venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Il principio di legalità nel diritto interno e in quello convenzionale: profili sovrapponibili e difformi

Il principio di legalità costituisce uno dei pilastri dell’ordinamento penale, e da esso discendono ulteriori principi (riserva di legge, irretroattività e tassatività-determinatezza) suoi corollari, che nel loro insieme formano un’ importante rete di protezione per i diritti inviolabili dell’uomo.

Tali principi costituiscono il punto di riferimento per il sistema penale non solo interno, ma anche internazionale e comunitario.

In particolare, l’art. 1 del codice penale stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che siano da esso stabilite”. La disposizione in esame sancisce il principio di legalità formale, ai sensi del quale la punibilità di un fatto è subordinata alla previsione legislativa, nonché alla pena da essa stabilita, alla luce del brocardo latino nullum crimen, nulla poena sine lege. A tal proposito, si distingue dalla nozione formale del principio di legalità, la concezione sostanziale, per la quale , invece, la punibilità si svincola dall’esistenza del nomen juris dato dalla legge al fatto, basandosi sulla valutazione della pericolosità sociale del fatto, rimessa all’operato del giudicante. Ne deriva che il principio di legalità, sotto il profilo sostanziale, è condizionato dalla pericolosità sociale della condotta posta in essere, la quale se valutata in quanto tale, sarà per ciò solo punibile.

A sua volta, il principio di legalità è cristallizzato a livello costituzionale con  l’art. 25, comma 2, della Costituzione, il quale prevede espressamente che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

La ratio del principio in esame e dei suoi corollari si fonda soprattutto sulla tutela dei consociati dal possibile arbitrio del potere esecutivo e di quello giudiziario.

Ciò premesso, occorre sottolineare che l’art. 25 comma 2 Cost. rappresenta anche un limite al legislatore e al suo potere di auto-qualificazione nell’individuazione della materia penale. Se da un lato, infatti, è il legislatore a detenere il potere di normazione penale nella scelta di criminalizzazione, ossia nell’individuazione di ciò che rientri o meno nella materia penale, dall’altro lo stesso è soggetto al principio di legalità e, soprattutto, al principio di determinatezza e irretroattività della norma sfavorevole.

Per tali motivi si è sentita l’esigenza di individuare l’ambito di operatività della norma costituzionale, e soprattutto i limiti entro i quali si estende la materia penale, oltre la quale si delineerebbe l’ipotesi della elusione delle garanzie sottostanti il principio di legalità.

In questo contesto si inquadra il fenomeno della cd. “truffa della etichette”, attraverso il quale il legislatore interno potrebbe, mediante specifici interventi, aggirare la garanzia del nullum crimen sine lege, escludendo che taluni comportamenti, prima qualificati in termini di reato, possano ancora rientrare nella materia penale.

Il problema si è posto soprattutto con le politiche di depenalizzazione adottate negli ultimi anni. Con esse, fatti che in precedenza costituivano ipotesi di reato, cessano di essere tali, divenendo illeciti amministrativi ed in quanto tali soggetti alla sola sanzione amministrativa, oppure, illeciti civili (rientrando nella categoria dei cd. danni punitivi).

E’ in tale contesto che vengono in rilievo i principi di derivazione sovranazionale.Ciò in quanto, non sempre, tra il diritto penale interno e quello comunitario, vi è coincidenza circa la qualificazione giuridica di un fatto, in termini di reato o meno.

All’uopo, occorre richiamare l’art. 7 CEDU, espressione del principio di legalità a livello sovranazionale. Lo stesso infatti recita: “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione, che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”.

La Corte Edu, ravvisati i punti di interferenza in materia tra il diritto interno e quello sovranazionale, è intervenuta al fine di fissare gli indici attraverso i quali è possibile qualificare una sanzione come pena, e l’ illecito possa dirsi compreso nella materia penale.

Con la sentenza Engel[1], del 1976, la Corte ha elaborato tre criteri in base ai quali verificare se si è in presenza o meno di un illecito penale, ossia:

  • la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale (ossia se l’illecito appartenga alla materia penale, fiscale, disciplinare o amministrativo);
  • la natura dell’illecito;
  • il grado di severità della sanzione.

In tal modo, la Corte ha inteso apportare un rafforzamento al diritto nazionale, nell’ottica di una maggior tutela dei diritti dell’individuo. Con tale pronuncia, infatti,  ha inteso superare i criteri che i legislatori statali utilizzano per distinguere le diverse tipologie di illeciti, tentando di ricondurli ad unità, al fine di evitare una qualificazione meramente formale degli stessi, ed intendendo la nozione di materia penale come autonoma.

A livello pratico, si pensi alla nota sentenza Varvara[2], con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato la natura sostanzialmente penale della confisca urbanistica ai sensi dell’art. 44  o. 2 DPR 380/2001, in contrasto con la qualificazione amministrativa sostenuta in precedenza dalla Corte di Cassazione, la quale ne permetteva l’applicabilità anche in assenza di condanna. Con la pronuncia in esame, la Corte Europea, sulla scorta dei criteri sopra enunciati,  ha imposto  l’applicazione dell’art. 7 CEDU, il quale “consacre notamment le principe de la légalité des délits et des peines (nullum crimen, nulla poena sine lege)”.

Gli aspetti di novità provenienti dal diritto convenzionale non si arrestano alla nozione di materia penale, ma altresì riguardano l’irrilevanza della fonte formale, su cui si fonda il  precetto e la sanzione.

Difatti, alla luce del diritto convenzionale, ciò che rileva è la “qualità della norma” su cui si fonda il precetto e la sanzione, nel senso che il destinatario deve essere messo nella condizione di accedervi e prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta. Pertanto, il principio di legalità convenzionale, diviene lo strumento atto ad ampliare le tutele del singolo, ed in particolare, la sua libertà di autodeterminazione.

Il soggetto, infatti, deve poter prevedere la illiceità della condotta, la sua rilevanza penale ed altresì il tipo di pena che potrà essergli inflitta nel caso in cui commetta il fatto.

Dunque, i concetti di prevedibilità e conoscibilità costituiscono le coordinate su cui si articola il principio di legalità convenzionale, divenendo criteri volti ad orientare l’interprete alla verifica del rispetto del principio di legalità.

La concreta applicazione di tali concetti si è avuta con il caso Contrada c. Italia[3]. Con la sentenza emessa sul caso in questione, la Corte Edu ha ravvisato la violazione dell’art. 7 CEDU, ritenendo che all’epoca dei fatti il reato ascritto all’imputato- concorso esterno in associazione mafiosa – non fosse accessibile e prevedibile dallo stesso, non potendo prevedere la propria condanna al momento della condotta.

I criteri di accessibilità e prevedibilità fondanti il diritto all’autodeterminazione dell’imputato, sono stati altresì alla base della pronuncia resa all’esito del caso De Tommaso c. Italia[4], nella quale si afferma l’insufficiente prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, da parte del soggetto colpito dalla misura di prevenzione personale di cui alla legge 1423/1956, concludendo nel senso dell’inadeguatezza, agli standard convenzionali, della legislazione italiana in materia.

[1] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Case of Engel and others v. The Netherlands, 8/06/1976. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-57479

[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Affaire Varvara c. Italie, 29/10/2013.  http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-127394

[3] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Affaire Contrada c. Italie, 14/04/2015. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-153771

[4] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Case of De Tommaso v. Italie, 23/02/2017. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-171804

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