venerdì, Aprile 19, 2024
Criminal & Compliance

Il reato di vilipendio: analisi strutturale degli articoli 403 e 404 c.p.

L’ordinamento religioso italiano, in particolar modo per quanto attiene la tutela penale del fattore religioso, subì notevoli cambiamenti con la caduta del regime fascista: ad un ordinamento giuridico caratterizzato dalla assoluta preminenza dello Stato nei confronti dei cittadini, limitativo dunque della sfera individuale ma potenziatore dei valori nazionali, la Costituzione sostituì una forma statuale rappresentante una incarnazione quasi storica dello Stato di diritto così come costruito dalla scienza politica e giuridica.[1]

Breve excursus storico-normativo con particolare attenzione alla legge n. 85 del 24 febbraio 2006. [2]

La materia della tutela del fattore religioso, nonostante la fresca emanazione della Carta Costituzionale, non fu esente da una prima e notevole contraddizione presente nel nuovo apparato Costituzionale così delineato: in particolar modo con l’art.7 si cristallizzò la posizione riservata alla Chiesa, con una correzione parziale dell’impianto normativo mediante la previsione ex art. 8 che sancì l’uguaglianza nella libertà per tutte le altre confessioni religiose e la possibilità di organizzazione mediante i propri statuti. [3]

Di fondamentale importanza è stata inoltre l’introduzione dell’art. 19 il quale prevedendo il pieno riconoscimento del diritto di libertà religiosa, col solo limite del buon costume, segnò un passaggio fondamentale verso una novellata tutela del fattore religioso. Nonostante il rinvio ai Patti Lateranensi previsto nell’art. 7 Cost. fu lo stesso testo costituzionale — mediante l’affermazione dei principi di uguaglianza, libertà religiosa e manifestazione del pensiero — ad escludere formalmente la confessionalità dello Stato: infatti parte della dottrina ritenendo la non sussistenza di differenze di tipo quantitativo e qualitativo ritenne abrogata la normativa discriminatoria ed espressiva del principio confessionista.
Il superamento del principio prima citato avvenne grazie sì all’introduzione della Costituzione, ma anche grazie al punto 1 del Protocollo addizionale dei Patti Lateranensi, ratificato con la l.25 marzo 1985, n.121 il quale diede vita a tre tesi circa il destino dei reati in materia religiosa: la tesi della abrogazione implicita, a causa del venir meno dell’elemento costitutivo consistente nella identificazione del culto cattolico quale religione dello Stato; la tesi minoritaria della sopravvenuta indeterminatezza del loro contenuto precettivo; la tesi della persistenza di tali tipologie di reato. [4]
Il sistema della tutela penale venne ridefinito, a partire dagli anni ’90, da una lunga e decennale attività della Corte Costituzionale: in particolar modo la sentenza 10-14 novembre 1997, n. 329 rappresentò — dopo una iniziale attività della Corte derivata in un’ottica di maggior tutela della religione, un tempo, di stato — una tappa fondamentale per l’evoluzione giurisprudenziale in materia. La sentenza in questione riformulò l’art. 404 c.p. e pose, in una visione di più ampio respiro, solide basi per un riassetto futuro dei «reati attinenti alla religione» (così come definiti dalla Corte).
La Corte non solo valorizzò il pluralismo attivo – non scevro da possibili differenziazioni – ma specificò come dovesse basarsi sull’imparzialità e sull’equidistanza, per cui «principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato […] non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose». [5]
Con la
legge 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al Codice penale in materia di reati d’opinione), il legislatore modificò l’intero sistema dei delitti in materia di religione cancellando ogni riferimento alla religione dello Stato. Oltre a questi interventi di tipo “cosmetico” , la riforma del 2006 presentò importanti novità: l’inserimento della nozione di «confessione religiosa» in posizione centrale nelle fattispecie degli artt. 403-405 c.p.; la riformulazione la descrizione del fatto tipico del vilipendio di cose attinenti al culto; l’inserimento all’art. 404, secondo comma, della fattispecie di reato di danneggiamento di cose attinenti al culto; i delitti di cui agli artt. 403 e 404, primo comma vennero ridimensionati nella comminazione della pena (da detentiva a pecuniaria).

