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Criminal & Compliance

Il principio di irretroattività nei reati ad evento differito

Nota a sentenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 17 Luglio 2018, n. 40986, Pres. Carcano, est. Caputo, ric. Pittalà Francesco.

A cura di: Riccardo De Felice e Cristina Foglia. Il lavoro è interamente frutto della riflessione comune degli autori; la stesura dei paragrafi 1,2,3,7,8 è opera di Cristina Foglia, quella dei paragrafi 4,5,6,8 di Riccardo De Felice.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda. – 3. La disciplina dell’omicidio stradale. – 4. Il tempus commissi delicti. – 5. Orientamenti giurisprudenziali. – 6. Il “reato” nell’art 2 c.p. – 7. Rationes del principio di irretroattività. -8. L’irretroattività nella sua funzione teleologica.

1. Premessa

Il principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole all’imputato, sancito dall’art. 25 2° co. Cost. e dall’art. 7 C.E.D.U., costituisce un baluardo dell’ordinamento giuridico italiano, «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali», secondo la recente decisione delle Sezioni Unite che si annota.

Garanzia fondamentale contro l’arbitrio del legislatore e del giudice, corrisponde ad una manifestazione elementare del principio di legalità e delle connesse esigenze di certezza del diritto.

Anche in ordine alle funzioni della pena, il principio di irretroattività ha una precisa valenza per la sua connessione con la funzione di prevenzione generale mediante orientamento culturale: il comando normativo può motivare l’autore solo quando esista come legge[1].

Ciò che ha destato perplessità in dottrina e in giurisprudenza è l’identificazione del tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali. In particolare, ci si interroga su quale sia il trattamento sanzionatorio da applicare in caso di una condotta posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole.

La questione è particolarmente controversa in ordine ai reati ad effetto differito, in cui l’evento si verifica ad una certa distanza di tempo dal compimento dell’azione: difatti, diviene arduo stabilire il termine di riferimento temporale se, nel periodo intercorrente tra il compimento dell’azione e il verificarsi dell’evento, venga emanata una nuova norma incriminatrice o intervenga una modifica relativa alla quantità o alla qualità della pena. Il punto nevralgico è se esso debba essere stabilito avendo riguardo al momento in cui si è realizzata nel mondo esterno la condotta che la norma qualifica come reato o all’evento lesivo, causalmente connesso all’azione e, di regola, necessario per il configurarsi dell’illecito penale.

2. La vicenda

L’occasione, per tornare nuovamente a riflettere su tali temi, è data dalla recente sentenza con cui le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto interpretativo, formatosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine al criterio di individuazione del tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali.

La fattispecie, da cui trae origine la sentenza che si annota, è costituita da una vicenda diffusa nella prassi: un investimento stradale in prossimità di un attraversamento pedonale, in data 2 gennaio 2016, cagionato per colpa da F. Pittalà che ha determinato, il 28 agosto 2016, la morte di Bigagli.

Il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Prato ha applicato la pena concordata con il pubblico ministero di anni uno di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 589-bis c.p.; la pena finale è stata determinata applicando la pena base di anni due di reclusione, diminuita per l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche fino ad anni uno e mesi quattro di reclusione; ridotta alla pena indicata per il rito.

Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione dal difensore di F. Pittalà per inosservanza o erronea applicazione della legge penale. L’art 589-bis c.p., infatti, è stato introdotto, come autonoma fattispecie incriminatrice, in epoca successiva alla condotta ascritta all’imputato, mentre all’epoca di tale condotta era in vigore l’art. 589 c.p., secondo comma, che prevedeva l’applicazione di una circostanza aggravante per violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, soggetta al giudizio di bilanciamento. Per questa ragione, il ricorrente ha ravvisato la violazione del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (art. 25 Cost.) e del divieto di retroattività sancito dall’art. 7 C.E.D.U. Difatti, in ossequio al criterio della condotta, in caso di successione di leggi penali, è applicabile, se più favorevole, la legge vigente al momento della condotta.

Non essendo la giurisprudenza di legittimità concorde sul punto, la Quarta Sezione penale ha rimesso la cognizione del ricorso alle Sezioni Unite, protendendo per l’orientamento secondo cui la legge da applicare fosse quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo, in quanto la ratio del principio di irretroattività della legge penale meno favorevole è quella di garantire che al soggetto attivo non siano applicate previsioni incriminatrici non vigenti al momento del fatto né previsioni sanzionatorie che, dopo il fatto, siano divenute più gravi.

Il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Quarta Sezione penale, con requisitoria scritta datata l’8 giugno 2018, ha richiesto che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione art. 2, quarto comma, c.p., nella parte in cui fa riferimento alla commissione del reato e non del fatto, ravvisando una violazione dell’art. 3 Cost; inoltre, la scissione degli elementi costitutivi del reato (condotta, nesso causale, evento) non è consentita in via interpretativa.

