sabato, Novembre 2, 2024
Di Robusta Costituzione

Il ruolo delle donne nelle Corti costituzionali: problemi e prospettive

L’accesso delle donne alle professioni giuridiche è stato non poco difficoltoso. Basti, qui, accennare alle resistenze fronteggiate da figure quali quelle di Lidia Poët o di Adele Pertici, che volevano, rispettivamente, divenire un avvocato e un notaio, ma che videro il loro sogno sfumare dietro una coltre di pregiudizi e di ostacoli giuridici[1].

Non molto dissimili furono le difficoltà fronteggiate dalle donne che speravano di accedere alla magistratura. Di tale cammino si fece promotrice e testimone la Corte costituzionale, che operò, fin dai suoi primi anni di attività, con due celebri e fondamentali sentenze.

La prima, la n. 56 del 1958, vide rigettare la questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge n. 1441/1956 che stabiliva che, dei sei giudici popolari che andavano ad aggiungersi ai giudici togati delle Corti d’assise, almeno tre dovessero essere uomini: una sorta di “quota” a favore del sesso maschile, introdotta per evitare il rischio che i sei giudici popolari appartenessero al solo genere femminile[2]. Nell’assolvere il legislatore – e nel negare, quindi, una violazione del principio di uguaglianza – la Corte costituzionale disse che l’art. 51 Cost. aveva voluto lasciare al Parlamento una “qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell’intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone”[3]. Si arriva, quindi, a sostenere che, sebbene la Costituzione sancisca la parità tra uomini e donne, tale principio può subire deroghe sulla base di discrezionali valutazioni del Parlamento, ove questo ritenga che, per ragioni che attengono a specifiche “attitudini” maschili o femminili, si renda necessario limitare l’accesso dell’uno o dell’altro sesso ad un determinato ufficio pubblico[4]. La Consulta, nella sua pronuncia, ha, poi, avuto modo di affermare che se, da una parte, la Costituzione aveva una portata dirompente nell’ordinamento italiano, dall’altra il sistema giuridico nazionale aveva risentito “solo da poco più di un quarto di secolo (…) [de]gli effetti di una evoluzione verso principi di eguaglianza”[5].

Non è un caso che di lì a pochi anni più tardi si ebbe un altro importante passo verso la piena parità tra le figure maschili e femminili. Ciò si ebbe grazie alla nota sentenza n. 33 del 1960, dove il giudice delle leggi dichiarò l’illegittima costituzionale dell’art. 7 della l. n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da una serie di importanti uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e potestà politiche, tra cui ricadeva anche l’esercizio di “potestà giurisdizionali”. La Corte, dunque, argomentò tale decisione sulla base della lesione del principio di uguaglianza tra i sessi: “una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, [deve] essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza”[6].

Non si può negare, leggendo nella loro interezza le motivazioni della decisione, che una qualche resistenza ad una piena affermazione del principio di parità vi fosse ancora, ma la sentenza rimane di portata storica, perché contrassegnò l’espulsione dall’ordinamento di una disciplina che impediva alle donne di accedere a posizioni chiave dell’amministrazione e perché si pose come obiettivo quello di assegnare una certa concretezza ad una norma programmatica della nostra Carta costituzionale[7].

Risulta, qui, centrale ricordare che tale questione ebbe origine dal ricorso presentato da Rosanna Oliva, che si ribellò alla propria esclusione dall’impiego di prefetto e fu difesa dal suo professore, il famoso costituzionalista Costantino Mortati. Grazie alla sua perseveranza la Corte costituzionale fu indotta ad un radicale cambiamento di prospettiva, arrivando ad affermare che l’art. 51 dovesse essere considerato specificazione e “conferma” dell’art. 3 Cost.

È, infine, importante ricordare che questo fu un passaggio cruciale per l’ammissione, di lì a breve tempo, delle donne in magistratura. Con la legge n. 66 del 1963 il legislatore aprì alle donne la porta per accedere a tutti gli impieghi e le professioni, compresa quella di magistrato: come è noto l’ingresso delle donne in magistratura avvenne a seguito della vittoria nel primo concorso non riservato ai soli uomini, nel 1965.

Alla luce dell’analisi precedentemente esposta si deve rispondere a diversi quesiti: il mondo giuridico ha accettato in tutto e per tutto le donne? Sono davvero riuscite ad accedere a tutte le professioni giuridiche?

