martedì, Marzo 19, 2024
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Il principio di non discriminazione in base alla nazionalità tra l’Unione europea e la Brexit

Con la sentenza del 15 luglio 2021[1] la Corte di Giustizia dell’Unione europea (di seguito, CGUE) si è pronunciata su un rinvio pregiudiziale in merito all’interpretazione dell’art.18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito, TFUE) che prevede, a favore dei cittadini dell’Unione, il divieto di qualunque discriminazione basata sulla nazionalità.

La domanda è stata avanzata dal Tribunale d’appello dell’Irlanda del Nord su una controversia che vede coinvolta una cittadina europea, residente in Irlanda del Nord, in relazione al rifiuto , da parte del Ministero delle Comunità dell’Irlanda del Nord, di una prestazione di assistenza sociale. La CGUE è stata chiamata, in un contesto tra l’altro influenzato dall’operatività della Brexit, a decidere se tale diniego fosse compatibile o meno con il divieto di cui al summenzionato art.18 TFUE.

La base giuridica

Le previsioni europee maggiormente rilevanti nel caso in oggetto sono quelle sulla libertà del cittadino europeo di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (art.3 del Trattato sull’Unione europea, di seguito TUE) e il principio di eguaglianza  (art. 2, TUE). La ricorrente difatti, stabilitasi in Irlanda del Nord nell’esercizio della suddetta libertà di soggiorno, ha successivamente segnalato una presunta violazione del divieto di discriminazione basata sulla nazionalità (art.18, TFUE).

Il principio di uguaglianza, riconosciuto dalla giurisprudenza della CGUE come principio fondamentale dell’Unione europea [2], è contenuto nell’art.2 TUE. La norma individua valori come il rispetto della dignità umana, della libertà e dell’uguaglianza come comuni alle tradizioni degli Stati membri e promuove una società caratterizzata da “non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Ulteriore declinazione del principio di uguaglianza come non discriminazione è prevista dall’art. 18 TFUE secondo cui “nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”, demandando al Parlamento e al Consiglio la facoltà di adottare atti legislativi per concretizzare tale divieto. Ne consegue che a parità di condizioni – e in assenza di giustificazioni oggettive – è fatto divieto di prevedere un trattamento differenziato sulla base della nazionalità.

La libertà di circolazione e soggiorno è invece prevista dall’art.3 TUE, secondo cui “l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone […]”. Con l’istituzione della cittadinanza dell’Unione europea- attribuita ad ogni cittadino di uno Stato membro- nel Trattato di Maastricht (1992), l’ordinamento europeo supera difatti la concezione prettamente economicistica della libertà di circolazione e di soggiorno, svincolandola dall’esercizio di un’attività lavorativa e attribuendola, in quanto tale, a ogni cittadino dell’Unione come semplice effetto della cittadinanza dello Stato membro[3].

A regolamentare in maniera più specifica tale libertà è intervenuta la Direttiva 38/2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. La direttiva, pur ribadendo la rilevanza fondamentale di tali libertà e promuovendone un esercizio quanto più possibile agevole ed omogeneo all’interno dell’Unione-, ne enuncia alcune importanti condizioni e limitazioni.

Da un lato, la Direttiva sottolinea che il cittadino europeo “ospite” gode, nel territorio dello Stato membro ospitante, di parità di trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato (art. 24), mentre dall’altro subordina tale libertà di soggiorno al soddisfare, in base alle caratteristiche e alla durata della permanenza del cittadino “ospite” alcuni requisiti. L’art. 7 prevede infatti che, affinché il cittadino “ospite” non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, esso è tenuto, per i soggiorni cd. lunghi (superiori ai tre mesi), ad essere lavoratore nello Stato ospitante o, in ogni caso, a dotarsi di risorse economiche sufficienti a mantenere sé stesso e i propri familiari.

L’art. 24(2) sottolinea inoltre, in deroga alla parità di trattamento di cui al par.1, che durante i primi tre mesi di soggiorno lo Stato ospitante non è tenuto a garantire né la somministrazione di prestazioni di assistenza sociale, né aiuti relativi alla formazione e agli studi.

