martedì, Aprile 16, 2024
Diritto e Impresa

Il trasferimento dei segni distintivi dell’impresa

A cura dell’Avv. Livia Carnevale, Master in Avvocato di Affari di Meliusform Business School

I segni distintivi

L’imprenditore che opera sul mercato mira a distinguersi dai concorrenti che producono o distribuiscono beni o servizi identici o similari tra loro. Ciascun imprenditore, dunque, utilizza dei segni distintivi che gli consentano di individuarlo sul mercato. I principali segni distintivi sono: la ditta, l’insegna ed il marchio. A questi possono aggiungersi altri simboli di identificazione sul mercato, detti segni distintivi atipici, ad esempio lo slogan pubblicitario[i].

La ditta contraddistingue la persona dell’imprenditore nell’esercizio dell’attività d’impresa. L’insegna individua i locali in cui l’attività di impresa è esercitata e contraddistingue l’azienda. Il marchio individua e distingue i beni o i servizi prodotti.

Ciascun segno distintivo ha una sua specifica funzione e disciplina, pur avendo essi finalità comuni. Infatti, favoriscono la formazione ed il successivo mantenimento della clientela, permettendo al pubblico di distinguere i vari operatori economici e soddisfano l’interesse degli imprenditori a munirsi di segni dotati di forza distintiva ed attrattiva. Infine, gli imprenditori, cedendo ad altri i propri segni distintivi, possono monetizzare l’autonomo valore economico che i segni acquistano nel corso del tempo, proprio per il legame che si instaura tra l’impresa e la clientela[ii].

Nell’economia moderna, ruolo centrale riveste il marchio, che è disciplinato dagli artt. 2569-2574 del codice civile e dal codice della proprietà industriale (cd. “c.p.i.”, D. Lgs. n. 30 del 10.02.2005).

Tuttavia, vi sono principi comuni che rappresentano la funzione omogenea dei segni distintivi.

Innanzitutto, la libertà dell’imprenditore nella formazione dei propri segni distintivi nel rispetto della verità, novità e capacità distintiva.

Poi, l’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo dei propri segni distintivi. Diritto relativo alla funzione distintiva rispetto agli imprenditori concorrenti.

Infine, l’imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi. Ed è su questo argomento che si svilupperà la presente analisi.

Il diritto al trasferimento dei segni distintivi non è pieno ed incondizionato, poiché l’ordinamento tende ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il pubblico. Ciascun segno distintivo segue una propria disciplina sul trasferimento.

Il trasferimento della ditta

 La ditta è propria delle imprese individuali. La disciplina del trasferimento della ditta si applica anche alla ragione sociale (propria delle società di persone) ed alla denominazione sociale (propria delle società di capitali), come previsto dall’art. 2567 c.c.

Come stabilisce l’art. 2565 codice civile, al primo comma, la ditta è trasferibile soltanto insieme all’azienda.

La trasferibilità della ditta consente al suo titolare di monetizzarne il valore, che è dato dalla rinomanza che la ditta ha assunto sul mercato ed è strettamente connesso all’avviamento. Talvolta il valore della ditta può superare il valore dei restanti beni del complesso aziendale.

La norma vieta il trasferimento separatamente dall’azienda per evitare che un segno distintivo, strettamente connesso nell’uso ad una certa organizzazione d’impresa, possa essere trasferito autonomamente, ingenerando nei terzi il falso convincimento che ad eguale ditta corrisponda eguale organizzazione. In ogni caso il vincolo di trasferimento unitamente all’azienda sussiste soltanto per la ditta. Diversamente, l’azienda può essere alienata anche senza la relativa ditta. Tale ipotesi è espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 2565 c.c., il quale stabilisce che nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi, la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante. Dunque, per regola generale, la ditta non viene trasferita automaticamente con l’azienda a meno che non sia espressamente previsto. Viceversa, la ditta resta in capo al cedente dell’azienda, il quale può liberamente continuare ad utilizzarla.

Nel trasferimento per atto tra vivi della ditta è necessario il consenso dell’alienante, anche quando la ditta non contenga il cognome del titolare.

Un’ipotesi particolare è quella avente ad oggetto il trasferimento di un ramo d’azienda. In tal caso ci si chiede se la ditta possa essere trasferita non con l’intero complesso aziendale, ma con un suo ramo. La giurisprudenza ha ammesso tale possibilità, affermando che “il trasferimento della ditta può aver luogo anche quando sia trasferita non l’intera organizzazione aziendale, ma solo un ramo di essa suscettibile di costituire un’organica unità, riproducente, sia pure su scala ridotta, le caratteristiche fondamentali dell’azienda originaria, è altrettanto vero che il contestuale trasferimento della ditta deve essere oggetto di una distinta e specifica manifestazione di volontà negoziale, anche se tale manifestazione non richiede un’esplicita menzione della ditta nell’atto di trasferimento, potendo la volontà di estendere il trasferimento alla ditta ricavarsi dall’interpretazione dell’atto[iii].

