giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Il potere di appello dell’accusa al vaglio della Consulta

Con la sentenza n. 34 del 26 febbraio 2020, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’Appello di Messina rispetto all’art. 593 c.p.p., modificato dalla L. n. 103/2017 (cd. riforma Orlando) in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della Costituzione.

Il caso di specie

La vicenda riguarda un processo svolto nei confronti di un imputato del delitto di cui all’art. 570, secondo comma c.p., per avere egli omesso ripetutamente di corrispondere al coniuge separato l’assegno mensile per il mantenimento del figlio minore.

Il giudice di prime cure ha condannato l’imputato alla pena, condizionalmente sospesa, di un mese di reclusione e a 500 € di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita.

Avverso detta pronuncia ha proposto appello il Procuratore generale della Repubblica, contestando la quantificazione della pena, la concessione del beneficio della sospensione condizionale e la mancata liquidazione del danno in favore della parte civile.

La questione di legittimità costituzionale

Nel proporre il gravame, il Procuratore generale ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., nella parte in cui prevede che il pubblico ministero possa appellare le sentenze di condanna solo nel caso in cui sia stato modificato il titolo del reato, sia esclusa la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o sia pronunciata una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Le norme costituzionali che risulterebbero violate sono gli artt. 3 e 111 Cost., rispetto alla parità delle parti, considerato che, non potendo appellare l’accusa le sentenze di condanna, nemmeno in caso di pene particolarmente esigue, potrebbero prodursi situazioni incoerenti. Per esempio, l’imputato potrebbe sperare di essere condannato a una pena particolarmente tenue, piuttosto che di essere assolto.

Si lamenta poi la violazione dell’art. 97 Cost., poiché la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero non realizzerebbe l’obiettivo della riforma di migliorare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia. Le impugnazioni della parte pubblica investono, infatti, una percentuale esigua delle sentenze di primo grado, mentre l’imputato può sempre appellare, beneficiando del regime di divieto di reformatio in peius.

La Corte d’Appello di Messina ha considerato tali censure rilevanti e non manifestamente infondate, osservando che, nella giurisprudenza costituzionale, il principio di parità delle parti può essere alterato solo nel rispetto del parametro costituzionale di ragionevolezza. Osserva il giudice rimettente che non pare ragionevole permettere al pubblico ministero di proporre appello avverso una sentenza a seconda che essa abbia dato una diversa qualificazione giuridica del fatto. Qualora, per esempio, il mutamento del titolo concerna reati con cornici edittali simili, come il caso di mutamento da truffa in insolvenza fraudolenta o appropriazione, il piano sanzionatorio non risulterebbe alterato in maniera significativa.

In più, escludere la verifica in sede di appello di pene manifestamente irrisorie in rapporto alla gravità del fatto e alla personalità dell’imputato contrasterebbe con il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.).

La pronuncia della Consulta

In via preliminare, i giudici della Corte Costituzionale rilevano che, in seguito alla L. cost. n. 2/1999, l’art. 111 Cost. ha conferito veste autonoma al principio di parità delle parti. Tale principio non comporta una necessaria identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato, considerate la peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, la funzione allo stesso affidata e le esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, nel rispetto del principio di ragionevolezza.

Ricordando che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non gode di riconoscimento costituzionale, la Consulta evidenza che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte dell’accusa può essere soggetto a limitazioni più ampie di quelle imposte all’imputato[1]. Per quest’ultimo il diritto di far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore è espressione del diritto di difesa (art. 24 Cost.), caratterizzato da una particolare resistenza alle compressioni del potere legislativo. Il doppio grado di giudizio nel merito, poi, non è un aspetto essenziale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.).

I giudici ricordano che, in origine, l’art. 593 c.p.p. prevedeva l’appellabilità da entrambe le parti delle sentenze di condanna e di proscioglimento. Era però previsto il limite dell’interesse a impugnare, come nel caso di impugnazione dell’imputato delle sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. Inoltre, il pubblico ministero non poteva proporre appello avverso le sentenze di condanna emesse in esito al giudizio abbreviato, salva l’ipotesi di modifica del titolo del reato, considerata la necessità di una rapida definizione del procedimento svolto secondo il rito alternativo.

