giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Il reato religiosamente orientato: definizione, rilevanza del motivo e circostanza del reato

Nella sempre più crescente società multiculturale e multiconfessionale odierna innumerevoli sono i casi in cui l’osservanza di dati precetti confessionali collide con il rispetto dell’ordinamento penale statale: si tratta dei noti conflitti di lealtà, posti in essere da soggetti legati parimente sia da regole di carattere etico-religiose che da norme giuridiche cogenti. [1]

Quindi delicato risulta il rapporto tra normativa penale, motivo religioso e libertà religiosa stessa: infatti l’ordinamento italiano, in presenza di un contrasto tra comportamento religioso e comando penale, non attribuisce al fedele un diritto incondizionato di professare liberamente la propria fede.

Alla luce del sempre più incalzante pluralismo religioso, dunque, numerosi sono stati i casi in cui un dato reato sia stato determinato da motivo o movente religioso: secondo una definizione formale ed analitica, per reato determinato da motivo religioso (o reato religiosamente orientato) si intende “qualunque fatto che viene vietato giuridicamente sotto minaccia di una pena criminale, ma che viene compiuto in vista di sanzioni o remunerazioni trascendentali al fine di obbedire ed accattivarsi il favore della potenza sovraumana in un’ottica di subordinazione a tale potenza”.

Fondamentale è la distinzione tra reato oggettivamente religioso e reato determinato da movente religioso: il primo è un fatto illecito, avente un motivo di qualsiasi natura, che lede un dato bene religioso; il secondo, invece, trova la sua causa nella religione professata dal soggetto agente. Prendendo a prestito una distinzione terminologica elaborata per il reato politico, parte della giurisprudenza rinomina il primo fatto illecito quale “reato religioso improprio (o soggettivamente religioso)”, in contrapposizione al secondo denominato “reato religioso proprio”.

Il motivo religioso viene escluso quando la religiosità costituisce solo un mascheramento d’una motivazione di altra natura, essendoci quindi un fine secondario da raggiungere tramite l’attuazione della fattispecie principale; oppure quando l’elemento religioso rappresenta solo un pretesto, sussistendo sì l’ideale religiosa ma con un fattore determinante diverso.

Dal punto di vista criminologico difficoltosa è l’identificazione del delinquente per motivi religiosi  proprio in ragione della critica possibilità di differenziare in maniera lucida ed esatta i casi in cui la credenza religiosa sia sensata o meno: sul piano delle considerazioni generali il delinquente per motivo religioso viene caratterizzato dall’essere scontento dell’assetto della società in cui vive [2], ponendo in essere dei comportamenti che si astengono da ogni attività di collaborazione verso l’organizzazione sociale o  che mirano invece ad attuare l’ordine religioso.

Il delinquente religioso nell’infrangere la norma statale è cosciente di contravvenire ad un ordine normativo cui deve obbedienza, ma nonostante ciò pone lo stesso in essere la determinata fattispecie di reato in nome di ideali che si identificano in un complesso di norme etico-religiose dal valore assoluto.

In nessun sistema giuridico il motivo religioso può essere assunto come scriminante di applicazione generale in quanto, ad eccezione degli ordinamenti confessionali, legittimare l’atto criminoso per il motivo religioso comporta una subordinazione netta dell’ordinamento giuridico statale.

Il motivo può, invece, scriminare legittimamente il reato in determinate singole fattispecie che vengono ricondotte nei limiti previsti dall’art 52 c.p., qualora – quindi – si atteggi come impulso a difendere la propria religione: esempi validi sono l’imposizione della mano sulla bocca del bestemmiatore oppure l’allontanamento del profanatore dal tempio.

Nonostante ciò, in innumerevoli ordinamenti il motivo religioso assume valore di esimente rispetto a singole e determinate fattispecie di reato: ad esempio in Inghilterra, in ragione dello scopo, non sono considerate come illegali alcuni “club e società formate per fini religiosi e caritatevoli”; in altre legislazioni straniere addirittura il motivo religioso può giustificare il rifiuto di prestare giuramento. Contro tale posizione è intervenuto il Parlamento Europeo raccomandando più volte agli stati di respingere simili atteggiamenti di tolleranza o giustificazione quando il delitto viene commesso in ossequio a convinzioni religiose [3]

Per quanto riguarda la possibilità della valutazione del motivo religioso quale aggravante o attenuante della pena, negli ordinamenti teocratici e confessionali il reato improprio riceve una valutazione differenziata a seconda del credo che motiva il gesto: se tale religione è quella di Stato è possibile la legittimazione del motivo quale attenuante; viceversa il motivo sarà qualificato come contrastante con i principi morali e sociali dell’ordinamento in questione e, di conseguenza, designato quale aggravante comune o specifica.

Per quanto riguarda l’ordinamento italiano il codice penale non menziona espressamente il motivo religioso tra le circostanze aggravanti o attenuanti, dovendosi determinare caso per caso, con un’analisi di fatto, il rilievo della data motivazione quale circostanza del reato.

In linea generale, però, è possibile affermare come il motivo religioso assuma rilevanza tendenzialmente positiva, in quanto non riceve una valutazione sfavorevole:

– si pensi che il motivo religioso “non è mai abietto o futile ai senti dell’art 61 n. 1 c.p.: in quanto è espressione sia di una coscienza di valori sia di principi d’ordine superiore, escludendo che possa motivare persone vili o depravate” (Cass. 8 marzo 1950).