Il caso

La ricorrente, dotata di doppia cittadinanza croata e olandese, risiede in Irlanda del Nord dal 2018, dove ha cominciato a vivere con il suo compagno -olandese- e con i figli di entrambi, per poi essere trasferita in un centro di accoglienza per donne maltrattate a causa del compagno violento. La ricorrente non ha mai svolto attività lavorativa nel Regno Unito e risulta sprovvista di redditi sufficienti a mantenersi.

Ad una prima analisi della natura dell’ingresso e della permanenza della ricorrente in territorio britannico, si osserva che questi rientrano sicuramente nell’ambito di operatività del diritto dell’Unione europea. La ricorrente si è difatti stabilita nel Regno Unito in un periodo antecedente alla Brexit, ossia prima dell’entrata in vigore, il 1 febbraio 2020, dell’Accordo di recesso, godendo perciò a pieno della libertà di circolazione prevista dai Trattati.

Il preambolo sul suddetto Accordo di recesso[4] ha inoltre previsto, per il tempo successivo all’entrata in vigore dell’Accordo e al fine di promuovere una Brexit armoniosa e di tutelare reciprocamente i rispettivi cittadini, un periodo di transizione fino al 31 dicembre 2020. Fino a questa data, in virtù dell’accordo, il diritto dell’Unione ha continuato quindi ad applicarsi al Regno Unito, garantendo  i diritti di circolazione e soggiorno per coloro che li hanno esercitati conformemente al diritto UE “prima della fine del periodo di transizione” e che “continuino a soggiornare” in Regno Unito dopo la fine di tale periodo[5].

A tal proposito, per il periodo successivo a quello di transizione, il Regno Unito si è riservato[6] la facoltà di prescrivere ai cittadini dell’Unione di “chiedere un nuovo status di soggiorno” per regolarizzare la loro permanenza sul territorio britannico anche dopo la Brexit. Di conseguenza il Regno Unito ha previsto[7] la possibilità di richiedere il riconoscimento del settled status (soggiorno permanente per i cittadini europei che hanno vissuto in Regno Unito per cinque anni consecutivi)  e il pre-settled status, diritto di soggiorno temporaneo per i cittadini europei presenti nel paese da meno di cinque anni. La ricorrente, essendo nel Regno Unito da meno di cinque anni, ha chiesto ed ottenuto il riconoscimento del pre-settled status, per poi chiedere ma vedersi rifiutata la concessione dello Universal credit, prestazione di assistenza sociale consistente in un reddito di cittadinanza[8].

Il rigetto si fonda sul presupposto per cui l’accesso a tale prestazione sia subordinata ad un diritto di soggiorno indice di una residenza abituale in Regno Unito. L’autorità competente ha specificato che i permessi di risiedere nel paese ottenuti tramite l’appendice UE del regime di residenza (come appunto il pre-settled status) non integra un tipo di permesso di soggiorno dal quale si possa dedurre la residenza abituale del soggetto nel paese.

Il Regno Unito ha infatti sottolineato che chi riesca a richiedere in tempo utile ed ottenere il pre-settled status avrà diritto di rimanere nel paese, godendo dei medesimi diritti di vivere, lavorare e accedere al sistema sanitario dei cittadini britannici, ma che tale status non può ad oggi essere considerato come “right to reside” ai fini dell’accesso a prestazioni di assistenza sociale[9]. La ricorrente ha ritenuto il rifiuto “illegittimamente discriminatorio” in quanto in violazione dell’Art.18 TFUE e il Tribunale d’appello dell’Irlanda del Nord, dinanzi al quale il provvedimento di rifiuto era stato impugnato, ha promosso rinvio pregiudiziale.

La decisione della CGUE

La Corte procede in primo luogo a confermare la propria competenza poiché trattasi, in origine, di un diritto di soggiorno legittimamente esercitato in uno Stato membro da un cittadino dell’Unione. Su questa premessa statuisce altresì l’invocabilità del divieto di discriminazione ex art.18, TFUE  trattandosi di una situazione, in tema di libertà di circolazione e soggiorno, rientrante ratione materiae nella competenza dell’Ue.

