortati a confermare che dal silenzio della Costituzione non si può ricavare l’antigiuridicità della resistenza intesa quale giudizio di non conformità all’ordinamento giuridico[19]. Del resto, lo stesso emendamento proposto dal giurista calabrese il 23 maggio 1947 – “È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità» – fu illustrato in modo da evidenziarne uno “scopo di chiarificazione formale del testo della Commissione. Esso ha di mira, da un lato, di distinguere l’aspetto della resistenza individuale da quello della resistenza collettiva; e, dall’altro, di mettere in rilievo il carattere di necessità che questa resistenza deve avere, onde potere considerarsi legittima”.  Emendamento però seguito da un dietrofront del 5 dicembre 1947 attraverso il quale Mortati affermò la non necessità di inserire tale diritto in Costituzione. La motivazione fu dettata, come anticipato, dall’esistenza di altre garanzie costituzionali. Del resto, ebbe a precisare che “circa la sostanziale esattezza e, vorrei dire, la santità di questo principio, nessuno potrebbe sollevare delle obiezioni, e tanto meno noi cattolici, poiché è tradizionale nel pensiero cattolico l’ammissione del diritto naturale alla ribellione contro il tiranno. Ci sono scrittori cattolici che riconoscono la legittimità perfino della soppressione del tiranno. Quindi non è al principio che noi ci opponiamo, ma alla inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale, i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima. Siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica”.
Tuttavia, negli anni Settanta, Mortati ritornerà sull’irrisolta questione del diritto di resistenza, riconoscendo il collegamento tra resistenza e “ritmo di sviluppo di ogni organizzazione politica”, attraverso la quale “forze sociali poste ai margini dell’apparato decisionale tendono ad inserirsi in esso, che situazioni soggettive di vantaggio giungono a trovare il sostegno di garanzie istituzionali e così assorbire nell’una o nell’altra guisa il contenuto e la ragione di una resistenza diversa da quella che trova in esse soddisfazione, salvo a riprendere il suo ruolo quando l’equilibrio raggiunto si dissolva pel sopravvivere di nuove situazioni, quali quelle che inducono i detentori del potere di scuotere il giogo dei limiti ad esso imposti, o le altre che sorgono dal sociale tese alla ricerca di nuovi assetti istituzionali[20].
È questo il momento in cui, commentando l’art. 1, Mortati ritiene che il diritto di resistenza si sarebbe potuto desumere dalla lettura combinata degli artt. 1 e 3 secondo comma della Costituzione. Si tratta di un ripensamento teorico che fa della resistenza un dovere di difendere la Costituzione ai fini della realizzazione della società democratica, che non ha a che fare con la rivoluzione, ma semplice preminenza del fine sui mezzi se questi si rivelano inidonei[21].

Cambia, allora, l’equazione posta a base del diritto di resistenza: la fonte non sarebbe la sovranità popolare, bensì i diritti inviolabili. E, quindi, il bene giuridico tutelato da tale diritto potrebbe non essere solo l’ordinamento giuridico oggettivo, ma soprattutto i diritti dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione stessa. Ritorna l’efficacia del diritto di resistenza dentro e per l’ordinamento, mai fuori e contro di esso. Ritorna il concetto attuale e moderno di cittadinanza attiva: è la presenza del cittadino, la sua vigile virtù civica, il suo consenso ma anche la sua critica a dar nuova linfa vitale alla democrazia.
Questo collegamento tra dissenso e resistenza attiva si svilupperebbe nell’idea di Mortati mediante la dialettica tra costituzione formale e soggetti politicamente rilevanti. Scrive Mortati che la resistenza trova la sua fonte in sé stessa, non “nella sovranità popolare, ma nei diritti inviolabili, ancora nella sua riuscita nel porsi come diritto vivente”. La sua fonte è sempre comunque a) il diritto o naturale positivizzato, vale a dire i diritti inalienabili, o b) il diritto espressamente positivo[22].

L’attualità del diritto di resistenza e del pensiero mortatiano degli anni Settanta serve anche riflettere sul problema della mediazione tra società, sempre più frammentata e complessa, e uno Stato che modifica i suoi contorni. Si sviluppano, infatti, forme di esercizio della sovranità popolare “di germinazione spontanea”[23], tra cui la resistenza. In questa prospettiva, però, il bene protetto dal diritto di resistenza non è più l’ordinamento giuridico oggettivo né i diritti garantiti per iscritto dalla Costituzione, bensì la sovranità popolare nella sua dimensione dinamica, come prassi deliberativa che riconosce il dissenso come un fattore di integrazione[24].