3. La disciplina dell’omicidio stradale

Prima dell’introduzione della legge n°41 del 2016, la disciplina dell’omicidio stradale era contenuta nell’art. 589 c.p., secondo comma, che prevedeva, in caso di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, la pena della reclusione da due a sette anni: tale circostanza aggravante non era soggetta al regime derogatorio della disciplina relativa al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee stabilito dall’art. 590-bis c.p. Con l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, a seguito di un giudizio di equivalenza o di prevalenza dell’attenuante, era possibile irrogare una pena, nel minimo, di sei mesi di reclusione o di quattro mesi di reclusione, a seconda dell’esito del giudizio di bilanciamento.

La legge n°41 del 2016 ha introdotto, con la finalità di inasprire notevolmente il regime sanzionatorio, un’autonoma fattispecie incriminatrice: l’omicidio stradale ex art.589-bis c.p. In seguito a tale riforma, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche può condurre all’irrogazione, nel minimo, della pena di anni uno e mesi quattro di reclusione.

4. Il tempus commissi delicti

Per poter comprendere a fondo il tema su cui si concentra l’analisi, non si può non partire dal dato normativo.

L’art.2, comma 4, c.p. prescrive: «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».

La disposizione esprime un favor libertatis, in quanto sancisce la retroattività della norma penale più favorevole e l’irretroattività di quella più sfavorevole; nel pieno rispetto dell’esigenza, propria di ogni cittadino, di calcolabilità del rischio penale.

La questione giuridica verte, quindi, sull’ identificare quale sia la legge vigente al momento della commissione del reato. Per far ciò, bisogna rispondere ad una domanda: quando è stato commesso il reato? Nel momento in cui l’imputato ha investito la vittima con la propria vettura o nel momento in cui quest’ultima è deceduta?

Muovendo dalla classificazione del reato, è possibile distinguerlo in due macro categorie: reato di evento e reato di condotta.

Tra i reati di evento, vengono proposte due accezioni: quella naturalistica e quella giuridica.

Secondo la tesi giuridica, l’evento consiste nella lesione o messa in pericolo dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice.

Per quanto riguarda la concezione naturalistica, l’evento è un accadimento della realtà fenomenica legata alla condotta dell’agente da un nesso eziologico. Tale accadimento è tipizzato dal legislatore: questo vuol dire che, per integrare la fattispecie incriminatrice, deve ricorrere anche l’evento naturalistico precisato dalla norma.

Antolisei affermava che l’evento fosse «un effetto naturale dell’azione che trovasi contemplato nel modello di reato configurato dal legislatore».

Quando il legislatore puntualizza il risultato connesso alla condotta, l’evento in senso naturalistico e quello in senso giuridico coincidono.

Il legislatore, quindi, perché si perfezioni il reato, richiede anche la produzione dell’evento connesso all’azione: se manca l’evento, l’interprete non può sussumere il caso nella fattispecie incriminatrice. Se manca l’evento, non c’è (ancora) reato.

Diversa è la disciplina per i reati di condotta: qui, il legislatore descrive puntualmente un’azione che, per il sol fatto di essere stata posta in essere, giustifica la sanzione penale. Il disvalore legato alla condotta rende penalmente rilevanti anche dei comportamenti che non hanno, poi, determinato alcun evento causalmente connesso. Il reato, in queste ipotesi, si può considerare già commesso e perfezionato con la semplice azione: ne sono un esempio la sottrazione e l’impossessamento della cosa nel delitto di furto.

La distinzione è importante con riguardo al momento consumativo del reato.

Non c’è dubbio che l’omicidio sia un reato di evento; per di più a “forma libera”, anche detto “causale puro”: il legislatore appresta una tutela estesa al bene della vita; non tipicizza le condotte che causano la morte, ma punisce ogni azione che sia idonea a produrre il risultato lesivo del bene della vita.[2]

Gli studi giuridici sembrerebbero condurre alla soluzione per cui il reato sia stato commesso nel momento in cui la vittima è deceduta; e, di conseguenza, è alla legge vigente in quel momento che bisognerebbe fare riferimento.

Questa impostazione, però, potrebbe portare a soluzioni poco conformi al nostro assetto costituzionale e, dunque, non condivisibili.

5. Orientamenti giurisprudenziali

Due le pronunce della Cassazione, tra loro contrastanti, che si erano occupate della delicata questione della successione di leggi penali: la prima, nel 2015, si occupò della morte di due lavoratori per mesotelioma pleurico, tumore dell’apparato respiratorio. [3]

Tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, le vittime erano state pericolosamente esposte all’amianto, causa tipica di tale forma di tumore e contraddistinto da  un periodo di latenza particolarmente lungo. Difatti, i due morivano nel 2007 e nel 2009: i dirigenti dell’azienda vennero processati per la condotta omissiva che aveva cagionato il decesso, in quanto avrebbero dovuto predisporre le necessarie misure di sicurezza.

