giovedì, Marzo 28, 2024
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Il G8 di Genova – la morte di Carlo Giuliani

Il G8 è la storia di un fallimento, come ben racconta Giovanni Mari[1]: degli otto Grandi che hanno partecipato al forum, del governo italiano, dell’intelligence e delle forze dell’ordine ma anche, come vedremo, della magistratura. Un fallimento collettivo, che ha messo in evidenzia tutte le falle di un sistema – politico, organizzativo e amministrativo – che ha sottostimato i rischi e che non ha saputo gestire un evento di tale portata.

Un fallimento quasi mai raccontato in maniera critica dai mass media, a cui ha fatto buon gioco il racconto dell’eterna contrapposizione tra buoni (le autorità) e cattivi (i manifestanti, non importa se pacifici o violenti) e in cui non ha quasi mai trovato spazio la ricerca della verità: sulle colpe dei singoli, da una parte e dall’altra della “barricata”; sulla responsabilità – diffusa – dei vertici delle forze dell’ordine e della polizia; sulle mancanze delle inchieste, spesso lacunose e contradditorie; sulle colpe della politica, incapace di organizzare il summit (nonostante avesse ancora negli occhi le violente manifestazioni di Napoli di qualche mese prima) e di gestire le sue tragiche conseguenze.

Inefficienza, disorganizzazione, impreparazione e omertà sono stati gli ingredienti del G8 di Genova, “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale[2].

Il G8 e la morte di Carlo Giuliani

Il G8 fu un summit internazionale che, fino al 2014, riunì i capi di Stato delle 8 nazioni più potenti: Stati Uniti, Germania, Giappone, Russia, Canada, Francia, Inghilterra e Italia. In concomitanza con il G8 del 2001, svoltosi a Genova nei giorni del 19, 20 e 21 luglio, furono annunciate diverse manifestazioni da parte del GSF, il Genoa Social Forum, comitato coordinatore di associazioni legate al mondo no-global e alter-mondialista, per una marea umana di quasi 300mila persone.

Le autorità misero in atto un imponente (ma, col senno di poi, deficitario) sistema di sicurezza, dividendo la città in zone di rischio e identificando le manifestazioni con una scala di colori in base al grado di pericolosità, dalle manifestazioni “rosa”, meno rischiose, a quelle “nere”, a cui avrebbero partecipato i manifestanti più violenti, tra casseurs e membri dei c.d. black bloc.

Ciò, comunque, non riuscì a scongiurare scontri ed episodi violenti.

Se le manifestazioni della prima giornata, quella del 19 luglio, si svolsero tranquillamente, già dalla mattina del 20 luglio le forze di polizia si scontrarono in maniera molto accesa con alcuni manifestanti, con lanci di oggetti contundenti, fumogeni e lacrimogeni, caricando anche manifestanti non violenti e attivisti[3]. Nel pomeriggio, alcuni gruppi di black bloc si staccarono dai cortei e dai percorsi autorizzati, devastando il centro storico e scatenando la – tardiva – reazione delle forze di polizia. Le autorità spinsero i manifestanti in Piazza Alimonda e lì, nei disordini, perse la vita Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola alla testa sparato a distanza ravvicinata da un carabiniere, Mario Placanica, e successivamente travolto dalla jeep dei carabinieri in fuga.

Le complesse indagini e il successivo processo si svolsero parallelamente al c.d. “processo dei 25”, che vide imputati alcuni manifestanti per reati commessi nell’ambito dei disordini (danneggiamento, furto, devastazione, saccheggiamento, atti di violenza nei confronti di membri delle forze dell’ordine).

La sentenza di primo grado e, successivamente, anche la pronuncia d’appello riconobbero come, durante la mattinata del 20 luglio, l’intervento delle forze di polizia, che dispersero i manifestanti con cariche e fumogeni, fosse stato completamente illegale ed arbitrario, dal momento che i presenti – appartenenti ad una componente pacifica del corto, le c.d. tute bianche – non avevano commesso alcun significativo atto di violenza e la reazione dei manifestanti fu quindi giustificata dalla legittima difesa, trovandosi in una situazione qualificata dal tribunale come di “risposta necessaria” di fronte agli atti arbitrari della forza pubblica[4]. D’altro canto, i disordini scoppiati nel pomeriggio – e nei quali perse la vita Giuliani – scaturirono da una reazione vendicativa della folla, pertanto la condotta delle autorità, anche quando motivata da panico e timore per la propria incolumità, fu lecita e legittimata dall’aggressione subita dai manifestanti[5].

