Il principio di offensività e il suo modo di orientare le scelte legislative
Gli eventi storici e le vicissitudini politico-sociali verificatesi in seguito al secondo conflitto mondiale fecero emergere la necessità di orientare le scelte legislative in modo che queste, a differenza di quanto accaduto per i regimi totalitari, rispondessero ad esigenze concrete ed effettive di protezione di beni giuridici. Oltre la violazione della norma occorre che l’interesse protetto e garantito dall’ordinamento giuridico sia effettivamente leso.
Si consolida, dunque, la volontà di predisporre un sistema normativo che tenga conto della importanza che quel bene giuridico assume nell’ordinamento, associandovi una protezione correlata all’effettività dell’offesa, sia nelle ipotesi di nocumento effettivo sia, come per i reati di pericolo, nei casi di nocumento potenziale.
Alla luce di tali esigenze è andato affermandosi il principio di offensività che, seppur non espressamente riconosciuto a livello normativo, è enucleabile tanto nei principi costituzionali quanto in alcune fonti di rango primario.
Rispetto alla fonte costituzionale, il principio di offensività dialoga con il principio di uguaglianza così come emerge dalla pronuncia della Corte costituzionale[1] con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’aggravante comune concernente i colpevoli illegalmente presenti sul territorio dello Stato. Il principio costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero rilevando, in tal caso, unicamente la offesa arrecata al bene salvaguardato.
Inoltre alla luce di una lettura costituzionalmente orientata la limitazione della libertà personale, ritenuta inviolabile dall’art. 13 della Cost., sarebbe consentita solo in presenza di una lesione effettiva arrecata all’interesse giudicato meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico.
Ancora, la punizione di cui all’art. 25 co. 2 della Cost. non può prescindere da una valutazione di danno o, quantomeno di pericolo, del bene.
La funzione rieducativa sancita dall’articolo 27 della Carta rischierebbe di essere compromessa dinanzi ad una funzione meramente retributiva connessa alla violazione tout court della norma, non rilevando il nocumento concretamente arrecato.
Sul piano di normazione primaria, l’articolo 115 c.p. determina la non punibilità di chi abbia preso parte ad un accordo finalizzato alla commissione di un reato quanto questo non venga poi concretizzato essendo necessaria l’offesa al bene, potendosi applicare, in assenza, la misura di sicurezza.
Rilevante è, altresì, la disposizione ex articolo 49 co. 2 del codice penale che dispone l’esclusione della punibilità quando per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.
Il principio di offensività, come anticipato, può concernere una lesione anche potenziale del bene giuridico. Trattasi dei cosiddetti reati di pericolo che possono essere suddivisi in reati di pericolo concreto ed astratto. Con riguardo ai primi il legislatore richiede che il giudice adoperi un accertamento in concreto circa l’effettiva sussistenza di un possibile rischio per il bene tutelato. Nei reati di pericolo in astratto, invece, non è richiesta una valutazione giudiziaria specifica, essendo insita, o per alcuni presunta[2], nella condotta attuata dal soggetto agente. Rispetto a tali fattispecie si è posto il quesito sulla conciliabilità con il principio di offensività. La dottrina maggioritaria propende per la tesi della compatibilità tra reati di pericolo in astratto ed offensività qualora, tuttavia, sussistano due presupposti: l’accertamento tecnico in concreto risulti eccessivamente complesso; ad essere tutelati sono interessi collettivi violabili da condotte di diversi soggetti ove l’individuazione dell’offesa specifica richieda un’analisi così articolata da prospettare il rischio di un’impunità dei soggetti agenti.
La giurisprudenza prevalente sembrerebbe, ad oggi, essere orientata a richiedere, anche per tali fattispecie di reato, un accertamento in concreto, relegando ad ipotesi eccezionali il possibile riconoscimento di una pericolosità in re ipsa.
Preliminare al giudizio sull’avvenuta offesa di un bene giuridico è la definizione e la qualificazione stessa di interesse meritevole di tutela per l’ordinamento. Il principio di offensività opera, in tal caso, nella fase dell’ideazione normativa.
In un primo stadio era andata consolidandosi l’idea per la quale i beni giuridici erano solo e soltanto quelli rinvenibili nel testo costituzionale. Tale lettura, eccessivamente restrittiva, è oggi confutata da dottrina e giurisprudenza prevalente per cui l’indirizzo esposto, rigidamente ancorato ad un parametro letterale e formale, avrebbe finito per escludere dalla tutela giuridica beni “emergenti” frutto di una continua evoluzione sociale, politica ed economica. Per tale ragione la Corte Costituzionale sembrerebbe oggi propendere per una interpretazione estensiva in grado di ricomprendere tra i beni tutelabili dalle norme penali anche quelli non direttamente richiamati dalla Costituzione purché non incompatibili con questa.
Per tale via sarebbe ammissibile la tutela di valori semplicemente non inconciliabili con la Costituzione, seppur con il limite di impedire la criminalizzazione di condotte che rappresentino esercizio legittimo di diritti fondamentali previsti dalla Carta.
Il principio di offensività, attraverso il riferimento alla funzione rieducativa della pena e, veicolato dal principio di proporzionalità che si atteggia in questo caso come corollario del primo, trova applicazione anche in merito al regime sanzionatorio stabilito dal legislatore. Caso emblematico è rappresentato dalla pronuncia della Corte Costituzionale che si è espressa nel 2016 circa la pena prevista dell’articolo 567 co.2 del codice penale[3]. Tale disposizione stabiliva, per il delitto di alterazione di stato del neonato mediante falsità documentali, la reclusione da cinque a quindici anni.
