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Il soccorso in mare: i concetti di “porto sicuro” e “porto vicino” nel diritto internazionale

Lo scorso 12 giugno la Sea-Watch 3, imbarcazione della ONG tedesca Sea-Watch, prestava soccorso a 53 persone alla deriva su un gommone nella zona SAR libica, richiedendo alle autorità dei paesi più vicini, ossia Libia, Malta e Italia, assistenza e l’indicazione di un porto sicuro. Si dirigeva di poi verso Lampedusa, ma il Viminale vietava l’ingresso della nave in acque territoriali. Dopo 14 giorni di attesa, la comandante della nave, Carola Rackete, decideva di violare il divieto ed entrare nel porto, per permettere lo sbarco dei migranti a bordo.

In seguito, la Alex, barca a vela di proprietà della ONG Mediterranea e battente bandiera italiana, entrava nelle acque territoriali italiane e attraccava nel porto di Lampedusa. Dopo qualche giorno di attesa, a seguito di un accordo tra Italia e Malta, i migranti sulla nave, in precarie condizioni, venivano fatti sbarcare.

Ad inizio luglio, la Alan Kurdi, della ONG Sea Eye, con 44 migranti a bordo, compiva invece il viaggio inverso: respinta dal nostro paese, faceva rotta verso Malta, attendendo qualche giorno di fronte al porto de La Valletta prima che le autorità maltesi autorizzassero lo sbarco e il soccorso dei naufraghi.

Questi casi hanno sollevato un acceso e vivace dibattito a livello nazionale, rimettendo al centro la questione relativa alla condotta delle ONG nel Mediterraneo. Giornalisti, esponenti politici e opinione pubblica si sono domandati, ad esempio, perché le navi non avessero fatto ritorno in Libia, o non avessero impostato la rotta verso la più vicina Tunisia o Malta.

Una risposta a questi quesiti andrebbe primariamente ricercata nel diritto internazionale applicabile a casi di salvataggi di naufraghi e persone in mare. Al netto dei risvolti giudiziari – in particolare per quanto riguarda la posizione della Rackete, queste due vicende mostrano i limiti del diritto in un ambito caratterizzato da un contesto geo-politico e giuridico complesso.

Obblighi di soccorso e assistenza in mare

Occorre, in primo luogo, ricordare come l’obbligo, per capitani e comandanti, di soccorso e assistenza di naufraghi in mare sia un obbligo derivante direttamente dal diritto consuetudinario marittimo e previsto da numerose convenzioni internazionali.

La Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare (nota come Convenzione SOLAS), nella sua nuova versione del 1974, al Capitolo V – dedicato alla sicurezza nella navigazione, impone in capo agli Stati l’obbligo di “accertarsi che tutte le necessarie disposizioni siano prese per la sorveglianza delle coste e per il salvataggio delle persone in pericolo lungo le loro coste.” (regola n. 15).

Allo stesso modo, anche la Convenzione ONU sul diritto del mare (c.d. Convenzione UNCLOS), spesso citata come Convenzione di Montego Bay, dal luogo in cui è stata firmata nel 1982, dispone, all’art. 82, l’obbligo, per gli Stati (a) di “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera … presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; … proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo” e (b) di promuovere “… la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza e … collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.”.

Particolarmente puntuale sul tema è anche la Convenzione internazionale sull’assistenza e soccorso in mare del 1989 (denominata Salvage), la quale prevede, all’art. 10, §1, come “Ogni capitano è tenuto a prestare assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo di perdersi in mare”, con gli Stati che, ai sensi del §2, “prendono le misure necessarie atte a fare osservare l’obbligo di cui al §1.”. Più in generale, l’intera Convenzione è ispirata al principio di costante collaborazione tra armatori e capitani di navi private e le autorità nazionali per garantire soccorso e assistenza alle persone in mare.

In ultimo, la spesso citata Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (la c.d. Convenzione SAR), impone che, rispetto alla propria area di competenza, come definita nella Convenzione[1], “Le Parti si assicurano che venga fornita assistenza ad ogni persona in pericolo in mare. Esse fanno ciò senza tener con to della nazionalità o dello statuto di detta persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata”.

Tale previsione è stata poi integrata dalla Risoluzione MSC.167(78) del 2004, la quale conferma come gli Stati responsabili debbano “… fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito…” (§2.5) ai naufraghi e ai sopravvissuti soccorsi.

Cosa si intenda però per “luogo sicuro” resta ancora una questione dibattuta.