Nel parallelo giudizio sulla morte di Giuliani, la posizione di Placanica, imputato di omicidio colposo, venne quindi stralciata e il carabiniere venne prosciolto in quanto, secondo la corte, agì per legittima difesa, motivata dai tumulti e dal fatto che, come noto, Giuliani stava brandendo un estintore, con l’asserito intento di scagliarlo contro il Defender dei carabinieri. Particolarmente discussa fu la teoria del c.d. “oggetto intermedio” accolta dal collegio giudicante, secondo la quale il proiettile sparato da Placanica si sarebbe scontrato in volo con un altro oggetto (una pietra, o forse lo stesso estintore), deformandosi, rallentando la corsa e finendo poi per colpire Giuliani.

La sentenza sul caso Giuliani e Gaggio c. Italia

I genitori di Carlo Giuliani, rilevando una serie di incongruenze nella sentenza di merito[6], decisero di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando una violazione dell’art. 2 CEDU sia sotto il profilo sostanziale (l’obbligo di mettere in atto adeguati provvedimenti per tutelare la vita dei cittadini) che procedurale (l’obbligo di svolgere indagini per individuare i colpevoli e aprire un procedimento per accertarne le responsabilità).

La Corte si pronunciò due volte[7], con due sentenze (la prima della Camera – Quarta Sezione – e poi della Grande Camera) caratterizzate da una pressoché identica ricostruzione dei fatti – pedissequamente ripresa da quella operata dai giudici nazionali – relativi ai disordini di piazza e alle dinamiche della morte di Giuliani, suscitando accese critiche anche da parte dei membri del medesimo collegio giudicante, come testimoniano le risicate maggioranze (appena cinque voti contro tre in Camera e dieci voti contro sette contrari in Grande Camera) con cui vennero approvati i verdetti.

Per quanto riguarda il profilo sostanziale, la Corte, in primo luogo, valutò la compatibilità della condotta delle autorità nazionali al dettato dell’art. 2 CEDU e, in particolare, del suo secondo comma, il quale elenca le limitate ipotesi in cui vi può essere una deroga alla tutela del diritto alla vita come convenzionalmente garantito. Ai sensi di detta norma, infatti, “Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita”, ma “la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; … (c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”.

I giudici, in entrambe le occasioni, evidenziarono il “contesto di estrema tensione” generatosi a seguito di un “attacco illegale e violentissimo” da parte dei manifestanti, nonché lo stato di panico di Placanica, un carabiniere “escluso dal servizio d’ordine e posto in un veicolo non blindato[8]. I carabinieri – come poi meglio ribadito in Grande Camera – furono vittime di un assalto deliberato e arbitrario e l’offesa arrecata fu una semplice reazione a questo attacco: Placanica esplose lo sparo in stato di shock, con un campo visivo limitato e solo dopo una serie di avvertimenti rivolti ai manifestanti[9].

Nella prima pronuncia in Camera, i giudici ritennero la reazione legittima rispetto al caos in cui i carabinieri si trovarono ad operare[10]. Ma nella sentenza della Grande Camera, il collegio giudicante si spinse oltre, sostenendo come tale condotta fosse giustificata non già dal bisogno di reprimere una sommossa o un’insurrezione, quanto dal bisogno di “garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale ai sensi della lett. a) del predetto comma, non rilevando dunque alcuna violazione della Convenzione[11].

In entrambe le pronunce sono comunque ravvisabili una serie di criticità – peraltro evidenziate anche da alcuni membri dei collegi giudicanti nelle loro opinioni in calce alle due sentenze.