Tuttavia, al momento dell’individuazione della disciplina concretamente applicabile, la Corte mette da parte l’art. 18 TFUE così come invocato dalla ricorrente e fonda la propria decisione su altre disposizioni. La Corte sostiene difatti che l’art.18 TFUE non sia suscettibile di applicazione autonoma in presenza di una più specifica disciplina in tema di discriminazioni, quale è la summenzionata Direttiva 38/2004: saranno dunque le disposizioni della direttiva a disciplinare direttamente il caso.

Come già osservato, la D?irettiva da un lato prevede che “ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato” (art.24), dall’altro mira ad impedire oneri eccessivi a carico dell’assistenza sociale dello stato ospitante, prevedendo che l’ “ospite” debba essere economicamente autosufficiente in caso di soggiorno superiore ai tre mesi (art.7).

A questo punto, l’iter logico seguito dalla Corte devia verso una negazione dell’operatività del principio di non discriminazione. La ricorrente risiede in Irlanda del Nord da più di 3 mesi e non è economicamente autosufficiente: pur avendo esercitato una legittima libertà di circolazione e soggiorno in base al diritto dell’Unione europea, attualmente il suo soggiorno non è più conforme alle condizioni previste dalla direttiva 38/2004, ossia un’indipendenza economica del cittadino richiedente. Il permesso a soggiornare di cui gode la ricorrente non può dunque considerarsi conferito in base al diritto dell’UE, ma al contrario dipende dal diritto interno.

Secondo la Corte è difatti il Regno Unito che ha esercitato la sua facoltà di riconoscere diritti di soggiorno a condizioni più favorevoli di quelle previste dal diritto UE, emettendo il pre-settled status indipendentemente dalle condizioni economiche del richiedente e quindi anche a soggetti non economicamente autosufficienti al contrario di quanto stabilito dalla direttiva.

La conclusione raggiunta dalla Corte è quella per cui il diritto di soggiornare in Irlanda del Nord non può essere considerato concesso in base alla direttiva 38/2004 e, di conseguenza, la ricorrente non potrà beneficiare del divieto di discriminazione di cui alla direttiva medesima.

Negata la protezione in base al diritto derivato europeo, la Corte tenta di non lasciare la ricorrente completamente sprovvista di tutela, rifacendosi ad un’altra fonte. La Corte ricorre infatti alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (di seguito, Carta), facendo leva sulla sua applicabilità “nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art.51). La Corte applica quindi la Carta sul presupposto che la situazione della ricorrente, pur essendo il suo diritto riconosciuto sulla base del diritto interno del Regno Unito, sia comunque il risultato di un esercizio della libertà di circolazione e soggiorno di matrice europea. La pronuncia richiama dunque gli artt. 1, 7 e 24 della Carta, che dispongono rispettivamente l’inviolabilità della dignità umana, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto del bambino alla protezione e alle cure necessarie per il suo benessere.

La Corte conclude, sulla scorta di queste disposizioni, invitando le autorità nazionali competenti a valutare attentamente la situazione della ricorrente (madre di bambini in tenera età, vittima di violenza domestica e priva di redditi sufficienti) e a verificare se il rifiuto della prestazione possa esporla ad un rischio concreto ed attuale di violazione dei suoi diritti fondamentali. In quest’ultimo caso, ferma la legittimità del rifiuto del reddito di cittadinanza, le autorità competenti dovranno prendere in considerazione tutte le altre possibili forme di assistenza che possano garantire alla ricorrente e ai propri figli di condurre un’esistenza dignitosa.

I precedenti della CGUE

La sentenza in oggetto non ha confermato le posizioni assunte dalla Corte di Giustizia nell’ambito di altri procedimenti su tematiche simili in cui, pur effettuando gli adeguati bilanciamenti, si era giunti ad un’applicazione concreta del principio di non discriminazione.