Porto sicuro e porto vicino

Sul punto, nella medesima risoluzione, al §6.12, viene definito come “porto sicuro” (o place of safety, POS) il luogo in cui si considerano terminate le operazioni di salvataggio. In detto luogo, i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita e possono accedere ad alcuni beni e servizi fondamentali (cibo e acqua, rifugio e ripario, cure mediche), nonché, nel caso in cui si tratti di migranti[2], a tutte le procedure per poter ottenere un passaggio verso la destinazione finale o la più vicina, ad esempio potendo presentare richiesta di asilo.

La definizione di porto sicuro è quindi essenzialmente ottenuta in senso negativo e, inoltre, esplicitata solamente in documenti di soft law, senza alcuna efficacia vincolante per gli Stati. A conferma di ciò, la definizione di “porto sicuro” è sì citata in altre convenzioni (come nella già citata Risoluzione MSC.167(78) del 2004, emendamento alla Convenzione SAR, §3.1.9.)[3], ma è anche oggetto di discussione in ambito internazionale, come dimostra il caso della nave Tampa, imbarcazione norvegese che, nel 2001, dopo aver salvato 433 afgani in fuga dal regime dei talebani, cercava soccorso nelle acque australiane. La questione, invero piuttosto risalente, ha dato vita ad un autentico scontro diplomatico tra Australia e Norvegia, evidenziando tutti i limiti del diritto internazionale in materia[4].

Va poi ricordato come nessuna delle convenzioni citate faccia riferimento al porto più vicino, criterio utilizzato invece in altri ambiti del diritto internazionale marittimo (come, ad esempio, in caso di collisioni tra natanti). In ogni caso, anche assumendo l’obbligo, in caso di salvataggio in mare, di accompagnare i sopravvissuti verso il porto più vicino – concetto spesso ripetuto da diversi commentatori, occorre ricordare come le questioni relative alla distanza, giuridica e navale, nonché al concetto di “minima deviazione possibile” rispetto alla rotta originaria[5], non siano di semplice ed immediata risoluzione, specie per natanti che (a) non possiedono una rotta predefinita, come quelle delle ONG e (b) i cui capitani si trovano a dover dare preminenza alla sicurezza e alla protezione dei naufraghi soccorsi in mare[6]. Non va trascurato, poi, come anche le condizioni del mare e metereologiche possano costituire fattori determinanti nello svolgere queste valutazioni[7].

Su questo punto, vi è un’ulteriore precisazione da svolgere: il POS non deve trovarsi necessariamente sulla terraferma, dal momento che possono essere considerati porti sicuri anche una nave o una struttura (ad esempio, una piattaforma petrolifera) su cui i naufraghi possano essere soccorsi e accolti in attesa di una successiva destinazione. Invero, nella Risoluzione MSC.167(78) del 2004 si evidenzia come una barca possa essere un POS, purché solo temporaneo, in attesa che le autorità mettano a disposizione una alternativa più sicura e duratura.

La questione va ovviamente distinta da quella relativa all’applicazione della Convenzione di Dublino, ai sensi della quale è competente per esaminare la richiesta di asilo il “primo Stato membro” frontaliero o in cui il migrante arriva o si trova (ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 8). Come chiarito dall’UNHCR[8] – e come riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi Jamaa c. Italia[9], infatti, il principio secondo cui la nave battente bandiera di un paese ne sia la sua estensione territoriale non può legittimare l’applicazione di Dublino quando le navi non siano attrezzate a realizzare le procedure di identificazione dei migranti, dando loro la possibilità di presentare domanda d’asilo.

Il diritto internazionale marittimo e i limiti alla sovranità nazionale

Comunque sia, ad eccezione di alcune regole e principi generali, i documenti internazionali qui delineati non definiscono, nello specifico, gli obblighi degli Stati per quanto concerne il salvataggio di persone in mare, limitandosi ad invitare le autorità a dotarsi di un quadro normativo adeguato a garantire soccorso e assistenza e a promuovere la collaborazione tra i soggetti statali coinvolti[10].

