venerdì, Marzo 29, 2024
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Il merchandising e le sue principali articolazioni

Il merchandising (dal verbo inglese to merchandise, ossia commerciare) è un contratto mediante il quale il soggetto (licenziante o merchandisor), titolare dei diritti di utilizzazione di un marchio particolarmente noto o, comunque, di un nome o altra opera intellettuale, permette ad un terzo (generalmente imprenditore, il c.d. merchandisee) di utilizzare tale segno distintivo per produrre e commercializzare determinati beni o servizi ricompresi in un settore di mercato diverso.

In pratica, quando acquistiamo articoli della nostra squadra del cuore, che possono essere profumi, sveglie o magliette, o anche dei prodotti “firmati” dai film più famosi, in ciò si pensi al boom che, negli anni ’70, ebbero i gadget ed i giochi ispirati al film “Star Wars”, stiamo acquistando oggetti che fanno parte della grande famiglia del merchandising. Ovviamente, da tale accezione va ben tenuto distinto il significato che tale termine propriamente assume nel gergo specifico del marketing (o, per meglio dire, della prassi commerciale), ove è fatto coincidere con svariate attività attuate per la promozione delle vendite dei prodotti, ad esempio le ricerche di mercato.

Effetto principale di tale tipologia contrattuale è, quindi, ampliare commercialmente lo sfruttamento del valore attrattivo del segno (nome ecc..) anche in ambiti di produzione o di vendita diversi da quelli di pertinenza o di riferimento del titolare originario dei diritti di utilizzazione dello stesso. In genere, il tornaconto del merchandisor [1] si realizza attraverso la previsione di una percentuale sui guadagni del merchandisee (la c.d. royalty [2]) o, pure, di un compenso minimo garantito, nonché con la possibilità per quest’ultimo di acquistare i prodotti commercializzati ad un prezzo conveniente.

Siccome, nel nostro ordinamento, tale contratto (convenzionalmente ritenuto di origine anglosassone, in particolare si pensa che abbia avuto origine negli Stati Uniti d’America agli inizi del XX secolo) non ha ricevuto una disciplina specifica, esso viene di fatto regolato in base alla prassi commerciale ed alle norme che regolano contratti simili. In base a ciò, il merchandising è definito dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie quale contratto atipico ma socialmente tipizzato.

Posta tale considerazione, va rilevato che il merchandising è un fenomeno eterogeneo che può avere ad oggetto qualsiasi entità (o properties) dotata di popolarità e riconoscibilità pubblica e, pertanto, nella prassi sono rinvenibili tipi diversi di merchandising, la differenza tra i quali si basa sull’oggetto del contratto. Si parlerà, quindi, di:

1) character merchandising, relativamente al nome o all’immagine di personaggi di fantasia, cui si applica la normativa sul diritto d’autore. Tale categoria va, a sua volta, ad articolarsi in fictional characters merchandising, qualora si tratti di personaggi di fumetti o cartoni animati, ed in literary characters merchandising, se inerente a personaggi delle opere letterarie;

2) personality merchandising, relativo al nome o all’immagine di personaggi famosi. In tal caso vediamo l’applicazione delle norme sulla tutela del nome e dell’immagine (artt. 7 e 10 del codice civile [3] [4]), altresì tutelati dall’art. 21, terzo comma,  del  codice della proprietà industriale [5] (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 [6]), il quale prevede la possibilità di registrate i nomi di persona, se notori, come marchi;

3) movie merchandising, ovviamente inerente alle opere cinematografiche ed ai diritti di proprietà intellettuale ad esse collegati;

4) event merchandising -> eventi sportivi e culturali;

5) trademark (o brand) merchandising, il più “famoso”, se vogliamo, in quanto relativo al marchio di determinati prodotti o servizi come, ad esempio, i marchi che richiamano un’immagine di lusso, i c.d. status properties (es: marchi di celebri stilisti, come Dior) o, comunque, particolarmente diffusi o popolari (Coca-Cola).

Giova evidenziare, in merito all’ultima delle fattispecie sopraindicate, che fondamentale importanza riveste il fatto che il marchio non venga utilizzato in modo da indurre in errore i consumatori circa l’origine effettiva del prodotto. Sarà onere del soggetto terzo cui l’utilizzo del marchio è stato concesso (merchandisee), pertanto, adottare tutti gli accorgimenti necessari ad informare in consumatori circa la reale provenienza del prodotto.

È in tale profilo, si precisa, che emerge la differenza di fondo tra merchandising e licenza di marchio (detta anche licenza di merchandising, disciplinata all’art. 2573 c.c. [7]) in quanto, in quest’ultima fattispecie contrattuale, il marchio è concesso proprio per essere apposto su prodotti o servizi uguali o, perlomeno, simili a quelli per cui esso è stato ab origine concepito ed impiegato dal suo titolare originario (ovviamente dietro corrispettivo da versare a quest’ultimo).