 Si pensi alla sentenza Martinez[10], sul tema di una richiesta di ANF (Assegno per il nucleo familiare) avanzata da una cittadina di un paese terzo, e rifiutata poiché la ricorrente era in possesso di un permesso unico di lavoro, ma non anche del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo CE, previsto dalla normativa nazionale come requisito per ottenere la prestazione. In tal caso la Corte ha qualificato l’ANF come una prestazione di sicurezza sociale, ambito in cui ai cittadini di paesi terzi è riconosciuta una parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro dell’Unione europea in cui soggiornano[11]. Come osservato dalla Corte l’Italia- Stato membro ospitante- non aveva esercitato la sua facoltà di limitare la parità di trattamento nell’ambito delle prestazioni di sicurezza sociale, ed era quindi tenuta a concedere l’ANF, poiché la ricorrente- tra l’altro regolarmente presente sul territorio nazionale a fini lavorativi- era in possesso di tutti i requisiti sostanziali per l’erogazione della prestazione. In questo caso la Corte ha dato una reale concretizzazione al principio di non discriminazione, usandolo per neutralizzare di una disciplina nazionale limitativa dei diritti del non cittadino.

Altro caso è quello della pronuncia nei confronti della Repubblica d’Austria[12], relativa ad una discriminazione sul tema del beneficio di tariffe di trasporto ridotte per studenti. In questo caso, cittadini di altri Stati membri che svolgevano i propri studi in Austria dovevano sostenere spese più esose per i trasporti rispetto ai propri compagni austriaci. Ciò poiché l’accesso a tariffe ridotte veniva subordinato al percepimento- da parte dei genitori degli studenti-di assegni familiari nazionali, più facilmente percepibili da cittadini austriaci che da cittadini di altri Stati membri. In tal caso la Corte, facendo ricorso all’art.18, ha ritenuto discriminatoria tale distinzione, poiché basata meramente sulla nazionalità e non anche sull’esistenza o meno di un collegamento oggettivo tra i richiedenti la prestazione e lo Stato, cosa che sarebbe risultata legittima.

Anche in questa ipotesi la Corte, tramite il principio di non discriminazione, ha reso possibile l’accesso, per i cittadini di altro Stati membri, ad una prestazione prevista dal diritto interno dello Stato ospitante- risultato che, come osservato, non è riuscita a raggiungere nella pronuncia in oggetto.

Conclusioni

Con la pronuncia in oggetto la Corte approda ad un’interpretazione piuttosto restrittiva di un principio fondamentale come quello di non discriminazione. È stato difatti osservato[13] che siffatta ricostruzione finisce per privare il cittadino europeo – residente in altro Stato sulla scorta del diritto interno di questo – tanto della tutela generale prevista dall’art.18 TFUE quanto di quella di dettaglio di cui alla Direttiva 38/2004. Ciò consisterebbe in una discriminazione tra cittadini europei il cui diritto di soggiorno si fonda sul diritto dell’Unione e quelli legittimati a soggiornare in base al diritto interno–  come lo è la ricorrente in base al pre-settled status– che ricevono un trattamento meno favorevole.

Le stesse conclusioni dell’Avvocato generale[14] evidenziano che è salva la “libertà degli Stati membri di applicare disposizioni più favorevoli nei confronti di cittadini dell’Unione” presenti nel territorio di un altro Stato membro da più di tre mesi, ma “non per questo disposizioni del genere devono avere il risultato di limitare la tutela garantita all’articolo 18 TFUE, di cui il suddetto articolo 24, paragrafo 1, costituisce soltanto un’espressione specifica”.

Anche l’iter logico che conduce a queste conclusioni non appare sempre lineare. In un primo momento, la Corte sottolinea diverse volte come la fattispecie ricada senza alcun dubbio nell’ambito del diritto dell’Unione europea in quanto legittimo esercizio del diritto della libertà di circolazione e soggiorno, lasciando intendere che la ricorrente possa godere del divieto di non discriminazione ex art. 18 TFUE. In seconda battuta, negata la protezione in base alla più specifica Direttiva 38/2004, poiché non risultano integrati i requisiti previsti dalla stessa, e riconduce la fattispecie nell’area di competenza del diritto interno britannico. La conclusione risulta quasi in conflitto con il resto dell’iter logico quando, per invocare una tutela residuale alla luce della Carta, la Corte-  dopo averne inizialmente escluso l’operatività – non può che ricondurre di nuovo i fatti nell’alveo del diritto dell’Unione europea; le disposizioni della Carta possono infatti essere applicate “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.