Ma l’operazione di maggior pregio della riforma fu quello di porre in posizione centrale la nozione di “confessioni religiose” negli artt. 403-405: tale utilizzo venne suggerito al legislatore dalla Corte costituzionale che al fine di riferirsi alle religioni diverse dalla cattolica sostituì la formula di “culti ammessi” con quella di “confessioni religiose”.

Analisi strutturale degli articoli 403 e 404 c.p. così come novellati dalla legge n. 85 del 2006: la formulazione attuale.

Preliminarmente è necessario enucleare, dunque, la formulazione attuale dell’art. 403 c.p. (rubricato: «Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone») e dell’art. 404 c.p. (rubricato «Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose»). [6]

Ex art. 403 c.p. «Chiunque pubblicamente offende [la religione di Stato] una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.Si applica la multa da euro 2.000 a euro 6.000 a chi offende [la religione dello Stato] una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro di culto». (L’articolo in questione è riportato così come modificato dalla l.85 del 2006).

Lart. 404 c.p. prevede che «Chiunque, in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto, ovvero commette il fatto in occasione di funzioni religiose, compiute in luogo privato da un ministro del culto, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. Chiunque pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibili o imbratta cose che formino oggetto di culto o siano consacrate al culto o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto è punito con la reclusione fino a due anni». Così come sostituito dalla l. 24 febbraio 2006, n. 85 che ha unificato nella tutela apprestata da tale disposizione tutte le confessioni religiose, eliminando quindi la disparità di trattamento tra la religione cattolica e le altre.

Preliminare è l’individuazione del bene giuridico tutelato dalle norme: lo stesso, così come delineato dagli orientamenti della Corte Costituzionale, è identificabile col sentimento religioso; resta, dunque, escluso dunque il patrimonio fideistico e dogmatico di pertinenza delle singole confessioni, nonché le loro istituzioni terrene.

Risulta poi necessario chiarire il soggetto attivo e passivo dei reati ex art. 403 e 404 c.p.: preliminarmente è necessario stabilire come l’offesa alla confessione religiosa sia, indipendentemente dal modo in cui viene attuata, un reato comune (non essendo previsti ulteriori requisiti soggettivi).

Per quanto riguarda la determinazione del soggetto passivo del vilipendio, ai fini della punibilità, il comportamento deve essere posto in essere nei confronti di chiunque professi una confessione religiosa, ovvero nei confronti di chi manifesti in qualsiasi forma l’appartenenza ad essa o ne partecipi ai riti. Fondamentale risulta, dunque, riferimento al «ministro di culto»: disancorandone la definizione dai canoni previsti nella giurisprudenza passata – figlia della identificazione del culto cattolico quale religione di stato – ad oggi tale titolo è da attribuire in virtù di richiami desumibili da convenzioni che assumono carattere vincolante per lo Stato. Oggetto materiale del reato risulta essere, oltre al ministro di culto, anche “chi professa” una determinata confessione: entrambi vengono considerati sia singolarmente che in quanto gruppo di fedeli o ministri. Secondo l’orientamento a lungo dominante il vilipendio mira a colpire una o più persone determinate o determinabili, ritenendo il delitto escluso nel caso di offesa all’universalità dei fedeli o dei ministri di culto appartenenti ad una data confessione