Questa mancanza di indicazioni precise è accompagnata anche da esplicite previsioni che invece rappresentano la base legale sulla quale gli Stati possono legittimamente adottare provvedimenti quali divieti di sbarco, approdo ed ingresso nei porti e nelle acque territoriali, molto discussi in queste settimane. Ad esempio, la già citata Convenzione di Montego Bay concede agli Stati di “emanare leggi e regolamenti, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione e ad altre norme del diritto internazionale, relativamente al passaggio inoffensivo attraverso il proprio mare territoriale” (art. 17) e di “adottare le misure necessarie per impedire nel suo mare territoriale ogni passaggio che non sia inoffensivo” (art. 21). Su questo punto, la Convenzione afferma, all’art. 19, come “Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole (e, quindi, non inoffensivo) per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se nel mare territoriale, la nave è impegnata (nel …) carico o lo scarico (…) di persone in violazione delle leggi e dei regolamenti (…) di immigrazione vigenti nello Stato costiero.”. Una previsione di questo tipo è dunque facilmente strumentalizzabile per legittimare scelte particolarmente severe da parte delle autorità statali, quali i provvedimenti di divieto di ingresso in acque territoriali – adottati dal nostro paese – ma anche politiche su più ampia scala, come proposte di blocchi navali e pattugliamenti intensivi delle coste.

Il discusso decreto sicurezza-bis, entrato in vigore lo scorso 14 giugno, coglie questa opportunità dando la facoltà al Ministero dell’Interno di vietare l’ingresso in acque territoriali alle imbarcazioni in acque contigue a quelle nazionali quando sussistano generici “motivi di ordine e sicurezza pubblica” nonché per i casi di cui all’appena visto art. 19 §2 della Convenzione di Montego Bay.

Come rileva Pasquale De Sena, professore di diritto internazionale dell’Università Cattolica di Milano, non solo il nostro Paese non ha formalmente istituito alcuna zona contigua alle acque territoriali, ma nemmeno sussisterebbero ragioni di emergenza tali da legittimare interventi così severi[11].

In aggiunta a quanto detto, la loro sovranità degli Stati incontra un limite nel rispetto dei diritti dell’uomo, ovverosia nell’obbligo incombente sulle autorità nazionali di garantire, proteggere e tutelare i diritti fondamentali delle persone soccorse in mare. Detta tutela si fonda essenzialmente sul rispetto del principio di non respingimento, che, ai sensi dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra, consiste nel divieto, per gli Stati, di non respingere un rifugiato “verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.”. Tale divieto è previsto anche da altre importanti carte dei diritti, quale la Carta di Nizza (art. 19) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo; la Corte di Strasburgo, in particolare, vieta respingimenti sia ai sensi dell’art. 3 (come confermato nel celebre caso Hirsi[12]) e l’art. 3 del Protocollo n. 4 alla Convenzione.

Conclusioni: dalla teoria alla pratica

Per riassumere, per quanto possano sembrare chiari e lineari nella teoria, l’applicazione pratica di questi principi è tutt’altro che scontata. Il comandante di una nave – sia essa appartenente alla Guardia costiera nazionale, sia un natante di un armatore privato – incontra notevoli difficoltà quando si tratta di scegliere in che modo provvedere al salvataggio di naufraghi in mare o in quale porto dirigersi per garantire sicurezza e protezione alle persone salvate. Tali difficoltà possono essere legate, come visto, alle condizioni atmosferiche, alla rotta che la nave è tenuta a seguire (pensiamo alle navi mercantili), ma anche a questioni geo-politiche più ampie, come quelle legate alla situazione di conflitto interno ad un paese o alla condotta tenuta dalle autorità nazionali nel pattugliamento e nel controllo della propria zona SAR. L’insieme di queste circostanze e la valutazione in concreto realizzata da chi si trova a comandare una nave comportano conseguenze dirette sulla tutela dei diritti fondamentali degli individui soccorsi in mare.

Il caso della Sea-Watch 3 è in questo senso emblematico e spiega le difficoltà connesse alla realizzazione di questo tipo di attività, connesse allo scopo umanitario della ONG.

In altre parole, quali sono le opzioni valide per il capitano di una nave che soccorra migranti nel Mediterraneo?

La Libia, come a più riprese riconosciuto da Unione Europea, Corte Penale Internazionale, UNHCR, OIM e Amnesty, non rappresenta un porto sicuro a causa del conflitto civile in atto e per le terribili condizioni dei migranti nei centri di detenzione del paese[13] ed è, pertanto, un’opzione da escludere.