Si ritiene che anche per la ditta derivata, ovvero già oggetto di precedente trasferimento, si applichi l’art. 2565, primo comma. Quindi non può essere trasferita separatamente dalla relativa azienda. In tale ipotesi non sarebbe necessario il consenso dell’alienante, dato che la ditta derivata individua l’attività d’impresa e non l’imprenditore. A meno che il titolare della ditta derivata abbia inserito anche il suo nome nella ditta originaria, in tal caso il consenso dell’alienante sarebbe necessario.

La ditta derivata potrebbe trarre in inganno i terzi, soprattutto quando essa è trasferita con un ramo d’azienda. Per tutelare i terzi, la giurisprudenza ritiene che chi abbia trasferito l’azienda resti responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questi contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare col cedente[iv]. In tal modo l’alienante è onerato di portare a conoscenza dei terzi, con mezzi idonei, l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta.

Nel caso di successione mortis causa, l’art. 2565, al terzo comma, stabilisce che la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria. Si presume, dunque, il trasferimento in capo al successore, sia esso erede o legatario. Il successore può continuare ad utilizzare la ditta originaria con il nome del titolare defunto, ciò consente di conservare l’avviamento commerciale[v].

Tuttavia, è fatta salva la volontà del de cuius di impedire, tramite disposizione testamentaria, la trasmissione della ditta al successore dell’azienda, vietandone l’uso a chiunque e sancendo l’estinzione della ditta.

Nelle ipotesi di usufrutto ed affitto di azienda, si fa riferimento, rispettivamente, agli articoli 2561 e 2562 del codice civile, in base ai quali l’usufruttuario e l’affittuario devono esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, al fine di mantenere la destinazione economica dell’azienda.

 

Il trasferimento dell’insegna

Il legislatore non ha previsto una disciplina specifica per il trasferimento dell’insegna. L’unica disposizione relativa all’insegna è l’art. 2568 c.c. che rinvia al primo comma dell’art. 2564 c.c.

Si pongono, dunque, i dubbi sulla possibilità che l’insegna circoli separatamente dall’azienda alla quale si riferisce e l’eventuale necessità del consenso affinché l’insegna si trasferisca con l’azienda. Dunque, ci si chiede se siano applicabili all’azienda le disposizioni previste per il trasferimento della ditta.

La dottrina[vi] e la giurisprudenza[vii] prevalenti ritengono che, pur in assenza di un esplicito richiamo all’art. 2565 c.c., l’insegna non possa trasferirsi separatamente dall’azienda. Infatti, anche questa, al pari della ditta, permette di individuare un determinato complesso aziendale, quindi bisogna impedire che i terzi vengano tratti in inganno dalla corrispondenza di un segno distintivo ed un determinato complesso aziendale. Sussistendo la medesima ratio, si ritiene applicabile in via analogica all’insegna, l’art. 2565, comma 1, con conseguente incedibilità dell’insegna separatamente dall’azienda cui inerisce.

Parimenti alla ditta, anche l’insegna segue il trasferimento dell’azienda soltanto qualora sia stato esplicitamente pattuito. Viceversa, l’insegna resta nella titolarità dell’alienante.

Autorevole dottrina[viii] sostiene che l’insegna, non identificando la persona dell’imprenditore ma l’azienda, possa essere oggetto di concessione in licenza con il conseguente couso della medesima insegna da parte di più imprenditori collegati, come avviene negli accordi di franchising.

 

Il trasferimento del marchio

Il marchio è liberamente trasferibile e può essere trasferito a titolo definitivo oppure concesso in licenza, quindi trasferito a titolo temporaneo. In questo secondo caso si parla di licenza di marchio. In tal modo si consente al titolare del marchio di monetizzare il valore commerciale del segno distintivo, che è determinato dalla capacità di attrarre e mantenere una determinata clientela.

La disciplina della circolazione del marchio è stata riformata con il D. Lgs. n. 480 del 1992 e con il D. Lgs. n. 30 del 2005 (c.d. Codice della proprietà industriale). Infatti, l’attuale disciplina di riferimento la troviamo nell’art. 2573 del codice civile e nell’art. 23 del codice della proprietà industriale.

Oggi il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contestuale trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo.

Fa eccezione l’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 2573 c.c., ovvero che il trasferimento del marchio non costituito dalla ditta originaria si presuma quando è trasferita l’azienda. Si parla di presunzione di cessione del marchio di fantasia al cessionario dell’azienda. In tal caso, quindi, il marchio relativo all’azienda oggetto di trasferimento, in mancanza di previsioni contrattuali diverse e contrarie, si intenderà di regola ceduto in modo esclusivo al cessionario dell’azienda stessa, con conseguente impossibilità per il cedente di continuare a farne uso dopo la cessione, nonché di concederne l’uso a terzi, a mezzo di licenza. Inoltre, a tal proposito, la giurisprudenza[ix] ha chiarito che, nel caso in cui il cedente, in epoca anteriore al trasferimento dell’azienda, abbia trasferito il marchio a terzi, tale cessione si considera nulla.