Secondo una analisi della Suprema Corte, quindi, la futilità non può attribuirsi al movente religioso né sotto il profilo oggettivo né sotto quello soggettivo, in quanto nessun atto può dirsi sproporzionato al movente quando sia esecutivo d’un comando divino.

– il motivo religioso ha, inoltre, “alto valore morale e sociale ai sensi dell’art 62 n 1 c.p.”.; così come affermato dalla Suprema Corte nel 1952 “il motivo per essere rilevante ai fini dell’art 62 deve essere conforme alla morale dominante del popolo italiano nell’attuale momento”, essendo così considerati, ad esempio, i sentimenti di amore materno e d’amore per la patria.

Di notevole rilevanza, circa il ruolo del motivo religioso e culturale nella commissione del reato, è la sentenza 24084 del 15 maggio 2017 della Corte di Cassazione. [4]

La suprema Corte nella pronuncia in questione ha statuito come il motivo religioso non giustificasse il porto fuori dall’abitazione del kirpan da parte del fedele sikh: in particolar modo gli ermellini confermarono la sentenza del Tribunale di Mantova motivando come, nel caso di specie, il fattore religioso e culturale non costituisse scriminante del reato previsto dall’art 4 legge n.110/75 (porto d’armi od oggetti atti ad offendere); il pugnale, nonostante il valore simbolico, costituisce dunque un oggetto atto ad offendere [5]

La modernità ed il pluralismo sembrano elevare l’elemento religioso quale una delle variabili principali delle società contemporanee multiconfessionali: nonostante la scarsa applicazione della tematica nelle aule dei tribunali italiani, questo fenomeno diviene sempre più attuale e diffuso a seguito dell’immigrazione e della globalizzazione che portano a possibili situazioni conflittuali tra diritto e religione.

La società è inevitabilmente e profondamente cambiata soprattutto a causa di simili fenomenologie (prima fra tutte è l’immigrazione) che ridisegnano gli aspetti degli ordinamenti statali moderni: accade così che “i flussi migratori determinano situazioni di convivenza inedite, accostando abiti di vita antropologicamente distanti per cui le nuove presenze innescano profondi conflitti e generano profonde discontinuità culturali tra il linguaggio del diritto autoctono ed i modelli di vita ed i valori degli altri”; mettendo in tal modo in difficoltà l’efficacia delle leggi, soprattutto in maniera penale, le quali sono pensate per territori abitati da dati soggetti con date culture e vengono improvvisamente adeguate su altre idee e mentalità. [6]

Il fattore religioso fa emergere, dunque, uno degli “aspetti più problematici del paradigma multiculturale: quello dei gruppi organizzati disomogenei che sono insediati su di un medesimo territorio” [7]: portando a rivendicazioni sempre più frequenti dei propri diritti umani e civili, così come di rispetto e considerazione pubblica; fattori che, se non adeguatamente assistiti da interventi e attenzioni politico-normative, rischiano di portare a potenti conflitti sociali.

 

[1] Per un maggior approfondimento della tematica del contrasto tra norme religiose e diritto penale: A. Licastro “il motivo religioso non giustifica il porto fuori dell’abitazione del Kirpan da parte del fedele sikh (considerazioni in margine alle sentenze n. 24739 e n. 25163 del 2016 della Cassazione penale)” (https://www.statoechiese.it/images/uploads/articoli_pdf/licastro.m_il_motivo.pdf).

[2] Una analisi del reato determinato dal movente religioso, così come l’identificazione del delinquente per motivi religiosi, viene realizzata in M. Del Re “il reato determinato da movente religioso”, Roma, Giuffrè, 1961. Nel testo in questione l’autore analizza le diverse sfaccettature della fattispecie di reato in questione, dalla identificazione del concetto di religione alla analisi delle diverse fattispecie di reato religioso improprio.

[3] Innumerevoli sono gli approfondimenti in questione, oltre agli autori già citati di notevole rilevanza è il contributo di G. Crocco “diritto ordine e religione” in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale.  

[4] La sentenza in questione costituisce una delle ultime e più rilevanti pronunce della Corte di Cassazione in tema di scriminante culturale: la Suprema Corte ha motivato la propria decisione in base all’art 9 della CEDU.

[5]http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/03/31/090A1505/sg%20;jsessionid=5OAAWsuGJarY8NWLoAz3A__.ntc-as2-guri2b.

[6] Così come delineato da M. Ricca “Pantheon. Agenda della laicità interculturale”, Palermo, 2012.

[7] A. G. Chizzoniti “multiculturalismo, libertà religiosa e norme penali”.

 

Fonte immagine: pixabay.com

 

Antonio Esposito

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso la Federico II di Napoli: si occupa prevalentemente di Diritto Penale e Confessionale. Sviluppa la propria tesi di laurea intorno all'affascinante rapporto tra fattore religioso e legislazione penale (Italiana ed Internazionale), focalizzandosi su argomenti di notevole attualità quali il multiculturalismo, il reato culturalmente motivato e le "cultural defense".

Lascia un commento