Per quanto inerente, invece, le similitudini esistenti tra i due contratti in questione, è stato affermato che, come nel contratto di licenza, anche nel fenomeno del merchandising, in forza del testo del contratto, sopravviva il potere di controllo, da parte del titolare originario del segno distintivo, su tutti i prodotti realizzati dai suoi licenziatari o merchandisee.

“Ciò che varia in termini di controllo, tra i due, è inerente ai parametri in base ai quali avviene l’esercizio dello stesso: per la licenza il controllo riguarda più che altro il livello qualitativo dei prodotti, l’estetica del prodotto fisico realizzato; in caso di merchandising, invece, viene controllato ciò che costituisce per il pubblico l’elemento di maggior richiamo del marchio stesso ad esempio lo stile.

Nel merchandising, infatti, il pubblico ha un’aspettativa diversa rispetto alla licenza, non diretta a che i prodotti su cui è apposto il marchio concesso in licenza provengano dallo stesso imprenditore, ma al fatto che detti prodotti siano stati controllati e selezionati nel rispetto dei criteri che hanno reso il marchio particolarmente apprezzato [8]”.

In merito al contenuto del contratto di merchandising, poi, va evidenziato che esso è demandato anzitutto alla volontà delle parti e solo in secondo luogo alle previsioni normative relative al contratto in generale e ad eventuali leggi speciali applicabili in ragione dell’oggetto del contratto.

Nello specifico, è obbligo delle parti identificare, in maniera precisa e puntuale, l’oggetto dell’accordo, specificando per quali prodotti (o classi di prodotti) venga o meno concessa l’utilizzazione della property da parte del merchandisor. Ulteriore requisito è che venga indicato se al merchandisee competa solo la produzione dei beni o se possa occuparsi anche della distribuzione e della vendita diretta al pubblico.

Alcuni diffusi profili contrattuali diffusi nella prassi del merchandising, poi, sono:

  1. L’inserimento di una clausola destinata a garantire al merchandisee la facoltà di cedere a terzi il diritto acquistato con il contratto;
  2. La concessione di un diritto di esclusiva (a favore del licenziatario o reciproco) relativo alla categoria merceologica, al territorio (potenzialmente da intendersi anche a livello globale) o, comunque, a qualsiasi elemento che le parti reputino rilevante;
  3. L’inserimento di una clausola risolutiva espressa atta a porre rimedio all’eventualità che si verifichino gravi inadempienze da parte del merchandisee, ma anche del merchandisor.

Il contratto di merchandising, poi, è un contratto di durata e, in ragione degli ingenti investimenti che sono solitamente connessi all’utilizzazione secondaria del segno distintivo del concedente, il termine, ove previsto, è in genere a lunga scadenza. In merito a tale aspetto va, inoltre, evidenziato che, in ragione di una prassi oramai consolidata, è data alle parti la facoltà di provvedere provvedere, in sede di stipulazione del contratto, ad elaborare una regolamentazione inerente anche agli obblighi che andranno potenzialmente a sorgere nella fase successiva all’estinzione del rapporto stesso.

Nello specifico, è frequente che venga dalle stesse stabilito un periodo (di durata generalmente compresa tra i tre ed i sei mesi), successivo alla scadenza del contratto, entro il quale è consentito al merchandisee di smaltire le c.d. “riserve di magazzino” immettendole sul mercato (certe volte, però, tramite apposita clausola il merchandisor si riserva la facoltà di esercitare un diritto di opzione per l’acquisto dei prodotti rimasti invenduti).

In ogni caso, sono da ritenersi ammissibili sia la stipulazione di un accordo di durata indeterminata, con pattuizioni specifiche circa la possibilità di disdetta delle parti, sia l’individuazione di termine prima del quale il contratto non possa essere risolto, ciò al fine di garantire una durata minima del rapporto. Infine, deve rilevarsi che, in forza del principio di libertà della forma, il merchandising può essere concluso anche oralmente, sebbene nella prassi si ricorra alla forma scritta per dare miglior prova del contenuto dell’accordo, nonché in forza del numero consistente delle clausole generalmente inserite nello stesso.

Alla luce delle considerazioni svolte, emerge chiaramente come, pur in difetto di specifica ed apposita disciplina della materia, vi siano numerose “regole” e disposizioni, frutto di prassi consolidata, volte a regolare forma e contenuto del contratto di merchandising. Va aggiunto, però, che ampia tutela è riconosciuta ai titolari, tanto originari quanto “successivi” (post conclusione del contratto), in caso di violazione del marchio.

Per portare in evidenza un esempio, si cita il noto “episodio legale” che ha visto quale attore principale la famosa band metal degli Slayer, la quale, tramite la propria società di global merchandising, nel 2018 ha  presentato ​una denuncia contro ignoti (riportati come “numerosi venditori ambulanti non autorizzati e società di produzione e distribuzione”) per violazione del marchio della band e concorrenza sleale (come anche gli AC/DC avevano fatto nel 2016).