Circa la ricostruzione dei fatti, il giudice Bratza si disse scettico circa la concatenazione di eventi descritta dalle autorità nazionali, sottolineando invece come i carabinieri si trovassero “a bordo di un veicolo solido … protetti da uno scudo, da giubbotti antiproiettile e da caschi”, le loro ferite non erano gravi e “numerosi altri agenti di polizia e carabinieri si trovavano nelle immediate vicinanze della jeep e sarebbero potuti andare in loro soccorso, se necessario”; circa i manifestanti, ancora, questi erano “relativamente poco numerosi e privi di armi letali[12].

Lo stesso giudice Bratza non fu nemmeno persuaso dall’applicazione della teoria del “corpo intermedio”, non sufficiente per giustificare un’interruzione del nesso di causalità tra l’azione del carabiniere e la morte di Giuliani: “Per interrompere una catena di causalità, la causa nuova deve, a mio parere, essere sufficientemente potente ed inattesa da far sì che la condotta della persona interessata non possa in nessun caso essere considerata come una causa, bensì tutt’al più come un elemento del complesso delle circostanze del caso[13].

La teoria del corpo intermedio fu comunque largamente accettata e mai messa in discussione – benché “statisticamente poco probabile” – tanto da fondare la critica dei giudici Tulkens, Zupančič, Gyulumyan e Karakaş, i quali ritennero deplorevole “che l’inchiesta interna non abbia potuto determinare con certezza se il proiettile sia o meno rimbalzato su un oggetto prima di raggiungere Carlo Giuliani”, in quanto (a) nel caso in cui il proiettile fosse stato sparato verso l’alto, per avvertimento, non sarebbe ravvisabile alcuna violazione dell’art. 2 CEDU, in quanto un elemento “imprevedibile e incontrollabile” (ossia la collisione con un oggetto in vola, in ossequio alla teoria del corpo intermedio) ha condotto alla morte di Giuliani ovvero (b) se lo sparo fosse stato ad altezza uomo, “si dovrebbe necessariamente … concludere che il ricorso alla forza omicida non era «assolutamente necessario»[14].

Sempre sotto il profilo sostanziale, la pronuncia della Camera si concentrò su un profilo, poi ripreso nella successiva sentenza della Grande Camera, ossia l’inosservanza dell’obbligo di proteggere la vita di Carlo Giuliani. Sul punto, i giudici, sempre a mente del generale contesto di guerriglia urbana, “decisero di non decidere”, concludendo come “la Corte si trova nell’impossibilità di stabilire l’esistenza di un legame diretto e immediato tra le lacune che hanno potuto inficiare la preparazione o la conduzione dell’operazione di mantenimento dell’ordine e la morte di Carlo Giuliani” e, dunque, “non è accertato che le autorità italiane siano venute meno al loro obbligo di proteggere la vita di Carlo Giuliani[15].  Anche su questo punto, la sentenza della Grande Camera, da un lato, aderì a quanto deciso in Quarta Sezione (“niente prova che i soccorsi portati a Carlo Giuliani siano stati insufficienti o tardivi e/o che il passaggio della jeep sul corpo della vittima sia stato un atto intenzionale[16]), ma, dall’altro, giunse a conclusioni ex post quantomeno censurabili, non considerando come elementi determinanti nella decisione né il caos generato da una catena di comando deficitaria né l’inidoneità di Placanica a proseguire il servizio, il quale, nonostante lo stato di shock, si trovava ancora in possesso dell’arma[17].

Oggi, però, abbiamo tutti gli elementi per poter affermare criticamente – e con un sufficiente grado di certezza – come l’inefficienza, la scarsa preparazione degli agenti e la disorganizzazione delle autorità italiane ebbero un ruolo centrale nella catena di eventi che portarono alla creazione di un “imbuto” in Piazza Alimonda, ai disordini che ivi si scatenarono e, in ultimo, alla morte di Giuliani[18].