Di recente, l’Agenzia delle Entrate, in risposta ad un quesito fiscale da parte di una società [x], ha chiarito che la cessione di marchi, formule, disegni, domìni e tutti i diritti di proprietà intellettuale connessi, configurano cessione di ramo di azienda. Infatti, sebbene gli asset ceduti, singolarmente considerati, siano suscettibili di autonoma valutazione economica, ceduti contestualmente possono configurare ramo d’azienda, in quanto la società cessionaria intende acquisire il segmento di mercato della società cedente con l’intento di continuare la produzione e la commercializzazione dei prodotti. Tale interpretazione è coerente anche con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE[xi] secondo cui “la nozione di trasferimento (…) di una universalità totale o parziale di beni si riferisce a qualsiasi trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di quest’ultima, compresi gli elementi materiali e immateriali che insieme costituiscono un’impresa o una parte di impresa idonea a svolgere un’attività economica autonoma”. E “affinché si configuri un trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa (…), occorre che il complesso degli elementi trasferiti sia sufficiente per consentire la prosecuzione di un’attività economica autonoma, che può essere anche diversa da quella esercitata dal cedente”.

Se il marchio viene trasferito a titolo definitivo solo per una parte di prodotti, si avrà conseguentemente la contitolarità del marchio tra l’alienante e l’acquirente[xii]. Il trasferimento, inoltre, può riguardare la totalità o solo parte del territorio dello Stato.

La principale novità introdotta dalla riforma è l’ammissibilità della licenza di marchio non esclusiva. Cioè è espressamente consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per la totalità che per una parte di prodotti per i quali il marchio è registrato. Quindi si possono immettere sul mercato prodotti dello stesso genere, con il medesimo marchio, ma provenienti da diverse fonti.

I principali contratti utilizzati per lo sfruttamento economico dei marchi sono il franchising ed il merchandising.

Nell’ipotesi di violazione del marchio da parte del licenziatario, il titolare può avvalersi degli strumenti di tutela previsti dalla legge marchi, quali azione inibitoria, azione di rimozione, azione di nullità ecc., se il licenziatario abbia violato le disposizioni contenute nel contratto di licenza (art. 23, terzo comma, c.p.i.).

Altro aspetto da analizzare è la forma da adottarsi per il trasferimento del marchio. Si ritiene che trovi applicazione il principio generale della libertà della forma negoziale, per cui la volontà di trasferire il marchio può essere manifestata sia con dichiarazione espressa che per fatti concludenti[xiii].

Infine, l’atto di trasferimento del marchio è soggetto a trascrizione nell’apposito registro tenuto dall’Ufficio brevetti. La trascrizione è condizione di opponibilità del trasferimento a terzi e costituisce criterio per risolvere l’eventuale conflitto insorto tra più aventi causa dallo stesso soggetto, ma non ha alcun riflesso sulla validità dell’atto di trasferimento, come previsto dall’art. 39 del c.p.i.

 

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Nello scenario attuale, innovazione e competizione dipendono sempre di più dal possesso di segni distintivi e asset intangibili unici e inimitabili, per questa ragione la difesa della proprietà intellettuale è oggi una leva strategica per molte imprese. Per approfondire tutti i temi legati alla proprietà industriale ed intellettuale potete affidarvi al Master in Avvocato di Affari, al Master in Giurista d’Impresa o al Corso di Specializzazione in Intellectual Property di Meliusform Business School.

[i] Campobasso, Diritto Commerciale, 1. Diritto dell’impresa, Milano 2014, p. 163.

[ii] Ferrentino e Ferrucci, Dell’azienda, Milano 2006, p. 160.

[iii] Cass. Civ., sez. I, sent. 26.03.2009, n. 7305.

[iv] Cass. Civ, sez. III, sent. 11.2.2005, n. 2838

[v] Cass. Civ, sez. I, sent. 23.04.2002, n. 5899.

[vi] Di Cataldo, I segni distintivi, Milano, 1985.

[vii] Cass Civ., sez. I, sent. 27.2.1985, n. 1715.

[viii] Campobasso, Diritto Commerciale, 1. Diritto dell’impresa, Milano 2014, p. 191.

[ix] Cass. Civ., sez. I, sent. 27.07.1983, n. 5152.

[x] Agenzia delle Entrate, risposta a istanza di interpello n. 546 del 12/11/2020.

[xi] Corte di Giustizia UE sentenza C-497/01 del 27 novembre 2003 e sentenza C-444/10 del 10 novembre 2011.

[xii] Marchetti, La riforma della legge marchi, Padova 1994, p. 173 ss.

[xiii] Cass. Civ., sez. I, sent. 20.11.1982, n. 6259.

 

Bibliografia

Campobasso, Diritto Commerciale, 1. Diritto dell’impresa, Milano 2014

Di Cataldo, I segni distintivi, Milano, 1985

Ferrentino e Ferrucci, Dell’azienda, Milano 2006

Marchetti, La riforma della legge marchi, Padova 1994

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