Formalmente nell’ordinamento italiano contemporaneo non vi sono ostacoli di sorta. La compagine femminile ha la possibilità di accedere a qualsiasi incarico o posizione, al pari dei colleghi e delle controparti maschili. Molte sono, infatti, le donne che svolgono la professione di avvocato e di notaio e che occupano un posto in magistratura[8].

Perché, dunque, c’è ancora motivo di dolersi? Perché voler indagare la questione della discriminazione di genere nell’accesso alle professioni legali?

Perché, purtroppo, si registra ancora oggi una buona dose di pregiudizi[9] e una certa ritrosia nel riconoscere alle figure femminili incarichi di prestigio, all’interno, in particolare, della magistratura[10].

Si badi, infatti, che, ad oggi nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di Primo Presidente della Corte di cassazione o di Procuratore generale presso la Corte di cassazione o di Procuratore Nazionale Antimafia[11].

Tale problema è comune anche a molti altri Paesi dell’Unione europea: così è accaduto per il Belgio e per la Norvegia, che hanno introdotto delle azioni positive volte a definire delle regole ispirate alla parità di genere nella composizione delle Corti costituzionali[12]. Simile questione è stata risolta nel Regno Unito tramite l’azione del Lord Chancellor e del Lord Chief Justice, che hanno la responsabilità, nel sistema costituzionale inglese, di assicurare tale parità in seno alla Supreme Court[13]. Lo stesso Presidente americano Jimmy Carter incoraggiò l’utilizzo delle gender quotas nelle nomine dei giudici delle corti federali – anche se tali strumenti, di fatto, non furono mai introdotti nel sistema statunitense –, in modo da creare degli organi giudiziari il più possibile ispirati alla diversity[14]. Da qui risulta evidente come il problema della presenza femminile in tali ambienti sia ancora una questione aperta.

Basti pensare al fatto che, in Italia, nelle ultime elezioni per i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, dei Consigli di Presidenza della Giustizia amministrativa, della Giustizia tributaria e della Corte dei Conti, per 21 posizioni sono stati eletti 21 uomini. Da qui nasce la proposta, formulata dall’Associazione Donne Magistrato Italiane, per superare tale situazione. Si è argomentato a favore dell’introduzione temporanea, anche nell’Organo di autogoverno, di “quote di risultato”[15], una scelta provvisoria ma necessaria, non più procrastinabile.

È necessaria, dunque, una seria riforma della legge elettorale per il CSM, che assicuri un’effettiva presenza femminile nell’Organo di autogoverno e ponga rimedio ai meccanismi di selezione che hanno penalizzato e penalizzano le donne e che nelle ultime elezioni hanno dato luogo ad un risultato inaccettabile sul piano della rappresentanza, quello di una sola componente togata a fronte di una magistratura rosa per più della metà. Un progetto di riforma elettorale del CSM è già in cantiere ed è nato a fine marzo 2016 al termine dei lavori della commissione ministeriale c.d. Scotti, incaricata nel settembre 2015 dal ministro Orlando della formulazione di proposte di riforma in tema di costituzione e funzionamento del CSM. In questa proposta, però, il secondo voto di preferenza per candidato di genere diverso risulta, infatti, facoltativa al primo turno – e con esito, per di più, incerto a causa di meccanismi che da sempre escludono le donne dalle aree di esercizio del potere – e facoltativa al secondo turno. L’aleatorietà del risultato porta a concludere che il sistema elettorale proposto non garantisce una efficace tutela per il genere attualmente “svantaggiato” e che contrasta con l’affermazione, contenuta nelle premesse della stessa relazione Scotti, della piena tutela della parità di genere.

Sulla proposta Scotti il CSM, nel settembre 2016, ha, poi, espresso solo una generica indicazione per le quote “di risultato”, quale strumento astrattamente idoneo a garantire una rappresentanza effettivamente paritaria indicando come necessaria l’obbligatorietà della seconda preferenza di genere diverso per entrambe le due fasi elettorali[16].

La soluzione approvata non soddisfa, nonostante il risultato abbia chiaro valore simbolico[17].