La Grande Camera estese la propria valutazione anche ad un diverso e ulteriore profilo, ossia la compatibilità del quadro legislativo nazionale italiano rispetto all’adempimento degli obblighi previsti dall’art. 2 CEDU. L’analisi dei giudici si concentrò su due aspetti:

la formulazione e l’applicazione dell’art. 53 c.p. sull’uso legittimo delle armi, il quale dispone – oggi come allora – come “non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi … quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza”; secondo la Corte, tale norma, come applicata dai giudici di merito nel caso di Placanica, risultò compatibile e aderente alla assoluta necessità di proteggersi da una violenza illegale citata dall’art. 2 CEDU[19].

la compatibilità della disciplina relativa alle “regole di ingaggio” delle forze di sicurezza coinvolte, in particolare, sul tipo di armi utilizzate; la Corte evidenziò come il fatto che le autorità non fossero dotate di armamenti non letali[20] – benché avessero utilizzato in precedenza lacrimogeni e fumogeni per disperdere i manifestanti – fu irrilevante nelle specifiche circostanze del caso di specie, in quanto i carabinieri stavano rispondendo ad “un attacco violento e puntuale che … costituiva un pericolo imminente e grave per la vita[21] ed erano dunque legittimati (anche) all’uso di armi potenzialmente letali.

Riassumendo, dunque, le autorità italiane non violarono l’art. 2 CEDU sotto il profilo sostanziale in quanto:

  • la reazione di Placanica fu legittimata e giustificata e l’utilizzo dell’arma risultò essere finalizzato esclusivamente a proteggere la propria vita da un assalto violento, illegittimo e arbitrario;
  • non vi furono elementi per stabilire che l’inefficienza organizzativa delle autorità italiane ebbe un qualche ruolo nella catena di eventi che portarono alla morte di Giuliani, così come non vi furono ragioni per sostenere che le stesse non abbiano fatto tutto ciò che era in loro potere per evitarne la morte;
  • in ogni caso, il quadro legislativo applicabile all’epoca fu ritenuto conforme a quanto previsto dalla Convenzione, sia per quanto concerne le “regole di ingaggio” delle forze impegnate sia per quanto riguarda il successivo giudizio sulla loro condotta.

È invece sotto il profilo procedurale che le due sentenze si divisero.

In prima battuta, la Corte, pur non affrontando tutte le questioni processuali sollevate dai ricorrenti[22], giunsero comunque a ritenere violato l’art. 2 CEDU sotto il profilo del – mancato – rispetto degli obblighi procedurali – sulla scorta di alcune criticità rilevate nel caso di specie: l’esame medico-legale sul corpo di Giuliani fu estremamente lacunoso ed impossibile da ripetere, in quanto la Procura dispose la cremazione del corpo appena dieci giorni dopo il decesso[23]; le successive indagini, sulla morte di Giuliani, furono altrettanto lacunose, in quanto concentrate esclusivamente sulle circostanze inerenti lo sparo e non anche sugli “aspetti dell’organizzazione e della gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico”, che la Corte ritenne invece centrali alla luce dello “stretto legame” tra la morte e i disordini che si erano creati in Piazza Alimonda[24].

La Grande Camera, però, non fu dello stesso avviso. Le indagini svolte nel corso del processo a Placanica furono, nell’opinione della Corte, sufficientemente approfondite da permettere di accertare, in teoria, se il carabiniere avesse o meno agito per legittima difesa e il parallelo “processo dei 25”, inoltre, ebbe ad oggetto proprio le lacune organizzative e le violazioni disciplinari dei carabinieri; la Corte osservò peraltro come, oltre alle indagini svolte dall’autorità giudiziaria, vennero avviate una serie di indagini interne – che portarono ad alcune azioni disciplinari – e si stabilì anche una commissione di inchiesta parlamentare[25]. Ancora, circa la completezza dell’esame medico-legale, la Corte non riconobbe alcun pregio alle eccezioni di controparte, sia circa i rilievi effettuati (particolarmente significativo il passaggio secondo cui “Visto il numero di persone che si trovavano sulla piazza Alimonda e la confusione che vi regnava dopo gli spari, non si può rimproverare alle autorità di non aver trovato alcuni oggetti di piccole dimensioni, ossia i proiettili sparati da M.P.[26]) e persino circa la lamentata non imparzialità di uno (dei quattro) periti[27].