Il potere costituito utilizza le garanzie costituzionali fino a quando queste sono utili alla sua sopravvivenza ma, nel momento in cui le trasformazioni socioeconomiche realizzano una trasformazione degli stessi poteri reali, esso ridiventa potere costituente o legislatura costituente, modificando le costituzioni stesse quando le garanzie in esse contenute non rispecchiano più il suo interesse perché sono sopravvenute forze e dinamiche nuove, nuovi soggetti – rilevanti diremmo- che pretendono di essere riconosciuti e tendono a porsi come nuovo potere costituente e da cui forse occorre difendersi.

È da questa dinamica circolare che prendono piede i concetti di legislatura costituente, guerra costituente e disobbedienza civile costituente. Si contrappongono potere costituente e costituito in una spirale di partecipazione democratica attiva dei cittadini mediante dissenso, critica, violazione della norma, dunque, resistenza. Con la Costituzione il potere costituente è diventato potere costituito per subordinarsi alla norma costituzionale. Ma tale assunto non può impedire al dato sociale, sempre in evoluzione, di generare normatività sostanziale. Il diritto è, per sua natura, dinamico.

D’altra parte, la formulazione di una disobbedienza costituente mette in evidenza l’esigenza di riconoscere quel potere ampio anche se poco incisivo, ma che, attraverso atti di immediata evidenza, cerca di diventare incisivo, che la società deve arrogarsi se vuole vivere secondo il principio democratico, costituire la sua organizzazione politica e regolamentare i poteri che nella società esistono[25]. Paradossalmente, sono proprio la legislatura costituente e la disobbedienza civile costituente che potrebbero compensare in via emergenziale la crisi democratica odierna, espletando di fatto un vero e proprio diritto repubblicano.

Tutto ciò si traduce, in realtà, anche in una forma di adempimento del dovere di fedeltà alla Repubblica, necessario a garantirne la sopravvivenza e l’evoluzione nel rispetto dei suoi diritti fondamentali. Fedeltà che non è obbedienza. Può esserlo, ma non lo è necessariamente. La fedeltà si pratica rispetto alla Repubblica, alla forma repubblicana intrisa di diritti inalienabili, di procedure di garanzia, di pesi e contrappesi; la fedeltà non si ha nei confronti della legge, nei cui confronti si può praticare l’obbedienza, se comunque conforme ai principi repubblicani e democratici[26].

Questa accezione del diritto di resistenza è perciò confermata anche da Cervati, laddove mette in luce come “l’approfondimento della tematica, soprattutto se considerato in connessione con eventuali forme di disobbedienza civile ed in genere quale strumento a disposizione di formazioni di cittadini che si autoassumono funzioni di tutela di interessi trascurati o violati dai poteri pubblici, rivela una potenzialità dirompente. Esso si fonda infatti sull’idea che in un ordinamento effettivamente operante sotto l’impulso del principio democratico le forze che garantiscono il mantenimento della Costituzione dovrebbero vivere dell’intervento diretto e cosciente di ogni cittadino in quanto tale[27].

In conclusione, quindi, può considerarsi desumibile dalla Carta costituzionale un diritto di resistenza, utile strumento di tutela e difesa dei principi repubblicani e dei diritti dell’individuo? Certamente si.

Il diritto di resistenza può trovare la sua collocazione costituzionale nel combinato tra gli articoli 1,2,3 e 54 (già art. 50 del Progetto di Costituzione). Il diritto di resistenza, ultimo baluardo per la tenuta democratica del sistema repubblicano, nonché  innovativo strumento di cittadinanza attiva, connettore tra il dissenso sociale ed il rinnovamento dell’ordinamento positivo, incarna ed attua il principio di sovranità popolare, garantisce la tutela dei diritti inviolabili ed è espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica che, si badi bene, è concetto diverso e più ampio dell’obbedienza alle leggi dello Stato in quanto lo precede logicamente e concettualmente, garantendo – proprio al fine di essere fedeli alla Repubblica – la resistenza, melius disobbedienza, alla legge dello Stato che violi i principi fondamentali della Repubblica.
Reinterpretando Rodotà, potremmo dire di essere di fronte a una inedita connessione tra l’astrazione dei diritti e la concretezza dei mutamenti sociali. Il diritto di resistenza diventa, laddove esercitato per garantire il rispetto di diritti fondamentali dell’individuo, il punto di incontro tra morale e diritto. Diventa il momento della partecipazione attiva alla vita democratica.

In “Lettera ai giudici” Don Milani scrisse: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista -Me ne frego”. Ecco il diritto di resistenza narrato in Costituzione è un modo per dire “I care”, “mi sta a cuore”.

[1] S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012.

[2] Sul tema, ANGELO CIARAFONI, “La disobbedienza civile: confini e fondamento in un ordinamento costituzionale”, al link https://www.iusinitinere.it/la-disobbedienza-civile-confini-e-fondamento-in-un-ordinamento-costituzionale-22149

[3] G. GIANNINI, Il diritto di resistenza nella Costituzione Italiana, Centri Studi Difesa Civile, al link www.pacedifesa.org

[4] SOFOCLE, Tutte le tragedie, a cura di Filippo Maria Pontani, Newton Compton, 1991.