L’obbligatorietà della seconda preferenza non garantisce, infatti, il conseguimento di alcuna quota, potendo delle intese preventive tra gruppi associativi portare ad una convergenza o concentrazione del voto di genere al secondo turno su una sola candidata o su pochissime candidate. È una misura promozionale facilmente aggirabile. Sarà compito del Governo quello di formulare un articolato di norme che assicuri all’interno del CSM un vero equilibrio di genere, conforme all’attualità del nostro Paese e rispettoso dei diritti di tutte e tutti i suoi cittadini, manifestazione di democrazia e garanzia di buon e corretto funzionamento di una istituzione di rilievo nel sistema costituzionale italiano quale il Consiglio Superiore della Magistratura.

Occorre, dunque, che si approntino strumenti affinché le giudici, in una magistratura declinata al femminile non si sottraggano ai compiti di direzione, di collaborazione e di partecipazione all’organizzazione degli uffici giudiziari ove lavorano.

Un’indagine della precedente Commissione Pari Opportunità dell’Associazione Nazionale Magistrati ha confermato che molte giudici, rispetto ai colleghi uomini, oggi sono disinteressate a funzioni anche solo di coordinamento e che questo avviene non solo per difficoltà organizzative o differenti aspirazioni personali[18]. Esse provano, infatti, un costante senso di inadeguatezza e di imperfezione che le accompagna nel quotidiano, divise tra lavoro, gestione domestica, educazione dei figli[19].

Da qui, nasce, però, un ulteriore quesito fondamentale: perché è tanto importante la questione di genere nelle professioni legali, soprattutto in magistratura? Perché risulta, al giorno d’oggi, necessario tutelare la parità tra i due sessi? E soprattutto, come si può procedere in definitiva in tal senso?

Non si tratta solo di numeri o di rispettare astratte previsioni legislative: è una questione di sostanza, che attiene alla realtà e all’esperienza.

Tale questione risulta, tra l’altro, ancora di maggiore rilievo se si guarda alla composizione delle Corti costituzionali. Queste istituzioni, infatti, hanno visto una scarsa partecipazione femminile e ciò non può che destare perplessità nel nostro ordinamento.

Basti pensare al fatto che è solo nel 1996 che Fernanda Contri divenne la prima giudice a Palazzo della Consulta. Da allora altre donne sono giunte ad occupare quel ruolo. Molte di esse sono state nominate dai Presidenti della Repubblica[20], mentre altre provengono dalle supreme magistrature[21].

Solo una, si badi, è stata eletta dal Parlamento riunito in seduta comune[22]. Questo dato risulta significativo di una circostanza: esiste ancora oggi una forte resistenza, in Italia ma non solo, ad assegnare alle figure femminili ruoli di leadership e potere[23].

Non è un caso che risalga al 28 aprile 2020 una proposta legislativa presentata al Senato avente ad oggetto l’introduzione di quote di genere per garantire una pari rappresentanza anche con riferimento agli organi costituzionali[24].

Tale disegno, ad oggi ancora in discussione, si pone come obiettivo l’attuazione del già citato art. 51 Cost., imponendo “di assicurare il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura dei due quinti”[25], “da computare sul numero complessivo delle nomine effettuate nel corso di tre anni, e si prevedono altresì le modalità di sostituzione dei componenti della Corte venuti a cessare in corso di mandato, in modo da garantire il rispetto della quota”[26] in esame. Lo scopo dichiarato dal legislatore è proprio quello di promuovere “una cultura della rappresentanza paritaria, del potere condiviso, della valorizzazione delle differenze di genere”[27] in modo da contrastare gli stereotipi e le forme di discriminazione basate sul sesso[28], favorendo “l’affermazione della specificità, della libertà e dell’autonomia femminili essenziali per il raggiungimento di un’effettiva parità giuridica e sociale tra donne e uomini”[29].

Ed è qui che proprio il ruolo delle Corti costituzionali diviene fondamentale sotto un duplice profilo. Da una parte, infatti, esse agiscono come interpreti del diritto, facendosi tutrici dei valori dell’ordinamento, polmone[30] del sistema giuridico italiano e straniero, assumendo un vero e proprio ruolo educativo[31]. Dall’altra, i suoi stessi componenti hanno un compito centrale: fungere da esempio[32] – concreto e reale – di tale parità e diversità, da incoraggiare nel nostro ordinamento giuridico.