Il giudice remittente palesava la sproporzione della sanzione prevista e rimetteva la questione alla Corte costituzionale che ha pronunciato sentenza di accoglimento sulla base di due argomenti: il primo di natura sostanziale per il quale si ritiene che in ragione del principio di offensività e di proporzionalità, il legislatore debba effettuare una valutazione complessiva che gli consenta di prevedere un impianto sanzionatorio propedeutico ai fini rieducativi e risocializzanti della pena, ripudiando, al contempo, reazioni punitive esemplari; in secondo luogo la Corte pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore circa il quantum sanzionatorio, addiviene alla propria statuizione mediante il ricorso ad un tertium comparationis nel caso specifico costituito dal 1 comma della medesimo articolo in questione dove, per una fattispecie delittuosa affine, è contemplato un trattamento punitivo meno severo. Per tali ragioni la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità del 2 comma dell’articolo 567 c.p. nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque anni ad un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni.
Più recentemente, la Corte si è espressa su una vicenda simile relativa all’articolo 73 del T.U. in materia di stupefacenti, che incrimina i fatti di non lieve entità aventi a oggetto le cosiddette droghe pesanti[4]. I giudici di legittimità hanno dichiarato illegittimo il minimo edittale (reclusione di otto anni) previsto; minimo edittale cui, per effetto della citata sentenza, dovrà sostituirsi quello, più mite, di sei anni.
La Corte, ha in particolare, rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo edittale di pena previsto per la fattispecie ordinaria che punisce le condotte aventi a oggetto le c.d. droghe pesanti (otto anni di reclusione) e il massimo di pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un periodo sanzionatorio in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza (art. 3 Cost.), e con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.).
Rientra, invece, nel raggio di applicazione del principio di ragionevolezza della pena l’articolo 131bis c.p. che esclude la punibilità nelle ipotesi in cui l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Tale disposizione è espressione di meritevolezza e sussidiarietà della pena quali corollari della consolidata concezione della reazione penale come extrema ratio.
Oltrepassando i confini nazionali, il principio ivi esaminato ha trovato riconoscimento anche nella giurisprudenza della Corte EDU. Per il giudice di Strasburgo i legislatori nazionali, pur godendo di ampia discrezionalità nella individuazione dei beni giuridici tutelabili e nelle scelte di politica criminale, sono tenuti a criminalizzare quelle condotte connotate da grave ed effettivo disvalore nei confronti del singolo cittadino o dell’intera comunità[5]. La autonomia normativa non può, tuttavia, tendere ad una criminalizzazione di condotte che a livello europeo sono considerate meritevoli di tutela in quanto manifestazione di principi e valori storicamente condivisi[6].
In conclusione, il principio di offensività qualifica la funzione del bene giuridico quale vincolo per il legislatore e canone ermeneutico per l’interprete[7].
[1] Corte Costituzionale, sentenza n. 249, 8 luglio 2010.
[2] Si pensi alla condotta tipizzata dall’art. 423 comma 1 c.p. che mira a preservare la pubblica incolumità. In tal caso la Cass., Sez. I, sentenza n. 14263, 23 febbraio 2017 ha rimarcato la necessità di addivenire, comunque, ad un accertamento in concreto volto a valutare se si tratti di un fuoco di tale entità e vastità da risultare concretamente idoneo a porre in pericolo l’interesse pubblico tutelato dall’ordinamento.
[3] Corte Costituzionale, sentenza n. 236, 10 novembre 2016
[4] Corte Costituzionale, sentenza n.40, 23 gennaio 2019
[5] A. De Lia, “Ossi di seppia”? Appunti sul principio di offensività, da www.archiviopenale.it .
[6] Tra i casi più recenti figura la sentenza Corte EDU, Sezione Prima, 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia, con la quale è stato deciso il ricorso promosso da un giornalista italiano che, in esecuzione della condanna per diffamazione irrogata dall’Autorità giudiziaria italiana per omesso controllo in ordine alla veridicità di una notizia diffusa su un quotidiano nazionale del quale era direttore responsabile, aveva subito seppur per un breve periodo una limitazione della propria libertà personale. La Corte ha parzialmente accolto la pretesa del ricorrente operando un bilanciamento tra il bene giuridico tutelato e i diritti democraticamente riconosciuti. In particolare l’offesa arrecata all’interesse protetto, determinata dalla pubblicazione di taluni articoli, non era così offensiva da giustificare la sanzione stabilita che avrebbe finito per violare l’art. 10 CEDU quale garanzia della libertà di espressione.
[7] R. Garofoli, Manuale di diritto penale, edizione 2018.
Francesco Di Gennaro nasce nel 1994 a Napoli.
Ha conseguito il diploma di maturità scientifica presso il liceo “Immanuel Kant” di Melito di Napoli nel 2012.
Laureato con lode nel Dicembre 2017 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, discutendo una tesi in Istituzioni di diritto pubblico titolata “Il dialogo tra le Corti”.
Dall’Aprile del 2018 ha svolto il tirocinio formativo ai sensi dell’art.73 d.l. 69/2013 presso la Procura Generale della Corte d’appello di Napoli e dal Gennaio dello stesso anno è iscritto al registro dei praticanti avvocati dell’Ordine degli avvocati di Napoli Nord.
Collaboratore dell’area di diritto penale.