Fatta eccezione per la Libia, la prima alternativa, in termini di distanza geografica, è la Tunisia, ma anche questa opzione è oggetto di discussione. L’UNHCR, in persona del suo rappresentante per Asia ed Europa, Charlie Yaxley, riconosce come la Tunisia sia “… un posto sicuro per lo sbarco”, aggiungendo come “non ci si può trovare in una situazione in cui la disponilità di fare domanda d’asilo … viene rifiutata perché si cercano offerte migliori in altri paesi[14]. D’altra parte, però, come conferma anche il professor Vassallo dell’Università di Palermo, sebbene non esista un riconoscimento ufficiale sulla condizione della Tunisia quale “porto non sicuro” – come nel caso della Libia – il paese non presenta le caratteristiche tipiche del porto sicuro[15]. Infatti, sebbene sia un paese relativamente pacifico[16], la mancanza di una legislazione nazionale che permetta a rifugiati e richiedenti asilo di presentare domanda alle autorità competenti espone i migranti al rischio di essere nuovamente espulsi nei paesi vicini, in particolare in Libia[17]. Inoltre, le stesse autorità tunisine sono spesso poco partecipi e collaborative, in particolare con le ONG[18]: l’UNHCR, proprio per questo, in suo recente report, ha invitato la Tunisia ad essere maggiormente attiva nella propria zona SAR, in particolare per quanto riguarda il soccorso di persone che fuggono dalla Libia[19]. Le difficoltà connesse alle relazioni con la Tunisia sono ben esemplificate dal caso della Maridive 601: lo scorso maggio, 75 migranti vennero bloccati dalle autorità all’esterno delle acque territoriali nazionali e poterono sbarcare solo dopo aver accettato il rimpatrio, evitando così di essere espulsi in Libia[20].

Infine, vi è poi l’opzione Malta. Oltre a questioni geografiche (Malta è molto spesso più vicina di Lampedusa ai siti dei salvataggi), il paese è strutturalmente inadatto a gestire grandi flussi di migranti e ciò sia per le dimensioni dell’isola – poco più grande della città di Brindisi – sia per la legislazione nazionale, spesso oggetto di critiche anche da parte della Corte di Strasburgo, che ha rilevato la tendenza alla criminalizzazione dei migranti arrivati sull’isola[21]. Inoltre, nel corso del tempo, Malta ha accolto una percentuale di migranti ben superiore non solo alle capacità dei centri di accoglienza locali, ma anche, in proporzione, rispetto ai numeri di altri paesi – in particolare l’Italia[22].

Ma a differenza della Libia, per Malta e Tunisia non esiste alcun esplicito riconoscimento sul loro “status” di “porto non sicuro”: in altre parole, il comandante di una nave che decidesse di portare in salvo i migranti facendo rotta verso uno di questi due paesi non verrebbe meno ai suoi obblighi di soccorso e assistenza. Come detto, però, la questione molto spesso non si pone, nella pratica: la Tunisia raramente partecipa a queste missioni, mentre Malta, che ha sempre accolto numeri di molto superiori alle sue capacità, cerca sempre più sovente accordi per delegare ad altri paesi la gestione dei nuovi arrivi.

L’intera questione, dunque, più che giuridica, è politica. Solamente con maggiore cooperazione e collaborazione tra i vari attori nel Mediterraneo, in particolare dell’Unione Europea, è possibile agire concretamente per garantire tutela e protezione ai migranti soccorsi in mare.

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[1] Casu S., Le zone SAR, in Ius in itinere, 3 marzo 2019 (https://www.iusinitinere.it/le-zone-sar-18324).

[2] https://www.guardiacostiera.gov.it/servizi-al-cittadino/Pages/place-of-safety.aspx

[3] In cui si afferma come “Parties shall co-ordinate and co-operate to ensure that masters of ships providing assistance by embarking persons in distress at sea are released from their obligations with minimum further deviation from the ships´ intended voyage, provided that releasing the master of the ship from these obligations does not further endanger the safety of life at sea. The Party responsible for the search and rescue region in which such assistance is rendered shall exercise primary responsibility for ensuring such co-ordination and cooperation occurs, so that survivors assisted are disembarked from the assisting ship and delivered to a PLACE OF SAFETY, taking into account the particular circumstances of the case and guidelines developed by the Organization. In these cases, the relevant Parties shall arrange for such disembarkation to be effected as soon as reasonably practicable“.

[4] Per una breve descrizione degli eventi si veda Bufera sull’Australia per la nave dei profughi, in Repubblica, 29 agosto 2001 (http://www.repubblica.it/online/mondo/naveaustralia/controllo/controllo.html).

[5] SOLAS, regola 33, §1.1 ), citata nella Risoluzione MSC.167(78), Add. 2 – Ann. 34, 20 maggio 2004, p. 4 (http://www.imo.org/en /OurWork/Facilitation/personsrescued/Documents/MSC.167(78).pdf).

[6] Floris F., ​Porti sicuri e sbarchi incerti. I “buchi neri” del diritto internazionale del mare, in Redattore Sociale, 3 luglio 2019.