In primo luogo, dunque, occorrerà evidenziare il ruolo che i giudici costituzionali giocano nel loro compito – fondamentale – di garantire i diritti dei singoli e la democrazia stessa. Il giudice delle leggi opera, infatti, senza sostituirsi al legislatore, ma rendendosi testimone dei mutamenti culturali e sociali che agitano il Paese. Ciò lo insegna l’esperienza statunitense, dove, grazie al contributo di alcuni – coraggiosi – giudici si è riusciti a tutelare i valori fondanti di quest’ordinamento giuridico. In particolare, è stata l’azione dell’Associate Justice Ruth Bader Ginsburg a portare alcuni risultati fondamentali. Quest’ultima, con la sua esperienza professionale e personale, non ha mai smesso di battersi per assicurare, oltre che affermare, l’eguaglianza tra uomini e donne e per tutelare i diritti di queste ultime. Non a caso, la sua voce, così flebile, ma al contempo decisa e risoluta, si è levata chiaramente con la sua dissenting opinion sul caso Little Sisters of the Poor v. Pennsylvania, resa nel 2020, poco prima della sua dipartita, argomentando che la Corte si sia dimenticata, in tema di aborto, di operare un bilanciamento con i “countervailing rights and interests” di chi vede i propri diritti limitati alla luce dell’osservanza religiosa altrui[33]. La sua sensibilità sul tema era straordinaria, poiché frutto di decenni di lotte nel nome della parità di genere. O basti qui ricordare il recente – quanto inaspettato – contributo dell’Associate Justice Neil Gorsuch, che, reinterpretando l’originalism, è riuscito a dare adeguata garanzia ad altri “diversi” del sistema giuridico statunitense, gli omosessuali[34].

È solo, infatti, tramite un’educazione all’eguaglianza, che parta dall’opera delle Corti, che si potrà raggiungere un’effettiva parità[35].

In Italia c’è ancora molta strada da fare, ma ciò che deve risultare chiaro è che guardare agli altri ordinamenti, che condividono tali istanze di tutela dei diritti, è un passo fondamentale[36].

In particolare, l’ordinamento italiano contemporaneo dovrebbe ispirare la composizione della sua Corte costituzionale al criterio della diversity, senza dover ricorrere allo strumento delle quote[37]. Una tale soluzione, infatti, risulta fondamentale per garantire una composizione il più possibile equilibrata della Corte stessa, oltre che rappresentativa delle istanze fondamentali del popolo italiano.

È proprio la diversità, dunque, che diventa sinonimo di ricchezza, idonea a portare la società civile a considerare le donne nelle professioni legali al pari degli uomini perché valevoli e competenti[38], senza che ciò si traduca nella necessità per il sesso femminile di occuparsi di questioni attinenti al loro genere[39].

Sarà, dunque, centrale il loro approccio, che risulterà dissimile rispetto a quello dei colleghi, ma non per questo meno fondamentale. Non è un caso, infatti, che la voce di Ruth Bader Ginsburg fosse apprezzata anche dai suoi più acerrimi oppositori nella Corte[40].

Da qui sorge, in definitiva, una conclusione: l’educazione alla parità tra uomini e donne nelle istituzioni deve partire dagli esempi pratici, dalle singole esperienze individuali, da figure come quella della Ginsburg, che hanno saputo affrontare il loro ruolo con autorevolezza e serietà, senza dover ricorrere all’uso delle quote.

E la sua esperienza è di ispirazione per molte bambine, che negli Stati Uniti possono leggere della storia di questa donna straordinaria in un libro illustrato. Partendo, quindi, dalla giovane età si potrà arrivare a comprendere l’importanza e il ruolo che il sesso femminile ha assunto nel mondo e si potrà capire che non ci sono – e non ci dovrebbero essere – limiti alla differenza[41].