Emerge infine come la pronuncia ritenga prima il rifiuto di quella specifica prestazione sociale (che va sotto il nome di Universal credit) legittimo per i motivi di cui sopra. Successivamente, si invitano però le autorità competenti a valutare l’applicabilità di altri “regimi di assistenza sociale” eventualmente applicabili, con il risultato finale di tentare comunque di porre sul sistema britannico quegli oneri eccessivi che, evidentemente, la Direttiva 38/2004, all’art.7, voleva evitare.

C’è da chiedersi quale sarà la tendenza che la Corte adotterà in merito alla concreta applicazione del principio di non discriminazione. Potrebbe trattarsi di una presa di posizione isolata, magari condizionata anche dalla Brexit. Va difatti considerato che l’elemento che ha impedito alla ricorrente di accedere alla prestazione è stato il fatto di essere titolare di un pre-settled status, ossia uno status in primo luogo provvisorio, e in seconda battuta appositamente predisposto per la Brexit e per disciplinare la particolare situazione dei cittadini europei residenti in Regno Unito: lascia perplessi pensare che, se la ricorrente fosse stata titolare di uno status diverso e slegato dalle peculiari vicende relative alla Brexit, avrebbe ricevuto probabilmente un trattamento diverso.

Al contrario, la sentenza potrebbe inaugurare un nuovo approccio generale all’interpretazione degli artt. 2 TUE e 18 TFUE, che cede maggiormente il passo alle limitazioni previste dalle singole legislazioni nazionali. Il tutto, con l’effetto finale di svuotare di significato un principio fondamentale, che diventerebbe di sempre più rara applicazione concreta.

[1] CG v The Department for Communities in Northern Ireland, Case C-709/20, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:62020CJ0709

[2] Sentenze Marshall (C-152/84), Mangold (C-144/04), Kücükdeveci (C-555/07)

[3] Si veda G. Bonato, “La libertà di circolazione e soggiorno nell’Unione europea e la tutela dell’ordine pubblico”,

[4] Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?qid=1580206007232&uri=CELEX%3A12019W/TXT%2802%29

[5] Accordo sul recesso, art. 9 (c)(i)

[6] Art. 18, Accordo sul recesso

[7] Appendix EU of the UK immigration rules, https://www.gov.uk/guidance/immigration-rules/immigration-rules-appendix-eu

[8] The Universal Credit Regulations (Northern Ireland) 2016, https://www.legislation.gov.uk/nisr/2016/216

[9] https://www.london.gov.uk/what-we-do/communities/european-londoners-hub/compare-your-rights-pre-settled-and-settled-status

[10] Kerly Del Rosario Martinez Silva contro INPS e Comune di Genova, C‑449/16

[11] Art. 12, Direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico […]

[12] Commissione europea contro Repubblica d’Austria, C-75/11

[13] M. Haag, “Case C-709/20 CG – The Right to Equal Treatment of EU Citizens: Another Nail in the Coffin”, https://europeanlawblog.eu/2021/07/27/case-c-709-20-cg-the-right-to-equal-treatment-of-eu-citizens-another-nail-in-the-coffin/

[14] Conclusioni dell’Avvocato generale Jean Richard De La Tour, presentate il 24 giugno 2021, Causa C‑709/20, para 78

Marta Desantis

Marta Desantis, laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi del Sannio (con votazione di 110/110 e lode) con tesi in Comparazione e cultura giuridica dal titolo "Il risarcimento del danno Antitrust: analisi comparata tra il sistema europeo e statunitense". Praticante avvocato. Collaboratore dell'area di diritto internazionale.

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