[7] La Sea-Watch 3, ad esempio, segnalò al tempo una forte perturbazione che rendeva difficile la navigazione verso Nord-Ovest (https://twitter.com/SeaWatchItaly/status/1088393877596393473).

[8] UNHCR, Background note on the protection of asylum-seekers and refugees rescued at sea, §§25 – 31 (https://www.unhcr.org/3e5f35e94.pdf).

[9] Corte EDU, Hirsi Jamaa c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza 23 febbraio 2012, §81, §87, §95, §185, §206.

[10] Si veda, in particolare, la Convenzione SAR che, al §2.1.2. e ss. afferma come “Parties shall, either individually or, if appropriate, in co-operation with other States, establish the following basic elements of a search and rescue service: 1. legal framework; 2. assignment of a responsible authority; 3. organization of available resources; 4. communication facilities; 5. co-ordination and operational functions; and 6. processes to improve the service, including planning, domestic and international co-operative relationships and training. Parties shall, as far as practicable, follow relevant minimum standards and guidelines developed by the Organization.”.

[11] Maciocchi P., Migranti, Sea watch 3: senza un coordinamento tra Stati Ue le norme sovranazionali non bastano, Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2019 (https://www.ilsole24ore.com/art/sea-watch3-senza-coordinamento-stati-ue-norme-sovranazionali-non-bastano-ACAmwaS?refresh_ce=1).

[12] Corte EDU, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n. 27765/09, sentenza 23 febbraio 2012.

[13] Ciononostante, Italia e Unione Europea hanno, nel corso degli anni, rinforzato la loro cooperazione con le autorità libiche, si veda Casu S., Tumminello F., L’UE alla sbarra: la denuncia alla CPI per crimini contro l’umanità nella gestione dei migranti, in Ius in itinere, 5 luglio 2019 (https://www.iusinitinere.it/lue-alla-sbarra-la-denuncia-alla-cpi-per-crimini-contro-lumanita-nella-gestione-dei-migranti-21275); anche di recente le violenze non si sono fermate e lo scorso 3 luglio un bombardamento nei pressi di Tajura ha colpito un centro di detenzione, causando 40 morti e 80 feriti (https://www.lastampa.it/esteri/2019/07/03/news/libia-bombardato-centro-di-detenzione-e-strage-di-migranti-1.36636608).

[14] Sarsot 5:UNHCR,”Tunisia è porto sicuro,migranti non possono rifiutarsi per offerte migliori altrove”, in Euronews, 31 luglio 2018 (https://it.euronews.com/2018/07/30/sarsot-5-unhcr-tunisia-e-porto-sicuro-migranti-non-possono-rifiutarsi-per-offerte-migliori).

[15] Ibid.

[16] Lo scorso 27 giugno due attentati terroristici hanno colpito la capitale Tunisi, causando un morto e diversi feriti (https://www.repubblica.it/esteri/2019/06/27/news/tunisi_kamikaze_si_fa_esplodere_in_centro_contro_auto_della_polizia_diversi_feriti-229754621/); in risposta all’aumento delle violenze, l’ambasciata statunitense nella città ha diramato un pre-allarme per chiunque volesse mettersi in viaggio, consigliando di non visitare alcune aree del paese (https://travel.state.gov/content/travel/en/traveladvisories/traveladvisories/tunisia-travel-advisory.html).

[17] La Tunisia non è un porto sicuro per chi vuole chiedere asilo politico, Il Manifesto, 23 agosto 2007 (citato su MeltingPot.org, https://www.meltingpot.org/La-Tunisia-non-e-un-porto-sicuro-per-chi-vuole-chiedere.html#.XS3CKegzY2x).

[18] Come accaduto anche nel recente caso della Sea Watch 3 (si veda .

[19] UNHCR, Operational update – Tunisia, 31 maggio 2019 (http://reporting.unhcr.org/sites/default/files/UNHCR%20Tunisia%20Operational%20Update%20-%20May%202019.pdf).

[20] Migranti, da 10 giorni la Tunisia dice no allo sbarco di 75 persone salvate in mare, in Repubblica, 11 giugno 2019,

https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2019/06/11/news/migranti_chiuso_il_porto_di_zarzis_la_tunisia_dice_no_allo_sbarco_dei_75_persone_salvate_in_mare-228525946/

[21] Si veda il caso Corte EDU, Elmi c. Malta, ricorsi nn. 25794/13 e 28151/13, sentenza 22 novembre 2016.

[22] Può essere utile, in questo senso, l’infografica creata dall’UNHCR (link https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean).

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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