[1] È nel 1881 che, in Italia, la prima donna laureata (con il massimo dei voti) in Giurisprudenza all’Università di Torino, la piemontese Lidia Poët, si distinse per la sua volontà di intraprendere un cammino nuovo, quello dell’avvocatura. Il suo obiettivo accademico fu, non a caso, particolarmente elogiato, dal momento che ella era riuscita a «superare tutti quegli ostacoli che ancora si oppongono alla donna, perché ella possa, al pari del suo compagno, darsi quando la vocazione e intelligenza superior ve la chiamino, agli studi scientifici, letterari, a quegli studi, in una parola, che furono e purtroppo sono ancora esclusivamente all’essere privilegiato che si chiama uomo». Terminati gli studi, chiese di iscriversi all’Albo degli Avvocati e Procuratori Legali e riuscì nell’impresa nel 1883. In tale periodo storico ciò costituì senz’altro una novità senza precedenti. Particolarmente interessante fu il dibattito all’interno del Consiglio si concluse in favore dell’iscrizione, con otto voti favorevoli e quattro contrari e con la motivazione che nessuna norma vietava alle donne l’accesso all’Ordine, in forza del brocardo latino: “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”. La richiesta fu, però, revocata nel novembre dello stesso anno su ricorso del Pubblico Ministero. L’allora Procuratore Generale del Re non gradiva vedere quella signora in toga che patrocinava le udienze, firmava gli atti e si confrontava con lui da avversaria, e per questo prese l’iniziativa di denunciare l’anomalia di tale presenza alla Corte d’Appello. La giovane avvocatessa si difese strenuamente replicando e portando esempi di donne che, in altre nazioni europee, svolgevano legittimamente la professione forense, e a nulla valsero le sue obiezioni: la Corte d’Appello di Torino accolse le ragioni del procuratore e ritenne che quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico e, in quanto tale, la legge vietava espressamente che una donna potesse ricoprirlo. Di conseguenza, i giudici optarono per la revoca dell’incarico alla Poët, argomentando che «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene osservare: costretta talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste». Inoltre, la presenza di un “avversario” di sesso femminile nelle aule di giustizia aveva l’effetto di disturbo più verso i magistrati che i colleghi avvocati, in ragione del fatto, secondo loro, che la presenza di una donna al banco della difesa avrebbe compromesso «la serietà dei giudizi e gettato discredito sulla Magistratura stessa, perché se l’avvocatessa avesse vinto la causa, le malelingue avrebbero potuto malignare che la vittoria sarebbe stata dovuta alla leggiadria dell’avvocatessa più che alla sua bravura». Ciò nonostante, Lidia Poët non si arrese e presentò un dettagliato ricorso alla Corte di Cassazione, ma con altrettanta coerenza la Suprema Corte confermò la decisione dei giudici della Corte d’Appello, tanto che alla avvocatessa venne tolta la toga e non poté più esercitare a pieno titolo la professione. Questo non le impedì di lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso l’amore per il diritto e l’aveva convinta ad iscriversi a Giurisprudenza, e per i 37 anni successivi alla sua imposta cancellazione dall’Albo non interruppe mai l’esercizio della professione, tanto che ebbe modo di specializzarsi nella tutela dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Fu, infine, nel 1919 che il Parlamento approvò la Legge Sacchi, che autorizzava ufficialmente le donne all’accesso a tutte le professioni ed ai pubblici uffici, ad esclusione della Magistratura, della politica e dei ruoli militari. L’anno successivo la Poët poté finalmente ripresentare – con immediato accoglimento – la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati. Così, REDAZIONE, Lidia Poët, la prima donna avvocato, in Visiones, 16 novembre 2020, https://visiones.net/2020/11/16/lidia-poet-la-prima-donna-avvocato/.

Non molto dissimile fu il cammino della meno celebre dottoressa Adele Pèrtici, che, il 15 novembre del 1913, chiese l’iscrizione all’albo dei praticanti notai di Roma. Fino ad allora un notaio “in gonnella” non si era mai visto, ma, nonostante ciò, il 9 gennaio 1914 i notai romani dimostrarono lungimiranza di vedute e accettarono la candidatura della giovane donna. Di nuovo, però, il Procuratore del Re chiese la revoca dell’iscrizione al Tribunale di Roma. La motivazione non lascia spazio ad interpretazioni arbitrarie: vige il divieto per le donne di esercitare un pubblico ufficio. In primo grado, l’iscrizione venne, però, ritenuta legale: lo svolgimento della professione era, infatti, subordinato al superamento dell’apposito concorso. Ad accogliere il ricorso del procuratore del Re fu, di nuovo, la Corte di appello di Roma nel 1914. La dottoressa fu, dunque, radiata dall’Albo. Come nel caso della Poët fu, a questo punto, centrale l’intervento del Parlamento, che, con la sopracitata legge del 1919, riconosceva una parziale capacità giuridica alle donne, facendo, così, ottenere alla Pertici l’iscrizione all’Albo dei praticanti. Nel 1920 la dottoressa, però, rinunciò all’incarico.