Conclusioni: cosa resta dopo la sentenza Giuliani e Gaggio c. Italia?

La sentenza della Grande Camera diede sostanzialmente un “colpo di spugna” sull’intera vicenda e sulla responsabilità delle autorità italiane, sia per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti che condussero alla morte di Giuliani sia circa la valutazione della condotta dei carabinieri.

Sotto entrambi i profili, le pronunce (di Camera e Grande Camera) presentano inevitabilmente delle criticità che, come visto, furono a vario titolo evidenziate dagli stessi membri dei due collegi giudicanti e che possono essere ricondotte al bias ingenerato dalla ricostruzione dei fatti effettuata dalle autorità nazionali (che, per quanto censurata e censurabile, non avrebbe comunque potuto essere messa in discussione dai giudici di Strasburgo).

In primo luogo, in nessuna pronuncia viene messo in discussione l’accertamento – effettuato dai giudici di merito – sulla responsabilità delle forze di sicurezza italiane, che hanno invece in larga parte contribuito, tra inefficienza, disorganizzazione e scarsa conoscenza del contesto e della composizione dei manifestanti, a generare il caos che ha portato ai fatti di Piazza Alimonda. Un crimine – perché di questo si parla – senza alcun responsabile e per cui nessuno, nella “cinghia di comando” è stato poi chiamato a rispondere, anche grazie alla scure della prescrizione: non i vertici dei reparti impiegati, non De Gennaro, l’allora capo della Polizia – assolto anche in Cassazione del solo reato di falsa testimonianza per i fatti della scuola Diaz – poi addirittura promosso a Sottosegretario alla Presidenza, non il Ministro dell’Interno pro tempore Scajola.

Oltre a questo, altrettanto criticabile è la granitica certezza con cui i giudici di Strasburgo, aderendo alle conclusioni delle corti italiane, accettarono la versione dei fatti “condivisa” secondo cui i carabinieri fossero in una situazione di effettivo e grave pericolo per la loro vita. Nessuno spazio, infatti, trovarono le eccezioni sollevate dal citato giudice Bratza, unico ad evidenziare, invece, alcune circostanze che avrebbero potuto condurre ad una narrazione dei fatti differenti (la blindatura dell’auto, l’adeguato equipaggiamento di protezione e la presenza di altri carabinieri nelle vicinanze). Men che meno trovarono spazio le accuse, mosse già all’epoca ma che scaturivano da voci minoritarie, sulla condotta delle forze di sicurezza e sulle modalità di ingaggio dei cortei e dei disordini, che, come già ribadito, hanno contribuito in maniera determinante al caos di Piazza Alimonda.

Altrettanto criticabile è anche l’accettazione acritica della teoria del “corpo intermedio”, attesa la sua evidente improbabilità logica e statistica e la asserita incompletezza delle perizie balistiche effettuate.

Indipendentemente da questi ultimi aspetti, comunque, sarebbe forse stata necessaria una più approfondita valutazione sulla condotta dei carabinieri che, in linea teorica, avrebbero dovuto essere preparati e pronti a gestire – anche da un punto di vista psicologico, oltre che operativo – situazioni di grave rischio e pericolo. Un aspetto, questo, che richiama temi solo superficialmente analizzati dalla Corte circa la (im)preparazione dei carabinieri sul campo.

Il dibattito pubblico si è però concentrato su altro, sulle responsabilità di Giuliani, sul fatto che “se non si fosse trovato lì, tutto ciò non sarebbe successo“, dimenticando tutto il resto: le responsabilità delle autorità, gli errori dei singoli e della catena di comando, le incongruenze e le contraddizioni delle sentenze.

Errori che si sarebbero poi – tragicamente – ripetuti la sera dopo, tra le mura della scuola Diaz e della caserma del quartiere Bolzaneto.

[1] Mari G., Genova, vent’anni dopo, People, Busto Arsizio, 2021.

[2] Definizione data da Amnesty International e citata dal Pubblico Ministero Zucca nelle repliche del processo sui fatti della scuola Diaz, «Al G8 la più grave violazione dei diritti umani», Il Secolo XIX, 30 ottobre 2010 (https://www.ilsecoloxix.it/genova/2008/10/30/news/al-g8-la-piu-grave-violazione-dei-diritti-umani-1.33367778).