[5] G. FASSO’, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di C. Faralli, VII ed., Editori Laterza, 2005.

[6] Ibidem.

[7] A. DENUZZO, L’elaborazione concettuale del diritto di resistenza: itinerari per un excursus di storia costituzionale, in Quaderni costituzionali del 20.11.2014

[8] T. HOBBES, De Cive, (1642), in ID., Opere politiche, a cura di N. Bobbio, Utet, Torino, 1959, V, 6,149.

[9] A. DENUZZO, op. cit.

[10] E. BETTINELLI, Resistenza (diritto di), in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino, 1997, 185-186.

[11] L. SCUCCIMARRA, Obbedienza, resistenza, ribellione. Kant e il problema dell’obbligo politico, Jouvence, Roma, 1998, 12.

[12] S. Tommaso criticava la tirannia arrivando ad ammettere il tirannicidio. Tuttavia, distingueva  il tiranno absque titulo (cioè l’usurpatore che non aveva il titolo per governare e per il quale è possibile anche il tirannicidio) e il tiranno quoad exercitium (cioè per il modo in cui aveva esercitato il potere; e per san Tommaso la resistenza a questo tiranno doveva essere esercitata dai magistrati inferiori).

[13] L. SCUCCIMARRA, Obbedienza, resistenza, ribellione. Kant e il problema dell’obbligo politico, op. cit.

[14] V.E. ORLANDO, Diritto pubblico generale, Giuffrè, Milano, 1940, 91.

[15] Da La Costituzione della Repubblica Italiana Illustrata con i lavori preparatori da V.Falzoni, F.Palermo, Francesco Cosentino, con Prefazione di V.E. Orlando, 28.4.1949.

[16] F. De Giorgi, Resistite fortes in fide. Giuseppe Dossetti e il “diritto di resistenza” in Il Margine, riv. N.8_9/1997

[17] «Qualora il Governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri»

[18] [18] F. De Giorgi, Resistite fortes in fide. Giuseppe Dossetti e il “diritto di resistenza”, op. cit.

[19] C. MORTATI, Art. 1, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Principi fondamentali, Zanichelli, Bologna-Roma, 1975, 32, nt. 1.

[20] Ibidem

[21] T. SERRA, Potere costituente e limiti alla revisione costituzionale in Convegno Costantino Mortati tenutosi in Roma in data 14.12.2015

[22] Ibidem.

[23] C. MORTATI, Art. 1, in Commentario della Costituzione, op. cit.

[24] Sul punto E. TOSATO, Sovranità del popolo e sovranità dello stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, 5; V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in A.A.V.V., Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, I, Cedam, Padova, 1957, 457.

[25] T. SERRA, Potere costituente e limiti alla revisione costituzionale, op. cit.

[26] Sul punto è utilissimo ricordare che forme di resistenza individuale positiva all’interno dell’ordinamento sono certamente già presenti e rispecchiano proprio la differenza concettuale tra fedeltà alla Repubblica e obbedienza alle leggi: come, invero, rappresentato anche durante i lavori dell’Assemblea Costituente, esistono nel codice penale alcune norme che consentono di non rispettare ordini e provvedimento illegittimi o contrari ai principi democratici. Ad esempio ci sono varie norme che stabiliscono la legittimità della resistenza individuale (cioè del singolo individuo) di fronte al provvedimento illegittimo (anche se apparentemente legittimo) dell’Autorità e/ o al comportamento arbitrario di un pubblico funzionario. Ricordiamo, l’art. 4 del DLL n. 288 del 1944, che legittima la resistenza attiva (non solo passiva) ad un pubblico ufficiale o ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, qualora queste funzioni pubbliche siano esercitate in modo arbitrario. Ricordiamo anche l’art.51 del Codice penale che esclude la punibilità dei fatti compiuti nello “esercizio di un dovere” o nell’“adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità” e l’art.650 del Codice Penale, che legittima la disobbedienza contro provvedimenti non “legalmente dati” dall’Autorità, cioè emanati arbitrariamente e quindi illegittimi. Per i militari, inoltre, il dovere di disobbedire all’ordine manifestamente illegittimo è previsto dalla legge 11.7.1978 n. 382
(Norme di principio sulla disciplina militare), che all’art. 4 stabilisce: ”Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori”. La norma è ribadita nell’art.25 del

Regolamento di disciplina delle Forze Armate, varato con il DPR n. 545 del 1986. Questa norma è una chiara esecuzione dell’art. 52 , 2 comma della Costituzione, che stabilisce che “l’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.

[27] A.A. CERVATI, Le garanzie costituzionali nel pensiero di Costantino Mortati in M. GALIZIA-P. GROSSI (a cura di), Ilpensiero giuridico di Costantino Mortati, Giuffrè, Milano, 1990.

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