In questo senso A. Frulli Antioccheno, Le libere professioni. Le donne avvocato. Le donne notaio e giudice, in http://medea.provincia.venezia.it/est/frulli/avv/avv.htm.

[2] Si vedano, a tal proposito, le notazioni di V. Crisafulli, L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Cedam, 1990, 27.

[3] Così, Corte cost., sent. n. 56/1958.

[4] Nella decisione si legge in realtà che “la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi”, ma è evidente che non vi era motivo di porre un tetto massimo alla presenza femminile se non appunto perché si era convinti, sulla base di un diffuso pregiudizio, che le donne non erano idonee a svolgere quella specifica attività.

[5] Corte cost., sent. n. 56/1958, cit. per un commento, C.M. LENDARO, Disuguaglianze, giurisdizione e persistente questione di genere in Magistratura, in LavoroDirittiEuropa, n. 3/2019, 9.

[6] Così, Corte cost., sent. n. 33/1960. Si veda C.M. Lendaro, Disuguaglianze, giurisdizione e persistente questione di genere in Magistratura, cit., 9.

[7] M. D’amico, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/30_MARZO_2017_RELAZIONI_D_AMICO.pdf, 4.

[8] Basti pensare al fatto che, nel momento in cui si scrive, le donne occupano almeno il 50% delle procure italiane e sono molte le esponenti del gentil sesso che sono divenute Presidenti dei Tribunali (così è per il Tribunale di Belluno e di Padova, oltre che per la Corte d’Appello di Venezia.

[9] A. Eagly e L.L. Carli, Through the Labyrinth: The Truth About How Women Become Leaders, Harward Law Review, 2007, in cui le autrici evidenziano le origini e l’attuale sussistenza di veri e propri stereotipi legati al genere.

[10] M. D’amico, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni, cit., 20-21.

[11] Ivi.

[12] M. Caielli, Why do women in the judiciary matter? The struggle for gender diversity in European courts, in Federalismi.it, n. 5/2018, 158-159.

[13] Ivi, 158.

[14] M. Caielli, Why do women in the judiciary matter?, cit., 159, oltre che M. SEN, Diversity, qualifications, and ideology: how female and minority judges have changed, or not changed, over time, in Wisconsin Law Review, 2017, 372-373.

[15] Le “quote” sono uno strumento proporzionale allo scopo di superamento delle differenze e discriminazioni che si intende perseguire, con la finalità di sanare una grave situazione di disparità, cercando di generare buone pratiche e di risolvere – ancorché non immediatamente e con una lunga attuazione – la persistente ed insostenibile disuguaglianza. Questa è anche l’impostazione della Corte costituzionale italiana, che, con le sue ultime pronunce del 2003 e del 2010, ha riconosciuto la legittimità di tali strumenti di riequilibrio con le finalità di cui agli artt. 51 e 117 Cost. In tal senso argomenta, ex multis, M. D’AMICO, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni, cit., oltre a C. LENDARO, Donne nelle istituzioni: i primi 70 anni. Il femminile in magistratura, in http://www.giudicedonna.it/2016/numero-quattro/articoli/Intervento%20Lendaro%20-%20Donne%20nelle%20Istituzioni.pdf, n. 4/2016.

[16] M. D’amico, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni, cit., 17 ss.

[17] Ivi.

[18] C.M. Lendaro, Disuguaglianze, giurisdizione e persistente questione di genere in Magistratura, cit., 15 ss.

[19] Ibidem, 21.

[20] Si tratta di Fernanda Contri, Maria Rita Saulle, Daria De Pretis, Marta Cartabia ed Emanuela Navarretta.

[21] Si tratta di Maria Rosaria San Giorgio.

[22] Silvana Sciarra.

[23] Così tristemente nota anche A. Fusco, Problema principale o epifenomeno? Brevi riflessioni sull’antisubordinazione di genere nella selezione dei giudici costituzionali, in B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, Giappichelli, 2019, 142.