Successivamente, la L. n. 46/2006 ha stabilito l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, salvo il caso di sopravvenienza o di scoperta di prove decisive dopo il giudizio di primo grado. Tale disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza n. 26/2007, per la radicale disparità di trattamento delle parti e per la generalità di tale regime, che riguardava tutti i processi, compresi reati connotati da elevato allarme sociale. Detto regime violava i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza; esso non poteva nemmeno essere giustificato dal fatto che l’assoluzione, pronunciata in primo grado in seguito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, potesse essere ribaltata in appello, giudizio caratterizzato da una cognizione prevalentemente “cartolare”. Sempre sotto il profilo dell’assenza di ragionevolezza, si è osservato che la L. n. 46/2006 permetteva all’accusa di appellare una pronuncia che avesse integralmente respinto la pretesa punitiva, ma non una sentenza che l’avesse accolta in parte.

I giudici della Consulta non ritengono estendibili le menzionate censure al caso in esame.

Tale riforma mira a diminuire e a semplificare i processi, per garantirne la ragionevole durata, principio anch’esso di rango costituzionale (art. 111 comma 2 Cost.). La modifica dell’art. 593 c.p.p. rientra in tale disegno legislativo, essendo considerato il giudizio di appello come un segmento processuale critico sul piano dell’efficienza della giustizia penale. L’appello dell’accusa è consentito, come nel giudizio abbreviato, quando vi sia stata una modifica del titolo del reato. Inoltre, esso è esperibile nei confronti delle determinazioni del giudice «incidono in maniera significativa sulla prospettazione accusatoria», ovvero in caso di esclusione di aggravanti a effetto speciale e di applicazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Secondo la Consulta, tale impostazione non vìola il principio di parità delle parti, da bilanciarsi con l’obiettivo costituzionale della ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle Corti d’Appello.

I giudici chiariscono che “in un sistema ad azione penale obbligatoria, non può ritenersi, infatti, precluso al legislatore introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale intesi ad assicurare la ragionevole durata dei processi e l’efficienza del sistema punitivo (…) non può considerarsi irragionevole che, di fronte al soddisfacimento, comunque sia, della pretesa punitiva, lo Stato decida di rinunciare a un controllo di merito sul quantum della sanzione irrogata”.

Quanto all’effettiva incidenza della norma sull’efficace amministrazione della giustizia, proprio per l’esigua quantità di appelli del pubblico ministero contro le sentenze di condanna a fronte dei numerosi gravami proposti dall’imputato, la limitazione in esame non impedisce lo svolgimento del giudizio di appello, ma si limita ad “alleggerire” il thema decidendum rimesso al giudice di secondo grado. La Corte osserva inoltre che la disposizione in esame è inserita in una più ampio corpo di norme processuali finalizzate a migliorare l’efficienza della giustizia penale, quali l’onere di specifica enunciazione dei motivi dell’impugnazione, a pena di inammissibilità (art. 581 c.p.p.), la reintroduzione dell’istituto del concordato sui motivi di appello (art. 599-bis c.p.p.), e la previsione che il procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello possa appellare solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado, così da evitare una duplicazione di impugnative in capo alla medesima parte (art. 593-bis c.p.p.).

Rispetto al timore di irrogazione di pene macroscopicamente inadeguate pur in assenza di gravità del fatto o tenuto conto della personalità dell’autore, la Consulta sottolinea che si può ricorrere al controllo della Corte di cassazione sulla mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione circa la determinazione della pena (art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p.).

Quanto alla violazione del principio del buon andamento (art. 97 Cost.), si ritiene che esso riguardi l’organizzazione e il funzionamento degli uffici giudiziari, non l’attività giurisdizionale.

Rispetto, infine, all’allegata compromissione della funzione rieducativa della pena, si tratta di un parametro poco attinente alla tematica della limitazione dei poteri di appello del pubblico ministero: tale principio non impone che sia assicurato un controllo di merito sulla quantificazione della sanzione pronunciata dal giudice di prime cure.

Fonte dell’immagine: www.federprivacy.org

[1] C. Cost. n. 26 /2007.

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