Secondo la denuncia, gli imputati stavano “vendendo materiale contraffatto sia al di fuori che all’interno dei locali dove gli Slayer si esibivano”. Nella stessa, poi, veniva specificato come, fino a quel momento, fossero “stati venduti più di 25 milioni di dollari di merchandising illegale recante il marchio Slayer”, danno economico di considerevole entità. Scopo della band era ottenere un’ordinanza del giudice per poter utilizzare agenti federali nonchè autorizzare gli agenti locali e statali per merchandising “falso” durante il tour successivo (che, tra parentesi, sarebbe stato il loro tour d’addio).

In relazione a tale vicenda, è bene precisare che la concorrenza sleale, la cui disciplina è contemplata dal combinato disposto (nell’ordinamento italiano) degli articoli 2598, 2599, 2600 e 2601 cc, si sviluppa nell’ambito dei rapporti tra imprenditori che operano sullo stesso mercato offrendo beni o servizi similari al verificarsi delle condizioni descritte dall’art. 2598 c.c. [9]. Quest’ultima norma, in particolare, dispone, facendo salve le previsioni in materia di tutela dei segni distintivi e di brevetto, che costituisce atto di concorrenza sleale:

  • l’utilizzo dei nomi o segni distintivi utilizzati legittimamente dal concorrente;
  • l’imitazione dei prodotti;
  • l’attuazione di qualsiasi altro atto che sia idoneo a creare confusione o ad imitare i prodotti del concorrente.

La configurabilità dell’atto sleale, pertanto illecito, sussiste per il solo fatto di realizzare un potenziale danno o il pericolo di un danno al concorrente, a prescindere dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo all’autore dell’atto illecito. Nell’eventualità, tuttavia, che venga effettivamente accertata la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, ai sensi dell’art. 2600 c.c. è prevista la condanna per l’agente al risarcimento dei danni che, in caso di concomitanza con altre fattispecie illecite, si applica in via cumulativa e concorrente alle altre sanzioni.

Sulla base di quanto esposto in questa breve panoramica sulla “recente” tipologia contrattuale del merchandising, si ribadisce non solo che la stessa, pur se priva di un’espressa, specifica disciplina, riceve da più fonti (tra le quali spicca, ovviamente, la prassi commerciale) una propria ed abbastanza dettagliata regolamentazione ma anche che, comportando tali rapporti contrattuali l’impiego e, comunque, la circolazione di ingenti somme di denaro, i casi di falsificazione dei prodotti ufficiali, del vero merchandising, insomma, integrano una fattispecie di reato vera e propria.  Oltretutto, numerose sono le tutele predisposte affinché vi sia un fair balancing degli interessi della parti, ovvero merchandisor e merchandisee.

[1] Cfr. L. COLANTUONI, Merchandising, in Contratti, 2006,:“il merchandising è il contratto mediante il quale un imprenditore che ha portato all’affermazione originaria una certa entità concede l’uso di un proprio marchio, segno distintivo o figura, ad un altro imprenditore affinché ne promuova e ne contrassegni i prodotti in un campo diverso da quello inziale”.

[2] Definizione di royalty, disponibile qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/royalty_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/;

[3] art. 7 c.c., disponibile qui: https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-i/art7.html;

[4] art. 10 c.c., disponibile qui: https://www.dandi.media/2019/06/art-10-cc/;

[5] art. 21 codice della proprietà industriale, disponibile qui: https://www.brocardi.it/codice-della-proprieta-industriale/capo-ii/sezione-i/art21.html;

[6] D. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, disponibile qui: https://www.altalex.com/documents/codici-altalex/2014/10/30/codice-della-proprieta-industriale;

[7] art. 2573 c.c., disponibile qui: https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quinto/titolo-viii/capo-iii/art2573.html

[8] cfr. “Gli strumenti giuridici per la valorizzazione di un marchio rinomato: la licenza e gli altri contratti”, di Scolaro Federica, disponibile qui: http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/7927/832480-1191953.pdf?sequence=2;

[9] art. 2598 c.c., disponibile qui: https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quinto/titolo-x/capo-i/sezione-ii/art2598.html;

Valentina Ertola

Dott.ssa Valentina Ertola, laureata presso la Facoltà di Giurisprudenza di Roma 3 con tesi in diritto ecclesiastico ("L'Inquisizione spagnola e le nuove persecuzione agli albori della modernità"). Ha frequentato il Corso di specializzazione in diritto e gestione della proprietà intellettuale presso l'università LUISS Guido Carli e conseguito il diploma della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l'Università degli Studi di Roma3. Nel 2021 ha superato l'esame di abilitazione alla professione forense. Collaboratrice per l'area "IP & IT".

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