La Corte era chiamata a stabilire se dovesse applicarsi la normativa vigente nel momento in cui i lavoratori furono esposti all’amianto, o quella, decisamente più rigida, in cui si verificò la morte dei due.

La Suprema Corte decise di applicare la seconda, ritenendo che non vi fosse alcuna violazione dell’art.2, comma quattro c.p.

A supporto di questa tesi, si ravvisò che, nel caso di specie,  non vi fosse alcun problema di successione di leggi.

Difatti, il reato di omicidio, essendo di evento ed a forma libera, risulta perfezionato e commesso solo con il verificarsi del risultato lesivo: la morte, per l’appunto.

Nella pronuncia  la Corte richiamò anche un precedente del 2014, la sentenza Calamita, in cui si enunciava il seguente principio di diritto: «quando una condotta inizia sotto il vigore di una norma incriminatrice, ma si conclude sotto il vigore di una nuova norma della medesima specie, non può esservi dubbio che debba trovare applicazione la seconda norma, anche se le conseguenze di pena sono più severe. In tal caso non si ha alcuna violazione dell’art.2 comma 4 perché, evidentemente, il tempus commissi delicti è quello in cui si perfeziona la condotta o si verifica l’evento lesivo».[4]

Il ragionamento del giudice di legittimità fu coerente con l’impostazione dogmatica precedentemente analizzata: se l’art. 2, comma 4, parla di “reato commesso”, allora il tempus commissi delicti coincide con la realizzazione degli elementi costitutivi del reato. Tra questi, nel caso dell’omicidio, viene annoverato indubbiamente anche l’evento lesivo.

Questa soluzione prospettata dalla Corte non convinse affatto gli studiosi di diritto in quanto estremamente fedele al dato letterale/formale e poco attenta, invece, a soddisfare le esigenze che avevano dato vita alla norma sulla successione di leggi penali.[5]

Nel 1972 la Corte si trovò a giudicare un caso analogo: un omicidio colposo per violazione di norme sulla circolazione stradale.[6] Anche in questo caso, tra la condotta dell’agente e il successivo decesso della vittima intervenne una legge che inasprì il quadro sanzionatorio.

In quella circostanza, il giudice applicò la normativa vigente al momento della condotta; rimarcando che, nella disposizione, si facesse uso del lemma “commissione”.

Con esso deve dunque intendersi un momento precedente al perfezionamento del reato, ossia precedente alla realizzazione di tutti i suoi elementi costitutivi: viceversa, il legislatore avrebbe utilizzato il termine “consumato”.

 È evidente che entrambe le pronunce siano incentrate prevalentemente sul dato letterale e non facciano riferimento alla dimensione storica e alla ratio sottese alla norma.

6. Il “reato” nell’art. 2 c.p.

Di più ampio respiro è la sentenza delle Sezioni Unite che, nel 2018, sciolse ogni dubbio ed espose il seguente principio di diritto: «a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta». Il percorso argomentativo della Corte muove i propri passi da un’interpretazione logico-sistematica dell’art. 2 c.p., dandone una lettura conforme alla Costituzione.

Come è noto, questo tipo di interpretazione è lecita se rispettosa dei possibili significati offerti dal dato testuale, quale punto di partenza ed argine invalicabile.

Allo stesso tempo, a differenza delle precedenti pronunce, si assiste ad una ricostruzione delle motivazioni storiche e giuridiche sottese alla norma.

La Corte chiarisce che il termine “reato”, utilizzato nel quarto comma, non va inteso in senso formale-giuridico, ossia come perfezionamento degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, ma viene adoperato dal legislatore in antitesi al termine “fatto”, contenuto nel comma primo («nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato»).

Nel primo comma, il legislatore intende affermare che, se una condotta non è penalmente rilevante nel momento in cui è stata commessa, non può essere sanzionata sulla base di una legge intervenuta successivamente. Dunque, il termine “fatto” viene usato per indicare una condotta non giuridicamente rilevante.

Nel quarto comma, invece, il legislatore intende fornire tutela a colui il quale compie un fatto già penalmente rilevante, che successivamente è oggetto di modifica.

 La tutela è duplice: da una parte, si prevede che, qualora intervenga una legge, successiva alla condotta, più favorevole al reo, sia proprio quest’ultima ad essere applicata. Viene affermato un principio di favor libertatis: se il disvalore sociale legato alla condotta si è affievolito, perché continuare ad applicare il trattamento sanzionatorio più rigoroso?

D’altra parte, si stabilisce che, se ad essere più favorevole è la norma vigente al momento della condotta, sarà quella a dover essere applicata.