Ai fini dell’identificazione dell’elemento materiale [7] (nonché elemento oggettivo) del reato previsto dall’art. 403  è necessario precisare come “vilipendio” ed “offesa mediante vilipendio” esprimano, sostanzialmente, lo stesso concetto: il primo costituisce la modalità della condotta, il secondo il risultato della stessa (configurando in tal modo l’art. 403 c.p. quale reato d’evento a forma vincolata). Il vilipendio si sostanzia nel gettare o manifestare sprezzo – con parole, scritti, disegno o atti – nei confronti «all’entità contro cui la manifestazione è diretta, in modo idoneo ad indurre i destinatari della manifestazione al disprezzo». Costituiscono vilipendio la contumelia, lo scherno e l’offesa fine a sé stessa, ma non la discussione (scientifica o divulgativa) su temi religiosi o la semplice critica e confutazione. Elemento fondamentale della fattispecie di reato in questione risulta essere la pubblicità della commissione (ad esempio in particolar modo attraverso l’uso della stampa). Elemento sì costitutivo, ma solo della fattispecie descritta al primo comma in quanto non necessario ai fini dell’applicazione della fattispecie prevista dal secondo comma. Il reato si consuma nel momento e nel luogo in cui si produce l’offesa alla confessione e, poiché si tratta di reati d’evento, la maggior parte della dottrina ritiene configurabile il tentativo. Per quanto riguarda l’identificazione dell’elemento materiale della fattispecie di reato prevista dall’art. 404 c.p. la precedente disposizione incriminava chiunque recasse offesa alla religione dello Stato mediante il vilipendio di cose attinenti al culto. Con la nuova formulazione seguente alla riforma del 2006, il legislatore – oltre alla sostituzione lessicale – ha configurato due autonome fattispecie di reato: il primo comma punisce il vilipendio di cose attinenti al culto, con la sola pena pecuniaria; il secondo comma punisce il danneggiamento di tali cose, con la reclusione fino a due anni [8].

Fondamentale risulta stabilire l’elemento soggettivo dei reati previsti dagli artt. 403-404 c.p.: preliminarmente è opportuno chiarire la non necessarietà del dolo specifico, in quanto per integrare la fattispecie di cui all’art 404 secondo comma è necessario il dolo intenzionale, mentre per le altre è sufficiente il dolo diretto, alternativo o eventuale. La consapevolezza del soggetto attivo dovrà essere riferita, in quanto fattispecie di reato caratterizzata da dolo generico, a ciascuno degli elementi costitutivi: quindi l’autore dovrà essere consapevole non solo della alla qualità della persona destinataria del vilipendio e delle caratteristiche delle cose oggetto di vilipendio o del danneggiamento, ma anche della pubblicità delle proprie azioni; essendo necessaria la coscienza e volontà di offendere la cosa o la persona.

Conclusioni.

Dopo la riforma del 2006 sembrano residuare ancora alcuni profili di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 comma 1 e 19 Cost: ad esempio il nuovo art. 404 da rilievo solo all’offesa al sentimento religioso di chi si riconosce in una determinata confessione religiosa, lasciando privo di tutela penale chi non si riconosce in alcuna confessione o chi esprime un sentimento religioso negativo. In un ordinamento dove risulta innegabile l’influenza di quella che, un tempo, è stata la “religione di Stato”, il Giurista sembra assumere il ruolo di metronomo riguardo la tutela applicabile alle diversità religiose e sociali.

[1] Si veda anche di A. Esposito, Evoluzione storico-legislativa della tutela penale dei culti
[2] Si veda anche di A. Di Prisco, La tutela penale delle confessioni religiose
[3] Per un accurato approfondimento sulla evoluzione storica della tutela penale del fattore religioso: M.C. Ivaldi, La tutela penale in materia religiosa nella giurisprudenza, Giuffrè, 2004.
[4] Così GIOVANNI FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in Studi in memoria di Nuvolone, I, Milano, 1991.
[5] Sentenza 28 novembre 1957, n.125.
[6] Sul punto NICOLA COLAIANNI, Diritto di satira e libertà di religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, maggio 2008.
[7] Sul punto VITO MORMANDO, “Laicità penale” e determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in Studi Marinucci, 2006.
[8] Circa i criteri distintivi tra “circostanza” ed “elemento costitutivo” del reato, FABIO BASILE, Reato autonomo o circostanza? Punti fermi e questioni ancora aperte a dieci anni dall’intervento delle sezioni unite sui “criteri di distinzione”, in DAVIDE BRUNELLI, Studi in onore di Franco Coppi, Giappichelli, Torino, 2015.

Fonte Immagine: pixabay.com

 

Antonio Esposito

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso la Federico II di Napoli: si occupa prevalentemente di Diritto Penale e Confessionale. Sviluppa la propria tesi di laurea intorno all'affascinante rapporto tra fattore religioso e legislazione penale (Italiana ed Internazionale), focalizzandosi su argomenti di notevole attualità quali il multiculturalismo, il reato culturalmente motivato e le "cultural defense".

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