martedì, Aprile 16, 2024
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Il rapporto tra gli omessi versamenti di imposte e la concessione della messa alla prova

A cura di Davide Costa

 

Con la sentenza n. 5784 del 07/02/2018 (1) la Suprema Corte ha annullato un’ordinanza del Tribunale di Isernia con la quale il giudice di merito, nel procedimento inerente al reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74/2000 (2), aveva subordinato al previo soddisfacimento integrale del debito fiscale la concessione della messa alla prova ex art. 168 bis (3) c.p. ai fini dell’estinzione del reato

La pronuncia in esame costituisce il primo intervento in merito alla problematica relativa all’applicazione dell’istituto della messa alla prova dell’imputato con sospensione del procedimento avente ad oggetto uno dei reati di omesso versamento di imposte di cui agli artt. 10 bis (omesso versamento di ritenute dovute o certificate), 10 ter (omesso versamento IVA) e 10 quater (omesso versamento di somme per compensazione con crediti inesistenti o non spettanti) del d.lgs. 74/2000.

In via preliminare deve osservarsi che l’istituto deflattivo introdotto all’art. 168 bis c.p. dalla l. 67/2014, applicabile ad illeciti penali contemplanti pene detentive non superiori ai quattro anni, ben si presta ad essere applicato ai suddetti reati erariali, la cui pena si inserisce entro una cornice edittale che va dai sei mesi ai due anni di reclusione (quì una disanima dettagliata dell’istituto).

Nel dettaglio, il Tribunale di Isernia, con ordinanza del 23 febbraio 2017, accoglieva l’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova presentata ai sensi dell’art. 464 bis c.p.p. dall’imputata, amministratore di una società che, in base al capo d’imputazione, aveva omesso di versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione relativa al periodo d’imposta 2009 per un valore di poco superiore alla soglia di non punibilità pari a 250.000 euro prevista dallo stesso art. 10 ter.
Tuttavia, il medesimo giudice subordinava la sospensione del procedimento per nove mesi, onde consentire l’esecuzione del programma di trattamento elaborato con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, alla restituzione del debito erariale entro il termine massimo di sospensione del procedimento, pari a due anni.

Proprio avverso tale condizione arbitrariamente imposta dal giudice di merito l’imputata ricorreva in Cassazione, lamentando due differenti censure, entrambe accolte dalla Corte.

Col primo motivo, la ricorrente ha evidenziato una violazione dell’art. 464 quater comma IV c.p.p., che prevede la possibilità del giudice di modificare o integrare il programma di trattamento dell’U.E.P.E. con il consenso dell’imputato.
Orbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno riconosciuto la mancanza del consenso dell’imputata e hanno pertanto precisato, ancorandosi ad una precedente pronuncia (4), che tale consenso presenta carattere inevitabilmente obbligatorio e vincolante, così da rendere illegittima ogni modifica disposta in difetto dello stesso.
L’assunto è del resto coerente non solo con il tenore letterale dell’articolo, bensì anche con la struttura dell’istituto, che è rimesso all’iniziativa dell’imputato cosicché il programma disposto d’intesa con l’U.E.P.E. non potrà subire variazioni disposte arbitrariamente dal giudice, che al contrario, in assenza dell’autorizzazione dell’istante, dovrà attenersi alla formulazione originaria.

Nel secondo motivo di doglianza veniva invece evidenziata l’illegittimità della subordinazione della messa alla prova all’integrale pagamento del debito tributario e annessi interessi maturato a carico dell’imputata.
Tale illegittimità sarebbe giustificata dalla natura prescrittiva, e non assoluta, attribuita al risarcimento del danno dall’art. 168 bis comma II c.p., aspetto già in passato constatato dai Giudici di Piazza Cavour.
In conseguenza di ciò, la mancanza del risarcimento (che nel contesto del diritto penale tributario assume la forma del versamento del debito fiscale), non sarebbe comunque ostativa alla concessione della sospensione del procedimento (a differenza dei lavori di pubblica utilità di cui al comma III del medesimo articolo, i quali invece assurgono pacificamente a condizione necessaria per il riconoscimento della messa alla prova).
Invero, la Corte, condividendo la suesposta osservazione, ha precisato che la locuzione “ove possibile”, riferita al risarcimento del danno, di cui al comma II dell’art. 168 bis c.p., svolge un ruolo determinante nella valutazione del giudice di merito.
In particolare, questi sarà tenuto a verificare non solo se il risarcimento del danno sia in concreto possibile, ma anche se l’eventuale impossibilità sia da addebitare all’imputato e se, in tal caso, sia da riconducibili a condotte volontarie o colpose di quest’ultimo.
Solo qualora l’impossibilità possa ritenersi ingiustificata in tal senso, il giudice sarà dunque legittimato a condizionare la messa alla prova al versamento del debito fiscale.

A parere di chi scrive, la correttezza dell’assunto del Giudice delle leggi sarebbe peraltro confermata dalla lettura della speciale scriminante prevista dall’art. 13 del D.lgs. 74/2000, che prevede la non punibilità per i reati di omesso versamento se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante l’integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso (5).
Sarebbe infatti quanto mai illogico da parte del contribuente imputato in un processo penale, in presenza della disponibilità economica per beneficiare della richiamata causa di non punibilità, non provvedere al soddisfacimento dei debiti tributari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e subire invece i più gravosi oneri che la messa alla prova impone e, contestualmente, essendo ciò possibile, dover risarcire il danno.

D’altra parte, nel caso di specie l’imputata, al momento della proposizione dell’istanza di messa alla prova era ancora in termini per beneficiare della c.d. “rottamazione” del debito tributario, che le avrebbe consentito di risarcire solo il capitale dovuto al netto degli interessi: la modifica apportata dal giudice al programma di trattamento dell’U.E.P.E. risultava inesatta altresì in forza della facoltà dell’imputata di ridurre il debito nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

In conclusione, l’affermazione giurisprudenziale dell’illegittimità della subordinazione della messa alla prova ai fini dell’estinzione del reato al versamento integrale del debito erariale nell’ambito del diritto penale tributario rappresenterà verosimilmente un forte incentivo alla richiesta dell’istituto di cui all’art. 168 bis, specialmente nei casi in cui gli omessi versamenti delle ritenute o dell’imposta sul valore aggiunto trovano la loro causa nella carenza di disponibilità finanziaria o comunque nella situazione di crisi in cui verte l’impresa del contribuente al quale non possa rimproverarsi tale crisi.

 

 

(1) Cass. Pen. Sez. III, n. 5784 del 07/02/2018.

(2) Si riporta il testo dell’art. 168 bis c.p.: “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.
La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108”.

(3) Si riporta il testo dell’art. 10 ter D.lgs. 74/2000: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta.”

(4) Cfr. Cass. Pen. Sez. V, n. 4610 del 03/02/2016.

(5) Sul tema v. MUSCO E., ARDITO F., Diritto Penale Tributario, III ed., Zanichelli, Torino, 2016, 57 ss.

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