In questo modo, la Corte chiarisce che non vi è bisogno di alcuna declaratoria di illegittimità costituzionale rispetto all’uso del termine “reato”.

7. Rationes del principio di irretroattività

La Cassazione ha ravvisato il fondamento dell’irretroattività nell’art. 25 Cost., secondo comma, ponendo l’accento sul carattere assoluto di tale principio, in quanto «non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali». Si tratta di uno zoccolo duro del nostro ordinamento, garanzia dell’autodeterminazione dell’individuo. Questi deve poter valutare e calcolare preventivamente le conseguenze penali della propria condotta; spostare in avanti il tempus commissi delicti, importa uno svuotamento di significato non solo del principio di irretroattività, ma anche della garanzia di autodeterminazione della persona.

Il principio di retroattività della norma penale più favorevole, invece, trova il proprio fondamento nel principio di uguaglianza e nell’art. 117 Cost., primo comma e nell’art 7 C.E.D.U.; ciò importa che esso sarà suscettibile di limitazioni e deroghe, in presenza di «interessi contrapposti di analogo rilievo».[7]

Anche l’onorevole Giovanni Leone, durante i lavori preparatori dell’Assemblea costituente, conferma tale orientamento: «la norma di legge penale deve preesistere non solo all’evento, ma anche all’azione, poiché è in quest’ultima che si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge».

Infine, ci si avvale delle indicazioni che le stesse Sezioni Unite hanno fornito in ordine alle questioni derivanti dalla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 442 c.p.p., comma secondo.[8]

Il principio di irretroattività ha una sorta di “rigidità rinforzata”, in quanto, anche nel caso in cui intervenga una pronuncia di incostituzionalità, quest’ultima non può impedire l’applicazione della norma più favorevole al reo, che, pur essendo illegittima, era vigente al momento della commissione della condotta.

8. L’irretroattività nella sua funzione teleologica

Qual è, allora, la ratio dell’art.2? E, più in generale, del principio di irretroattività della norma penale, sancito anche a livello costituzionale (art.25, comma 2) e sovranazionale (art.7 CEDU)?

In primo luogo, si tutela l’individuo rispetto al potere di imperio dello Stato, che, nelle costituzioni moderne, non è un potere absolutus e non può espandersi fino al punto da comprimere arbitrariamente la libertà personale dell’individuo.

Uno dei principi fondamentali  di uno stato democratico di diritto è che l’Autorità possa sanzionare legittimamente i consociati solo rispettando delle regole, poste ex ante, a garanzia dei cittadini. Il singolo individuo deve essere messo in condizione di conoscere quale sarà la risposta punitiva dello Stato rispetto ad una sua azione: se è costretto a subire conseguenze peggiori rispetto a quelle da lui conoscibili, perché sopravvenute, si è in presenza di una violazione di un principio cardine del nostro assetto costituzionale. Non ci può essere democrazia se c’è sacrificio di un simile principio: esso non può essere soggetto a bilanciamento e non può essere messo in discussione.

Inoltre, ciò che si vuole tutelare è l’autodeterminazione dell’individuo.

Egli deve poter prevedere le conseguenze penali connesse al suo agire: al fine di orientare le proprie scelte, il soggetto deve essere in grado di percepire il grado di disvalore dell’azione nel momento in cui la pone in essere.

Queste esigenze possono essere rispettate solo se riferite al segmento temporale in cui l’agente può scegliere e può orientare il proprio comportamento, tenendo conto dei rischi penali; in quanto, come sostiene Roxin, solo in questo modo si potrà produrre l’effetto criminal-pedagogico della pena e i consociati potranno riporre fiducia nell’ordinamento.

Esclusivamente in quest’ottica, infatti, come afferma la Cassazione nella sentenza che si annota, è possibile rispettare non solo la funzione di prevenzione generale, ma anche quella di prevenzione speciale positiva. La pena non potrà assolvere alla funzione rieducativa sua propria se il soggetto la percepisce come ingiusta, non conoscibile e, quindi, frutto dell’arbitrio del legislatore.

 

[1]C.Fiore, S.Fiore, Diritto Penale, P.gen., 5ª ed., cit., 100 ss.

[2]A.Cocca, La distinzione tra reati ad evento naturalistico e reati di mera condotta in funzione di disciplina, in riv. Giur. Pen. web, 2017.

[3]Cass. pen., Sez. IV, 27 maggio 2015, n. 22379

[4]Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2014, n. 19008.

[5]S.Zirulia, L’irretroattività sfavorevole e reati di evento “lungo-latente”, in riv. Dir. pen. cont.

[6]Cass. pen., sez. IV, 5 ottobre 1972, n. 8448.

[7]Corte Cost.,sent.n. 215 del 2008; Corte cost., sent n.394 del 2006.

[8]Sez. U., 6 marzo 1992, n. 2977

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