[24] Si fa qui riferimento al DDL n. 1785, “Norme per la promozione dell’equilibrio di genere negli organi costituzionali, nelle autorità indipendenti, negli organi delle società controllate da società a controllo pubblico e nei comitati di consulenza del Governo”, comunicato alla Presidenza il 28 aprile 2020.

[25] Ivi.

[26] DDL n. 1785, cit., 6.

[27] Ivi.

[28] DDL n. 1785, cit., 3.

[29] Ivi.

[30] In questo senso, P. Grossi, La Costituzione italiana espressione di un tempo giuridico pos-moderno, in L’invenzione del diritto, Laterza, 2017, 58-59.

[31] Così, G. Tieghi, Educare, non solo decidere. Nuovi scenari dalle recenti opere dei giudici costituzionali Grossi e Sotomayor, in Rivista AIC, n. 1/2020, 194.

[32] Ibidem, 177 ss.

[33] E. Chieregato, La Corte Suprema e gli ultimi episodi della culture war su aborto e contraccezione: un commento a Little Sisters of the Poor v. Pennsylvania (2020), in Diritti Comparati, 5.

[34] A. Schillaci, An elephant in a mousehole? La Corte Suprema e il divieto di licenziamento sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, in Diritti Comparati, 2.

[35] Sull’importanza del ruolo educativo dei giudici e delle Corti – e delle differenze di approccio e di idee nei collegi – si veda R. Bader Ginsburg, My own words, Simon & Schuster Paperbacks, 2016, 199: “(…) dissents also speak to the public, to Congress, and to. Future Courts. (…) dissents on constitutional matters (…) “appeal to the intelligence of a future day””.

[36] Si può parlare, in questo senso, di un vero e proprio “costituzionalismo transnazionale”, fenomeno indagato da M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, il Mulino, 2000. Si veda, poi, R. BADER GINSBURG, My own words, cit., 248 ss.

[37] Al riguardo si vedano R. Bader Ginsburg, My own words, cit., 91, oltre che S. DAY O’CONNOR, The Majesty of the Law, Random House, 2003, 186 ss.

[38] E. Catelani, La selezione per merito nelle istituzioni: iniziamo a parlarne, in B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, cit., 80: “La necessità della maggiore presenza delle donne nelle istituzioni non deriva soltanto dalla necessità di eliminare situazioni di diseguaglianza ed attivare pertanto misure antidiscriminatorie a garanzia delle pari opportunità, ma perché la presenza delle donne consente di avere una diversa visione di prospettiva, perché le istituzioni (…) possono meglio funzionare se al loro interno comprendono le varie posizioni, le diverse visioni del mondo”.

[39] M. D’amico, La Costituzione al femminile. Donne e Assemblea Costituente, in B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, cit., 23: «(…) le Costituenti non concentrarono il loro lavoro solo sulle tematiche tipicamente “femminili” (…) ma diedero il loro contributo anche su temi non direttamente collegati alla condizione della donna».

[40] Basti pensare alla stima che aveva di lei il collega Associate Justice Antonin Scalia. R. BADER GINSBURG, My own words, 43 ss.

[41] C.M. Lendaro, Donne nelle istituzioni: i primi 70 anni. Il femminile in magistratura, cit.: “imparare a ‘riconoscere la differenza’ (…) è un’esigenza che risponde ai bisogni della Giustizia ed è un fattore di funzionamento e una risorsa del sistema”.

Giulia Sulpizi

Nata a Monselice (PD) il 24.12.1996, Giulia Sulpizi si è diplomata con lode al Liceo Classico Tiziano di Belluno e si è laureata, con Lode e menzione per speciale distinzione negli studi, in Giurisprudenza presso l'Università di Padova nel luglio 2020. Già autrice di un romanzo storico, edito da Diabasis nel 2014, e di articoli in tema di geo-politica per EuroVicenza ed Eurobull, attualmente svolge la pratica forense presso lo Studio legale Bertolissi di Padova, in cui si occupa, specialmente, di diritto amministrativo e civile. Cultrice della materia per ELP-Global English for Legal Studies presso l'Università di Padova (Scuola di Giurisprudenza) da settembre 2020, è, altresì, autrice di pubblicazioni scientifiche in tema di diritto costituzionale.

Lascia un commento