[3] Diverse testimonianze riportano come, già nella mattinata, diversi membri appartenenti ai black bloc iniziarono a devastare il centro storico, senza però alcuna reazione da parte delle forze di sicurezza, A. Camilli, Limoni, Internazionale, 2021.

[4] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, ricorso n. 23458/02, sentenza 24 marzo 2011 (Grande Camera), §124 [Le traduzioni sono a cura del Ministero della Giustizia].

[5] Ibid., §126.

[6] Secondo i genitori, i carabinieri si trovavano all’interno di un’auto blindata, sufficientemente robusta da resistere ad una sassaiola, e lo stesso Placanica dichiarò, durante un interrogatorio, di aver sparato senza avere nessuno nel campo visivo, facendo venir meno la tesi, poi accolta dal Tribunale, della legittima difesa, Ibid., §§159 – 163

[7] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., sentenza 25 agosto 2009 (Camera – Quarta Sezione) e 24 marzo 2011 (Grande Camera).

[8] Corte EDU, Giuliani e Gaggio, §226 (Camera – Quarta Sezione).

[9] Una ricostruzione che dunque smentisce la legittima difesa, vds. nota precedente.

[10] Ibid., §227.

[11] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §194 (Grande Camera).

[12] Opinione parzialmente dissenziente del Giudice Bratza alla quale aderisce il giudice Šikuta in calce alla sentenza della Camera – Quarta Sezione, §7.

[13] Ibid., §5.

[14] Ibid., §§8 – 9

[15] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §239 e §243 (Camera – Quarta Sezione).

[16] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §261 (Grande Camera).

[17] Ibid., §§259 – 260.

[18] G. Mari, cit., ma persino il giudice Bratza, nella già citata opinione dissenziente, elenca una serie di circostanze che confermano le criticità organizzative poi rilevate in numerose inchieste e resoconti e di cui, però, nessuno, nella “cinghia di comando” rispose – se non con pene lievi.

[19] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §214 (Grande Camera).

[20] Particolarmente interessante, sul punto, è l’opinione dei giudici Rozakis, Tulkens, Zupančič, Gyulumyan, Ziemele, Kalaydjieva e Karakaş in calce alla sentenza della Grande Camera, che evidenziarono una serie di fattori meritevoli di attenzione: lo scarso effetto dissuasivo di armi con proiettili di gomma, la mancanza di mezzi alternativi e, contemporaneamente, la possibilità, per Placanica, di ottenere lo stesso effetto dissuasivo sparando per aria o da una diversa angolazione, §6.

[21] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §216 (Grande Camera).

[22] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §245 (Camera – Quarta Sezione).

[23] Ibid., §250, sul punto, nella sua opinione parzialmente dissenziente, il giudice Zagrebelski specificò come la Procura avesse autorizzato la cremazione solo su parere favorevole della famiglia, che non ritenne di nominare propri periti per effettuare ulteriori, urgenti, analisi, §5. Per contro, in calce alla sentenza della Grande Camera, giudici Rozakis, Tulkens, Zupančič, Gyulumyan, Ziemele, Kalaydjieva e Karakaş dimostrarono una notevole sensibilità: “riteniamo che non si possa rimproverare a dei genitori colpiti da un evento così tragico di non aver valutato attentamente tutte le conseguenze di una richiesta di mettere a disposizione la salma presentata subito dopo il decesso del figlio … la procura poteva benissimo rigettare la loro richiesta o esigere che quest’ultima avvenisse solo dopo la pubblicazione dei risultati dell’autopsia”, §16.

[24] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §253 (Camera – Quarta Sezione).

[25] Corte EDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, cit., §310 (Grande Camera).

[26] Ibid., §322

[27] Ibid., §323, il Dott. Romanini aveva infatti espresso la propria opinione a riguardo del processo a carico di Placanica su una rivista scientifica, sostenendo come il carabiniere avesse agito per legittima difesa.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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